SCAFFALE LECCHESE/248: 2 secoli dalla nascita di Luciano Manara, eroe del Risorgimento
Il 25 marzo 1825, dunque duecento anni fa tondi, nasceva Luciano Manara, tra i massimi eroi del Risorgimento italiano, morto nel giugno 1849 battagliando contro i francesi nella difesa della Repubblica Romana di Garibaldi e Mazzini.
Milanese, milanesissimo, è però gloria di Barzanò dove la famiglia aveva una villa e dove è sepolto. Il paese gli ha addirittura intitolato la squadra di calcio e una bocciofila.
A celebrare l’anniversario, proprio in questi giorni le edizioni “Solferino”, legate alla Rizzoli e al “Corriere della Sera”, hanno pubblicato “Storia di un memorabile perdente. Le due vite e tre morti di Luciano Manara, patriota”, un romanzo dello scrittore piemontese Marco Scardigli, già autore, tra altri titoli, di una storia delle grandi battaglie risorgimentali.
Ma chi era Luciano Manara, al quale sono dedicate tante scuole e strade e piazze in tutta Italia? «Giuseppe Baldassarre Luciano Manara apparteneva alla Milano bene dell’epoca, era un “lion”, termine allora usato per indicare personaggi che oggi chiameremmo “dandy”, ragazzi un poco viziati dagli agi di una famiglia benestante»: così recita la biografia compilata da Stefano Cereda che ritroviamo in “Dio lo vuole. Lecchesi e brianzoli per il Risorgimento italiano”, un numero monografico della rivista storica “Archivi di Lecco” uscito nel maggio 2012 e che sostanzialmente raccoglie gli atti di un convegno tenutosi l’anno precedente a Oggiono in occasione delle celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia.
Continua Cereda: «Il padre Filippo era uno stimato avvocato e la sua era una famiglia borghese che aveva fatto fortuna durante la dominazione francese e contava su possedimenti a Barzanò, in Brianza e nella pianura lombarda ad Antegnate, Sesto Ulteriano e Romano Bergamasco. (…) Giovane e agiato studente, Manara poté frequentare e stringere amicizie con il fior fiore della Milano “bene”, annoverando fra i suoi amici molti personaggi che diverranno personalità di spicco del Risorgimento italiano: i fratelli Dandolo, Carlo Cattaneo, Enrico Cernuschi, Emilio Morosini, il conte Martini, il maestro Giuseppe Verdi. (…) Il nome di Luciano Manara balza agli onori delle cronache milanesi nel 1843 grazie al matrimonio con la giovane Carmelita Fè».
Lei aveva 20 anni e lui 18, si incontrarono nella primavera del 1942: «Luciano Manara s’invaghisce follemente di lei e prende la risoluzione di verla compagna tutta la vita» annota Aida Cavazzani Sentieri, studiosa milanese che nel 1939 dedicò un libro proprio alla figura di lei: “Carmelita Manara nell’Italia eroica dell’unità” (editrice Libraria Scientifica e Letteraria di Milano). Leggiamo ancora: «Il Manara deve però sostenere una lotta per difendere il suo amore; il padre Filippo e la madre Maria Lucia tentano di opporsi al suo matrimonio. Non che condannino l’accensione del figliolo; ma essendo ancora per i suoi diciott’anni quasi un ragazzo, stimano opportuno di frenare quella smania di nozze con l’assennatezza dei consigli e la severità della voce che impone ubbidienza. (…) Se non che, per giungere più presto alla realizzazione del suo sogno (…) rapisce dalla casa paterna la donzella del suo cuore. Il matrimonio regolare fu poi conchiuso ad Antegnate il 10 settembre 1843.»
Cinque anni dopo, si butta nella sua avventura risorgimentale, che si sarebbe conclusa tragicamente nel giro di un anno a Roma dove «Luciano si distinse particolarmente – ci dice ancora Cereda -: era maggiore, venne promosso tenente colonnello e poi colonnello, divenne anche capo di stato maggiore di Garibaldi. Dopo mesi di combattimento il 30 giugno [1849] venne mortalmente ferito a Villa Spada e il suo corpo disteso sul letto di morte venne ritratto dal fido amico, pittore e bersagliere Eleuterio Pagliano che lo aveva accompagnato fin dall’inizio dell’avventura milanese. Qualche giorno dopo, il 3 luglio, la Repubblica romana capitolò».
Quando cominciò tutto, Manara aveva dunque 23 anni ed era già padre di tre figli, l’ultimo – Pio al quale sarebbe poi stato aggiunto anche il nome di Luciano – era praticamente ancora in fasce, essendo nato solo il 19 febbraio.
Sulle barricate delle Cinque giornate – leggiamo nella “Storia di un memorabile perdente” - «ci sono milanesi divisi dalla politica, mazziniani e moderati, monarchici e repubblicani, e altri divisi per rione, per via di abitazione, raggruppati per professione – qua gli stampatori, là i lavoratori del macello disoccupati perché da cinque giorni non entra bestiame vivo in città; e poi impiegati, manovali, facchini, maestri di scuola, cantanti, lampionai, cocchieri; e preti e studenti, e donne, più di quanto non si pensi. Sono tutti lì, pronti per combattere. Ci sono notai che scrivono brevi testamenti caso mai non si torni indietro, sacerdoti che distribuiscono l’estrema unzione assieme all’assicurazione che Dio è dalla nostra parte; amici che si salutano, che si dicono addio e poi vinceremo. C’è chi piange e chi sghignazza; chi ha occhi grandi di paura e chi non vede l’ora, perché è una grande avventura»
Ed è l’avventura raccontata, passo passo, da Scardigli. Del resto, il suo è proprio un romanzo d’avventura più che un vero e proprio romanzo storico, anche se la ricostruzione degli eventi e del contesto è accurata e dettagliata.
L’autore ha scelto quale narratore un giovane, rimasto presto orfano e diventato prima servitore di un vecchio prete e poi ragazzo di bottega in un caffè, dove Manara lo incontra nel 1846 e lo assume quale stalliere. Il ragazzo, chiamato Italo da un padre con slanci risorgimentali e quindi arrestato e morto in carcere, diventa un vero e proprio attendente di Manara, seguendolo in tutte le peripezie che verranno. Spiega, l’autore nella postfazione: «A libro finito, ero onestamente convinto che il personaggio di Italo fosse una mia invenzione. (…) Immaginatevi lo stupore quando ho scoperto questa pagina di Giovanni Visconti Venosta. Più che stupore, direi uno “sciupon”, un colpo: “Il Mangiagalli era cocchiere e cavallerizzo in casa Manara allo scoppiare della rivoluzione e durante le Cinque Giornate, egli si mise accanto al suo padrone e non si staccò più da lui, seguendolo sulle file dei volontari sui campi di Lombardia e sulla mura di Roma”».
Lo sguardo sulla vicenda, dunque, è quello di una persona del popolo che strada facendo scopre che esistono il mare e la democrazia, che «la guerra è peggio di come la si legge nei libri» e «non rende migliori.». Ed è persona tutto sommato estranea agli ardori patriottici, partecipando agli eventi con un atteggiamento tra il disincanto e la meraviglia, facendosi attento cronista o, meglio, cantore delle gesta del proprio “padrone”. Il quale, inutile dirlo, è motore di ogni azione e in ogni azione dimostra valore, sangue freddo e coraggio, per quanto a volte abbia dentro sé «un nocciolo di malinconia più resistente di qualsiasi altro sentimento».
In verità, lo stato d’animo e i pensieri di Manara trapelano dalle lettere che, nel romanzo, l’eroe invita alla moglie per ragguagliarla quasi quotidianamente. Se ne trova traccia proprio nel citato libro di Cavazzani. Ma Scardigli pesca anche dalle lettere segrete che Manara inviò a Fanny Bonacina Spini (pubblicate nel 1939 dall’ Istituto per la storia del Risorgimento, allora Regio, del Vittoriano di Roma): «Probabilmente – dice Scardigli - ci fu una relazione tra lei e il nostro eroe: (…) Io ho preferito raccontare di una profonda amicizia nata durante l’infanzia, ma è un invenzione romanzesca.»
Come detto, il racconto segue l’eroe nei quindici mesi che vanno dal marzo 1848 al giugno 1849: le Cinque giornate, le campagne militari al seguito dell’esercito sabaudo, il fallito assalto al Tirolo con un corpo di volontari e infine Roma con i bersaglieri. Una sorta di odissea. L’accento viene anche posto su alcuni dei “nodi” delle lotte di quegli anni: gli attriti e le diffidenze tra volontari e truppe sabaude, le delusioni che ne seguirono, ma anche la “questione” rivoluzionaria che Italo spiega così: «La questione è semplice e me l’ha spiegata il Conte: “Chi ha ricchezze e potere, guarda con sospetto chi ha combattuto, si è sacrificato, ha rischiato la pelle. Il timore è che il popolo presenti il conto e si convinca – Dio non voglia! – di aver diritto a qualcosa. (….) La maggioranza dei benpensanti è ben attaccata a ciò che possiede ed è convinta che il popolino sia una brutta bestia: comincia tirando sassi a ‘crucchi’ e ‘tognini’ e poi finisce a invadere onorabilissimi palazzi, a far man bassa di argenterie e dispense”.»
Non solo Scardigli, però. La storia di Luciano Manara è stata anche raccontata in un romanzo per ragazzi, “Con il tricolore al collo”, uscito ormai quindici anni fa, nel 2010 (dunque alla vigilia dei 150 anni dell’Unità), pubblicato dall’associazione Sant’Agostino di Cassago Brianza. L’autore è Gianluca Alzati, docente di lettere nelle scuole medie, abitante a Besana Brianza e autore poliedrico. Dice di aver «cominciato a pensare di scrivere un romanzo su Luciano Manara quando ho scoperto che molti ragazzi che giocano nell’omonima squadra di calcio del loro paese, non sanno neppure chi lui sia».
Anche Alzati ha scelto nelle vesti di narratore un orfano, Giuseppe «o, come dicevano tutti, Bepi», cresciuto nei “Martinitt”, come i milanesi chiamavano l’orfanotrofio dell’ex convento di San Martino. Scelta peraltro non casuale: durante le Cinque giornate proprio i “martinitt” erano stati infatti impegnati come staffette di collegamento.
Come Italo, anche Bepi segue Luciano Manara nelle sue imprese fino alla lotta per la difesa della Repubblica Romana.
Con qualche curiosa assonanza quando i due orfani fanno il loro incontro con l’Austriaco. Nelle prime battute del romanzo, infatti, Bepi dice: «Era un giorno di mercato e io stavo guardandomi in giro per cercare qualcosa da sgraffignare (…) mi sentii prendere alle spalle da una mano forte e decisa. (…) e chi vidi? Una coppia di soldatacci austriaci con le loro divise bianche e grigie e i loro spadoni alla cintola.».
E Italo: «Un giorno mi sforzavo di arrivare a un paio di mele cadute da una cesta (…) quando mi è arrivato alle spalle l’Austriaco, un ragazzo più grande di me, con i capelli così biondi da sembrare bianchi, la faccia tagliata con l’accetta, mani e piedi grossi per picchiare meglio e una cattiveria che se non è tedesca allora è croata».

In quanto al finale, così lo racconta Bepi: «Luciano Manara era stato fatto sdraiare su di un letto, attorno a lui c’erano i suoi più fedeli soldati, molti dei quali lo seguivano fino dalle giornate di marzo a Milano, come me. “Bepi, hai portato a termine il tuto compito?” mi disse con un filo di voce. “Sì, è tutto a posto, ora stai tranquillo, non sforzarti di parlare.” “Bene, ora ne hai un altro, ricordati: devi scrivere la nostra storia…” “Va bene Luciano, la scriveremo insieme…” Mentre parlavo avevo un groppo in gola e stavo per scoppiare a piangere e così mi allontanai di un passo per non fargli vedere la disperazione nei mei occhi. (…) Luciano Manara morì a ventiquattro anni, giovane e bello come tutti gli eroi.»
E Italo: «Quali sono state le ultime parole di Luciano Manara? Perfino io, che sono ignorante, so che bisogna riportarle, perché sono l’unica cosa che gli stolti ricorderanno della vita e della morte dell’eroe. Così si deve fare e così farò. Le ultime parole di Luciano Manara sono state rivolte a Emilio Dandolo che, inginocchiato al fianco, piange come un bambino in divisa da bersagliere e lo prega di non abbandonarlo anche lui, di non morire. Con un filo di voce e un’ombra di sorriso: “Emilio, anche a me dispiace.” Altro non so, sono scappato via, perché il cuore non reggeva a tanto dolore. (…) Forse doveva finire così e qualcuno dirà che è perfino giusto, o almeno logico. Io so solo di aver perduto, dopo mio padre e mia madre, un altro genitore».
Altre le ultime parole citate da Cavazzani che racconta così gli ultimi istanti di vita dell’eroe: «Benché la mitraglia continuasse a fischiare, Luciano Manara passava rapidamente da un capo all’altro provvedendo alla difesa quand’ecco un colpo di carabina lo passava da parte a parte facendolo cadere tra le braccia di Emilio Dandolo col petto squarciato. Nel suo libro sui volontari, il Dandolo descrisse la morte di lui, le convulsioni dell’atroce agonia, la rassegnazione cristianamente soave di quell’amara dipartita. (…) Memorabili fra le altre queste parole che Luciano aveva mormorato, nel rantolo dell’agonia: “Dì a mia moglie che mi perdoni i dispiaceri che le ho dato, alleva tu i miei figli nell’amore della patria e della religione»
I romanzi si fermano alla morte. Ma all’odissea da vivo avrebbe fatto seguito anche un’odissea da morto con la salma costretta a viaggiare clandestinamente.
Ce ne parla ancora Cavazzani: dopo il funerale «modesti nelle forme ma imponenti» celebrati il 2 luglio a Roma il corpo venne deposto in una cappella sotterranea in attesa di essere trasferito a Vezia, in Svizzera, per essere sepolto accanto agli amici e compagni di battaglia Enrico Dandolo ed Emilio Morosini, anch’essi morti a Roma. Finalmente a settembre le casse vennero inviate a Genova via mare dove arrivarono il giorno 4 e «furono fatte proseguire per Arona; donde per Magadino pervennero a Vezia e vennero calate nella cappella del giardino di villa Morosini».
Intanto, però, i genitori avevano chiesto l’autorizzazione alle autorità austriache per riportare le spoglie in Lombardia, autorizzazione che tardò non poco, ma infine arrivò: «Così gli ultimi di settembre la cassa col cadavere di Luciano fu trasportata come contenesse “Oggetti di storia naturale” dal confine svizzero di Chiasso a Sesto Ulteriano presso Melegnano. (…) Sarebbe stato desiderio della vedova di lasciare il suo Luciano a Vezia (…) ma non poteva opporsi al desiderio della suocera che aveva “diritto al corpo di suo figlio” quanto ne vantava lei (…) e piegava il capo rassegnata».
L’ulteriore seguito è raccontato da Alberto Cappellini in “Barzanò. Notizie storiche” pubblicato nel 1959 dalla parrocchia: nel 1864, la famiglia chiese di poter utilizzare la cappella dedicata a San Sebastiano, situata nel parco della villa barzanese, quale tomba di famiglia e il consiglio comunale diede la concessione. Infine, nel 1877, «la sottoprefettura di Lecco pregava di “informare la signora Maria Manara che è stata autorizzata ad esumare e trasportare la salma del fu Luciano Manara per essere depositata nel sepolcro di famiglia”».


Nel 1890 vi fu l’inaugurazione ufficiale della tomba, poi la villa venne ceduta e il parco smembrato dai successivi proprietari e nel 1935 la cappella passò al Comune: vi furono alcuni interventi di restauro e nel 1938 l’inaugurazione di quello che ormai era diventato un vero e proprio monumento , sfiorato forse senza accorgersene da chi percorre la strada provinciale.
Milanese, milanesissimo, è però gloria di Barzanò dove la famiglia aveva una villa e dove è sepolto. Il paese gli ha addirittura intitolato la squadra di calcio e una bocciofila.





Quando cominciò tutto, Manara aveva dunque 23 anni ed era già padre di tre figli, l’ultimo – Pio al quale sarebbe poi stato aggiunto anche il nome di Luciano – era praticamente ancora in fasce, essendo nato solo il 19 febbraio.
Sulle barricate delle Cinque giornate – leggiamo nella “Storia di un memorabile perdente” - «ci sono milanesi divisi dalla politica, mazziniani e moderati, monarchici e repubblicani, e altri divisi per rione, per via di abitazione, raggruppati per professione – qua gli stampatori, là i lavoratori del macello disoccupati perché da cinque giorni non entra bestiame vivo in città; e poi impiegati, manovali, facchini, maestri di scuola, cantanti, lampionai, cocchieri; e preti e studenti, e donne, più di quanto non si pensi. Sono tutti lì, pronti per combattere. Ci sono notai che scrivono brevi testamenti caso mai non si torni indietro, sacerdoti che distribuiscono l’estrema unzione assieme all’assicurazione che Dio è dalla nostra parte; amici che si salutano, che si dicono addio e poi vinceremo. C’è chi piange e chi sghignazza; chi ha occhi grandi di paura e chi non vede l’ora, perché è una grande avventura»
Ed è l’avventura raccontata, passo passo, da Scardigli. Del resto, il suo è proprio un romanzo d’avventura più che un vero e proprio romanzo storico, anche se la ricostruzione degli eventi e del contesto è accurata e dettagliata.
L’autore ha scelto quale narratore un giovane, rimasto presto orfano e diventato prima servitore di un vecchio prete e poi ragazzo di bottega in un caffè, dove Manara lo incontra nel 1846 e lo assume quale stalliere. Il ragazzo, chiamato Italo da un padre con slanci risorgimentali e quindi arrestato e morto in carcere, diventa un vero e proprio attendente di Manara, seguendolo in tutte le peripezie che verranno. Spiega, l’autore nella postfazione: «A libro finito, ero onestamente convinto che il personaggio di Italo fosse una mia invenzione. (…) Immaginatevi lo stupore quando ho scoperto questa pagina di Giovanni Visconti Venosta. Più che stupore, direi uno “sciupon”, un colpo: “Il Mangiagalli era cocchiere e cavallerizzo in casa Manara allo scoppiare della rivoluzione e durante le Cinque Giornate, egli si mise accanto al suo padrone e non si staccò più da lui, seguendolo sulle file dei volontari sui campi di Lombardia e sulla mura di Roma”».
Lo sguardo sulla vicenda, dunque, è quello di una persona del popolo che strada facendo scopre che esistono il mare e la democrazia, che «la guerra è peggio di come la si legge nei libri» e «non rende migliori.». Ed è persona tutto sommato estranea agli ardori patriottici, partecipando agli eventi con un atteggiamento tra il disincanto e la meraviglia, facendosi attento cronista o, meglio, cantore delle gesta del proprio “padrone”. Il quale, inutile dirlo, è motore di ogni azione e in ogni azione dimostra valore, sangue freddo e coraggio, per quanto a volte abbia dentro sé «un nocciolo di malinconia più resistente di qualsiasi altro sentimento».

Come detto, il racconto segue l’eroe nei quindici mesi che vanno dal marzo 1848 al giugno 1849: le Cinque giornate, le campagne militari al seguito dell’esercito sabaudo, il fallito assalto al Tirolo con un corpo di volontari e infine Roma con i bersaglieri. Una sorta di odissea. L’accento viene anche posto su alcuni dei “nodi” delle lotte di quegli anni: gli attriti e le diffidenze tra volontari e truppe sabaude, le delusioni che ne seguirono, ma anche la “questione” rivoluzionaria che Italo spiega così: «La questione è semplice e me l’ha spiegata il Conte: “Chi ha ricchezze e potere, guarda con sospetto chi ha combattuto, si è sacrificato, ha rischiato la pelle. Il timore è che il popolo presenti il conto e si convinca – Dio non voglia! – di aver diritto a qualcosa. (….) La maggioranza dei benpensanti è ben attaccata a ciò che possiede ed è convinta che il popolino sia una brutta bestia: comincia tirando sassi a ‘crucchi’ e ‘tognini’ e poi finisce a invadere onorabilissimi palazzi, a far man bassa di argenterie e dispense”.»


Come Italo, anche Bepi segue Luciano Manara nelle sue imprese fino alla lotta per la difesa della Repubblica Romana.
Con qualche curiosa assonanza quando i due orfani fanno il loro incontro con l’Austriaco. Nelle prime battute del romanzo, infatti, Bepi dice: «Era un giorno di mercato e io stavo guardandomi in giro per cercare qualcosa da sgraffignare (…) mi sentii prendere alle spalle da una mano forte e decisa. (…) e chi vidi? Una coppia di soldatacci austriaci con le loro divise bianche e grigie e i loro spadoni alla cintola.».
E Italo: «Un giorno mi sforzavo di arrivare a un paio di mele cadute da una cesta (…) quando mi è arrivato alle spalle l’Austriaco, un ragazzo più grande di me, con i capelli così biondi da sembrare bianchi, la faccia tagliata con l’accetta, mani e piedi grossi per picchiare meglio e una cattiveria che se non è tedesca allora è croata».

In quanto al finale, così lo racconta Bepi: «Luciano Manara era stato fatto sdraiare su di un letto, attorno a lui c’erano i suoi più fedeli soldati, molti dei quali lo seguivano fino dalle giornate di marzo a Milano, come me. “Bepi, hai portato a termine il tuto compito?” mi disse con un filo di voce. “Sì, è tutto a posto, ora stai tranquillo, non sforzarti di parlare.” “Bene, ora ne hai un altro, ricordati: devi scrivere la nostra storia…” “Va bene Luciano, la scriveremo insieme…” Mentre parlavo avevo un groppo in gola e stavo per scoppiare a piangere e così mi allontanai di un passo per non fargli vedere la disperazione nei mei occhi. (…) Luciano Manara morì a ventiquattro anni, giovane e bello come tutti gli eroi.»
E Italo: «Quali sono state le ultime parole di Luciano Manara? Perfino io, che sono ignorante, so che bisogna riportarle, perché sono l’unica cosa che gli stolti ricorderanno della vita e della morte dell’eroe. Così si deve fare e così farò. Le ultime parole di Luciano Manara sono state rivolte a Emilio Dandolo che, inginocchiato al fianco, piange come un bambino in divisa da bersagliere e lo prega di non abbandonarlo anche lui, di non morire. Con un filo di voce e un’ombra di sorriso: “Emilio, anche a me dispiace.” Altro non so, sono scappato via, perché il cuore non reggeva a tanto dolore. (…) Forse doveva finire così e qualcuno dirà che è perfino giusto, o almeno logico. Io so solo di aver perduto, dopo mio padre e mia madre, un altro genitore».
Altre le ultime parole citate da Cavazzani che racconta così gli ultimi istanti di vita dell’eroe: «Benché la mitraglia continuasse a fischiare, Luciano Manara passava rapidamente da un capo all’altro provvedendo alla difesa quand’ecco un colpo di carabina lo passava da parte a parte facendolo cadere tra le braccia di Emilio Dandolo col petto squarciato. Nel suo libro sui volontari, il Dandolo descrisse la morte di lui, le convulsioni dell’atroce agonia, la rassegnazione cristianamente soave di quell’amara dipartita. (…) Memorabili fra le altre queste parole che Luciano aveva mormorato, nel rantolo dell’agonia: “Dì a mia moglie che mi perdoni i dispiaceri che le ho dato, alleva tu i miei figli nell’amore della patria e della religione»
I romanzi si fermano alla morte. Ma all’odissea da vivo avrebbe fatto seguito anche un’odissea da morto con la salma costretta a viaggiare clandestinamente.
Ce ne parla ancora Cavazzani: dopo il funerale «modesti nelle forme ma imponenti» celebrati il 2 luglio a Roma il corpo venne deposto in una cappella sotterranea in attesa di essere trasferito a Vezia, in Svizzera, per essere sepolto accanto agli amici e compagni di battaglia Enrico Dandolo ed Emilio Morosini, anch’essi morti a Roma. Finalmente a settembre le casse vennero inviate a Genova via mare dove arrivarono il giorno 4 e «furono fatte proseguire per Arona; donde per Magadino pervennero a Vezia e vennero calate nella cappella del giardino di villa Morosini».
Intanto, però, i genitori avevano chiesto l’autorizzazione alle autorità austriache per riportare le spoglie in Lombardia, autorizzazione che tardò non poco, ma infine arrivò: «Così gli ultimi di settembre la cassa col cadavere di Luciano fu trasportata come contenesse “Oggetti di storia naturale” dal confine svizzero di Chiasso a Sesto Ulteriano presso Melegnano. (…) Sarebbe stato desiderio della vedova di lasciare il suo Luciano a Vezia (…) ma non poteva opporsi al desiderio della suocera che aveva “diritto al corpo di suo figlio” quanto ne vantava lei (…) e piegava il capo rassegnata».



Nel 1890 vi fu l’inaugurazione ufficiale della tomba, poi la villa venne ceduta e il parco smembrato dai successivi proprietari e nel 1935 la cappella passò al Comune: vi furono alcuni interventi di restauro e nel 1938 l’inaugurazione di quello che ormai era diventato un vero e proprio monumento , sfiorato forse senza accorgersene da chi percorre la strada provinciale.
Dario Cercek