Lecco: il ruolo dei genitori per prevenire il cyberbullismo nell'incontro promosso da 'Noi Bertacchi'
Spesso i ragazzi non sono consapevoli dei rischi a cui vanno incontro e magari nemmeno di taluni atti che compiono e che ritengono essere solo uno scherzo che invece può avere in chi lo subisce conseguenze devastanti. E allora è compito dei genitori educare all’uso delle nuove tecnologie e controllare l’uso dello smartphone.
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Bullismo “tradizionale” e cosiddetto cyberbullismo (quello in internet), l’argomento dell’incontro tenutosi ieri sera all’Officina Badoni di Lecco su iniziativa dell’istituto scolastico Bertacchi e dell’associazione “Noi Bertacchi” che riunisce genitori e studenti della stessa scuola: due temi a volte convergenti e a volte divergenti, con il secondo a intrecciarsi con la “questione” dell’uso responsabile della rete. A evidenziare le molteplici sfaccettature e la complessità di un problema che dovrebbe essere affrontato unendo le forze in quella che è stata definita una «comunità educante» che coinvolga genitori, istituzioni, ragazzi.
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“Mai più un banco vuoto”, il titolo della serata che si richiamava a una campagna promossa a livello nazionale dall’associazione “Fare per bene” e che prende spunto da un banco vuoto in particolare, quello lasciato da Carolina, una quattordicenne suicidatasi perché vittima di cyberbullismo.
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Proprio alcune esponenti dell’associazione “Fare per bene”, la docente Giusy Laganà e l’avvocata Cristina Crugnola, sono state invitate a indicare ai genitori lecchesi la strada da seguire per prevenire il fenomeno, riconoscerne i segnali, come comportarsi.
Con loro anche l’ispettore della Questura lecchese Pietro Aiello che da tempo gira nelle scuole a istruire i ragazzi, ma anche Elena Ferrara, senatrice del Pd dal 2004 al 2009 e ritenuta la madre della legge varata nel 2017 sul tema del bullismo, generata proprio dall’episodio di Carolina della quale l’onorevole è stata insegnante di musica alle scuole medie. A presentare i relatori, Paolo Giudici di “Noi Bertacchi”.
Ad aprire la serata è stato Davide Milani, ex studente dello stesso “Bertacchi” che, con lo pseudonimo di “Sharp Flame”, compone brani rap come “Effetto spettatore” dedicato proprio al bullismo, fatto ascoltare al pubblico. Egli stesso ha spiegato: “Effetto spettatore” perché troppo spesso quando si assiste a episodi di violenza non si interviene perché si pensa lo faccia qualcun altro, ma anche il ragazzo che assiste e filma «certo non è meglio». Poi, uno sguardo alla psicologia dei ragazzi presi di mira che compiono gesti pericolosi per farsi accettare oppure si tolgono la vita: non tutti sono Forrest Gump, non tutti hanno una personalità così forte da non lasciarsi scalfire dalle angherie. Quindi, una critica alla disinformazione e un invito a non considerare una vergogna il rivolgersi allo psicologo, ma anche la considerazioni che gli adulti non siano esenti da colpe: occorre rendersi partecipi della vita dei figli, non solo giudicare, mentre invece sembra che tutte le colpe siano dei rapper come se dovessero essere loro a educare i figli e allora bisognerebbe prendersela anche con gli attori di certi film».
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E’ quindi intervenuto Pietro Aiello a raccontare quel che dice agli studenti nel corso dei vari incontri (circa 1800 quelli raggiunti in questi anni in diverse scuole della provincia).
«Noi genitori – ha detto – siamo stati un esempio negativo. La Rete ci ha portato fuori strada. Noi magari siamo consapevoli dei rischi, ma non siamo stati dei buoni educatori. Se una volta in famiglia c’era la regola che non si accendeva la televisione a pranzo o a cena, adesso mangiamo tutti con lo smartphone vicino al piatto». E tutto sembra essere soltanto un gioco: «L’80% dei ragazzi conosce la password dell’amico per accedere allo smartphone. Loro non si rendono conto che la password devono averla solo i genitori. Dobbiamo quindi aprire lo smartphone dei nostri figli e fare aprire loro il nostro smartphone che è anche una maniera per aiutarci a ripulirli di tante “porcherie”. Perché anche noi genitori siamo stati ignoranti: non sapevamo quello a cui si andava incontro. Già sui tredici, quattordici anni, sono in gara per chi ha più follower: mille, millecinquecento. E così ci si apre a una platea vastissima di persone tra le quali si nascondono truffatori e pedofili».
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Secondo Elena Ferrara, oggi abbiamo una maggior consapevolezza rispetto al 2013, l’anno nel quale si è uccisa Carolina e la legge offre qualche strumento in più. Prevede per esempio l’ammonimento del bullo da parte del questore e sta funzionando. E’ una maniera di intervenire tempestivamente nei casi di bullismo “tradizionale” e tende a responsabilizzare i giovani coinvolti. E’ un tema di cui si parla da cinquant’anni. All’epoca, le famiglie tendevano a minimizzare, ma la realtà è che occorre intervenire subito, perché all’inizio magari può sembrare solo uno scherzo. E se l’ammonimento è preventivo, c’è poi il dopo: gli interventi riparativi della scuola, quello del tribunale dei minori, eventuali processi, la verifica sull’insufficienza educativa della famiglia del bullo. Nel caso di Carolina, i ragazzi coinvolti erano cinque sostanzialmente coetanei: per loro c’è stata la messa alla prova e poi il perdono. «E sono orgogliosa di una giustizia che ha portato quei ragazzi a maturare un pentimento. Ma naturalmente occorre prevenire e l’accompagnamento da parte degli adulti è importante, il controllo parentale sull’uso degli smartphone ha un senso: bisogna far capire ai ragazzi che la tutela della loro privacy è importante, è come attraversare la strada sulle strisce pedonali: si ha la precedenza, ma va prestata attenzione perché magari qualcuno non si ferma».
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Sugli aspetti giudiziari si è soffermata l’avvocata Cristina Crugnola che ha rimarcato come i ragazzi non siano consapevoli delle conseguenze penali di certi gesti e nemmeno che i genitori siano tenuti al risarcimento. Perché i genitori hanno l’obbligo di educare i figli all’uso delle tecnologie, a installare app per il controllo parentale. «A volte vado nelle scuole elementari e vedo bambini che usano smartphone senza alcuna limitazione. E se il bullismo ha confini spaziali e temporali, il cyberbullismo non li ha: le cose peggiori avvengono tra le 21 e le 6 del mattino. I bambini tra i 9 e gli 11 anni stanno on line quattro ore al giorno e sono ore sottratte al sonno e allo studio. Li chiamiamo nativi digitali, ma non sono nativi per niente. Sono ragazzi che devono imparare a usare le nuove tecnologie: bisogna far capire loro che certi giochi gratis hanno un costo e quel costo sono i nostri dati personali. L’algoritmo di Facebook conosce di noi il 70%, conosce più di quanto di noi conosciamo noi stessi. Se nostro figlio dice che esce di casa, gli chiediamo dove va, con chi e quando torna. E magari dal balcone lo seguiamo anche con lo sguardo per vedere se va nella direzione giusta. E on line, non ci preoccupiamo: lo vediamo sul divano e ce ne stiamo tranquilli….
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Bisogna stare in ascolto – ha sottolineato Giusy Laganà - Noi vorremmo che loro ci siano, ma quando vogliamo noi. Non funziona così. Bisogna sederci con loro tutti i giorni, dialogare, sono loro i primi a dirci cosa dobbiamo fare. Non possiamo dire “ai nostri tempi….”. Siamo in un’epoca diversa. E siamo noi i primi a predicare bene e razzolare male. Ma se predichiamo e razzoliamo bene, eccome se ci sono… Occorre imparare il loro linguaggio e smettiamola di fare gli amici dei figli: hanno bisogno di paletti e regole e il monitoraggio parentale è importante».
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Concludendo, Laganà, ha però messo in guardia anche da un linguaggio di violenza ormai sdoganato: i rapper certo, le canzoni, «andate ad ascoltare certe canzoni di Sanremo». A quei linguaggi che sviliscono le persone i ragazzi non devono abituarsi».
Bullismo “tradizionale” e cosiddetto cyberbullismo (quello in internet), l’argomento dell’incontro tenutosi ieri sera all’Officina Badoni di Lecco su iniziativa dell’istituto scolastico Bertacchi e dell’associazione “Noi Bertacchi” che riunisce genitori e studenti della stessa scuola: due temi a volte convergenti e a volte divergenti, con il secondo a intrecciarsi con la “questione” dell’uso responsabile della rete. A evidenziare le molteplici sfaccettature e la complessità di un problema che dovrebbe essere affrontato unendo le forze in quella che è stata definita una «comunità educante» che coinvolga genitori, istituzioni, ragazzi.
“Mai più un banco vuoto”, il titolo della serata che si richiamava a una campagna promossa a livello nazionale dall’associazione “Fare per bene” e che prende spunto da un banco vuoto in particolare, quello lasciato da Carolina, una quattordicenne suicidatasi perché vittima di cyberbullismo.
Proprio alcune esponenti dell’associazione “Fare per bene”, la docente Giusy Laganà e l’avvocata Cristina Crugnola, sono state invitate a indicare ai genitori lecchesi la strada da seguire per prevenire il fenomeno, riconoscerne i segnali, come comportarsi.
Con loro anche l’ispettore della Questura lecchese Pietro Aiello che da tempo gira nelle scuole a istruire i ragazzi, ma anche Elena Ferrara, senatrice del Pd dal 2004 al 2009 e ritenuta la madre della legge varata nel 2017 sul tema del bullismo, generata proprio dall’episodio di Carolina della quale l’onorevole è stata insegnante di musica alle scuole medie. A presentare i relatori, Paolo Giudici di “Noi Bertacchi”.
E’ quindi intervenuto Pietro Aiello a raccontare quel che dice agli studenti nel corso dei vari incontri (circa 1800 quelli raggiunti in questi anni in diverse scuole della provincia).
«Noi genitori – ha detto – siamo stati un esempio negativo. La Rete ci ha portato fuori strada. Noi magari siamo consapevoli dei rischi, ma non siamo stati dei buoni educatori. Se una volta in famiglia c’era la regola che non si accendeva la televisione a pranzo o a cena, adesso mangiamo tutti con lo smartphone vicino al piatto». E tutto sembra essere soltanto un gioco: «L’80% dei ragazzi conosce la password dell’amico per accedere allo smartphone. Loro non si rendono conto che la password devono averla solo i genitori. Dobbiamo quindi aprire lo smartphone dei nostri figli e fare aprire loro il nostro smartphone che è anche una maniera per aiutarci a ripulirli di tante “porcherie”. Perché anche noi genitori siamo stati ignoranti: non sapevamo quello a cui si andava incontro. Già sui tredici, quattordici anni, sono in gara per chi ha più follower: mille, millecinquecento. E così ci si apre a una platea vastissima di persone tra le quali si nascondono truffatori e pedofili».
Secondo Elena Ferrara, oggi abbiamo una maggior consapevolezza rispetto al 2013, l’anno nel quale si è uccisa Carolina e la legge offre qualche strumento in più. Prevede per esempio l’ammonimento del bullo da parte del questore e sta funzionando. E’ una maniera di intervenire tempestivamente nei casi di bullismo “tradizionale” e tende a responsabilizzare i giovani coinvolti. E’ un tema di cui si parla da cinquant’anni. All’epoca, le famiglie tendevano a minimizzare, ma la realtà è che occorre intervenire subito, perché all’inizio magari può sembrare solo uno scherzo. E se l’ammonimento è preventivo, c’è poi il dopo: gli interventi riparativi della scuola, quello del tribunale dei minori, eventuali processi, la verifica sull’insufficienza educativa della famiglia del bullo. Nel caso di Carolina, i ragazzi coinvolti erano cinque sostanzialmente coetanei: per loro c’è stata la messa alla prova e poi il perdono. «E sono orgogliosa di una giustizia che ha portato quei ragazzi a maturare un pentimento. Ma naturalmente occorre prevenire e l’accompagnamento da parte degli adulti è importante, il controllo parentale sull’uso degli smartphone ha un senso: bisogna far capire ai ragazzi che la tutela della loro privacy è importante, è come attraversare la strada sulle strisce pedonali: si ha la precedenza, ma va prestata attenzione perché magari qualcuno non si ferma».
Sugli aspetti giudiziari si è soffermata l’avvocata Cristina Crugnola che ha rimarcato come i ragazzi non siano consapevoli delle conseguenze penali di certi gesti e nemmeno che i genitori siano tenuti al risarcimento. Perché i genitori hanno l’obbligo di educare i figli all’uso delle tecnologie, a installare app per il controllo parentale. «A volte vado nelle scuole elementari e vedo bambini che usano smartphone senza alcuna limitazione. E se il bullismo ha confini spaziali e temporali, il cyberbullismo non li ha: le cose peggiori avvengono tra le 21 e le 6 del mattino. I bambini tra i 9 e gli 11 anni stanno on line quattro ore al giorno e sono ore sottratte al sonno e allo studio. Li chiamiamo nativi digitali, ma non sono nativi per niente. Sono ragazzi che devono imparare a usare le nuove tecnologie: bisogna far capire loro che certi giochi gratis hanno un costo e quel costo sono i nostri dati personali. L’algoritmo di Facebook conosce di noi il 70%, conosce più di quanto di noi conosciamo noi stessi. Se nostro figlio dice che esce di casa, gli chiediamo dove va, con chi e quando torna. E magari dal balcone lo seguiamo anche con lo sguardo per vedere se va nella direzione giusta. E on line, non ci preoccupiamo: lo vediamo sul divano e ce ne stiamo tranquilli….
Bisogna stare in ascolto – ha sottolineato Giusy Laganà - Noi vorremmo che loro ci siano, ma quando vogliamo noi. Non funziona così. Bisogna sederci con loro tutti i giorni, dialogare, sono loro i primi a dirci cosa dobbiamo fare. Non possiamo dire “ai nostri tempi….”. Siamo in un’epoca diversa. E siamo noi i primi a predicare bene e razzolare male. Ma se predichiamo e razzoliamo bene, eccome se ci sono… Occorre imparare il loro linguaggio e smettiamola di fare gli amici dei figli: hanno bisogno di paletti e regole e il monitoraggio parentale è importante».
Concludendo, Laganà, ha però messo in guardia anche da un linguaggio di violenza ormai sdoganato: i rapper certo, le canzoni, «andate ad ascoltare certe canzoni di Sanremo». A quei linguaggi che sviliscono le persone i ragazzi non devono abituarsi».
D.C.