SCAFFALE LECCHESE/245: il Carnevale italiano, opera dello storico briviese Cantù

In Ignazio Cantù, scrittore e storico di Brivio, nato nel 1810 e morto nel 1877, fratello minore del più celebre Cesare, ci siamo già imbattuti in passato parlando della “Domenica a Germignano”, uno dei tanti libri che aveva pubblicato seguendo quella “vocazione” all’educazione popolare che fu la sua impronta.  E scopo educativo aveva anche una storia del Carnevale che pubblicò nel 1850 con l’editore milanese Vallardi propendendo per un titolo decisamente programmatico: “Il Carnevale italiano ovvero teatri, maschere e feste presso gli antichi e i moderni. Storia utile-amena narrata alla gioventù».
L’opera è infatti rivolta soprattutto ai giovani, per i quali l’autore nutriva «sentimenti d’affezione che mi tengono legato all’età vostra, alle vostre virtù, a quel candore sopra tutto che è proprio dei vostri begli anni».
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Ignazio Cantù

Con tutto che, a metà dell’Ottocento, un pubblico giovanile non doveva essere particolarmente vasto. Vero che in Lombardia il governo austriaco aveva avviato scuole pubbliche, ma parlare di un vero e proprio sistema di istruzione sarebbe forse eccessivo. Lo studio era prerogativa dei benestanti. A questi era dunque era destinato il libro. Che, per la grafica raffinata e con tanto di illustrazioni a colori, probabilmente non doveva nemmeno costare poco. 
Proprio perché rivolto a un pubblico particolare, quello dei giovani, “Il Carnevale italiano” è un’opera sostanzialmente divulgativa che affiancava altre analoghe pubblicazioni curate dall’autore. Per esempio, dalla prefazione dello stesso Cantù, par di capire che “Il Carnevale” sia stato se non diffuso quanto meno pubblicato assieme a un’altra opera dagli intenti pedagogici, il “Libro d’oro delle illustri giovinette” nel quale sono raccolte alcune biografie di donne famose che dovevano in qualche modo fungere da esempio. 
In quanto al “Carnevale”, rivolgendosi direttamente ai “giovani amici” e alle “gentilissime lettrici”, Cantù scrive: «E’ un volumetto di materia   svariata, permettetemi di dire graziosa. (…) Se tramezzo ai vostri studi più gravi vi corresse ancora la mente a qualche trastullo così naturale alla vostra età, così proprio allo spirito vivace degli anni vostri, vogliate anche da esso imparar qualche cosa, giacché tutto a questo mondo può servir di studio e d’istruzione. Uno di quegli uomini che da tanti secoli sono scomparsi dal mondo, ma che vivono nella memoria come fossero o ancor vivi di fatto, o appena appena rapiti, uno di quegli uomini grandissimi e che chiamavasi Platone, volea che la scienza fosse inseguita in mezzo ai giardini fioriti e abbelliti di statue graziose. Così la gravità della dottrina riceve qualche cosa di più amabile, e noi ci familiarizziamo di più buon grado con quegli uomini dotti che sono anche cortesi e gentili». Perciò, «eccovi dunque lo scopo di questo libretto che abbiamo scritto appositamente per voi: vi sono maschere, teatri, musica e danze, ma vi è insieme storia, letteratura, poesie, notizie d’uomini illustri; badate pertanto a tutto, e formatevi così un manicaretto d’ingredienti dilettevoli e vantaggiosi».
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Certamente va preso per quello che è: una sorta di “bigino” ante litteram, non certo un testo considerevole nella bibliografia del Carnevale, bensì testimonianza degli intenti divulgativi dell’epoca. Tanto più che sia il Carnevale che tutto il resto (il teatro e le maschere, le feste e le danze) sono raccontati po’ disordinatamente. Alla maniera degli eruditi ottocenteschi. I quali, si sa, sopperivano a certe lacune documentarie ricorrendo spesso a una sbrigliata fantasia. 
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Basti leggere quanto lo stesso Cantù scrive a proposito della nascita del personaggio di Arlecchino: se riconosce nella figura dello Zanni il padre di una delle maschere italiane più celebri, la sua evoluzione è raccontata miscelando vero e falso o, quanto meno, dando credito a ipotesi un po’ abborracciate: «A cambiargli il nome (allo Zanni) venne un valentuomo di San Giovanni Bianco in Val Brembana sul Bergamasco detto Arlecchino. Costui tolse a rappresentare il carattere dello Zanni in modo così nuovo alla corte di Madrid che da quel momento in luogo di Zanni si disse Arlecchino».
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Si tratta di una spiegazione che mischia confusamente elementi diversi che non è il caso di stare a dettagliare. Però, testimonia che già circa due secoli fa la località di San Giovanni Bianco (in particolare la frazione di Oneta), allo sbocco di quella Valle Taleggio con i suoi legami anche valsassinesi, era indicata come la culla del “mito”. Le mappe turistiche di oggi ci conducono nel piccolo paese della Valle Brembana per visitare la “Casa di Arlecchino”: si tratta in realtà di un palazzo nobiliare del Quattrocento che, per quanto pregevole, non avrebbe forse richiamato molti di quei visitatori attratti invece dal “mito” di Arlecchino. Sul sito del museo leggiamo: «Il nome “Casa di Arlecchino”, con cui è comunemente conosciuto il palazzo signorile del borgo, è legato all’attore rinascimentale Alberto Naselli, che rappresentò lo Zanni e Arlecchino nelle principali corti europee e che, secondo la tradizione, soggiornò nel palazzo di Oneta, ma non ci sono fonti documentarie in grado di provarlo».
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Inoltre, se il legame tra Carnevale e teatro è già ben evidente, non lo sono invece le radici popolari e l’intero ciclo delle feste invernali. Bisognerà, del resto, attendere circa un secolo perché gli studi antropologici ed etnografici aprano nuovi orizzonti per gli studiosi ottocenteschi ancora impensabili. Le poche e più rinomate feste carnevalesche che il Cantù censisce sono quindi viste più sotto l’aspetto spettacolare che “rituale”.
Per gli stessi motivi mancano eventuali richiami a tradizioni locali. Del resto, era opera rivolta a un pubblico di carattere “nazionale”, se così si può dire, visto che l’Italia nazione non lo era ancora e nazioni non potevano essere considerati i piccoli Stati in cui era frammentata. 
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In quanto agli argomenti trattati, nell’andare alla ricerca delle origini del Carnevale, Ignazio Cantù segue l’itinerario classico, quello che fa originare la tradizione dalle feste latine (i Baccanali, i Saturnali, i Lupercali) rimaste poi ben vive nonostante il cristianesimo: «Sebbene la religione di Cristo, abolendo l’antica religione di Roma, facesse guerra a tali solennità sacre agli dei falsi e bugiardi, pure continuarono un pezzo ancora anche presso i cristiani. Talvolta però si modificarono assumendo una diversa apparenza».
Naturalmente, non seguiremo dettagliatamente indice e cronologia così come definite da Cantù. Indugiamo sulle feste “moderne”: sono citati, anche in questo caso in maniera un po’ sommaria, il Carnevale romano, quello fiorentino, una festa veronese e naturalmente Venezia.
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In quanto al “Carnovalone di Milano”, Cantù ricorda come già san Carlo Borromeo si lamentasse «del fracasso che faceasi con giostre, spettacoli, tornei, maschere, balli, correrie» ma che «i suoi lamenti non ebbero profitto». Infatti «si faceano chiassose mascherate sul corso di porta Romana, in contrada Larga a comodo delle quali la città aprì la strada che a nome del governatore d’allora fu detta Velasca. A dispetto di tutte le gride, lanciavansi pomi, aranci, e altresì uova, che i galanti fabbricavano piene di acque odorose». 
Il “nostro” fa risalire le usanze milanesi a «una congrega di gente chiamata la “badia dei Meneghini”, composta quasi tutta da facchini mercanti di vini e di legna e quasi tutti provenienti dalle sponde del lago maggiore». Il richiamo evidente è alla cinquecentesca Accademia dei Facchini della ticinese Val di Blenio che ebbe nel pittore Giovan Paolo Lomazzo uno dei suoi più illustri esponenti.
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Sennonché, liquidata in quattro e quattr’otto la “facchinata”, l’autore preferisce dilungarsi su quel carnevale fuori stagione che furono le nozze dell’ancora diciassettenne principe Ferdinando d’Asburgo, celebrate in ottobre (del 1771) e i cui festeggiamenti si richiamarono appunto alle sfilate dei giorni “grassi”. Nozze descritte «nientemeno che dal più celebre poeta Giuseppe Parini» e «le sue parole riportiamo qui per intero». Pertanto: «Dalla porta Ticinese, per la quale sogliono entrar coloro che vengono dal lago maggiore, entrò la festevole e pomposa brigata nella città: e quindi fra mezzo ad un polo immenso che empiva tutte le vie, le logge e le finestre, avanzossi direttamente alla volta del ducal palazzo per quivi presentarsi agli sposi. Tutta la mascherata era o a cavallo o sopra carri vagamente inventati e dipinti, o in carrozze e in calessi scoperti d’ogni genere, e tutti con ornamenti caratteristici della rappresentazione…». Eccetera.
Dario Cercek
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