SCAFFALE LECCHESE/240: l'architetto Mino Fiocchi nelle sue opere dalle ville nobiliari alle case operaie

Mino Fiocchi, quinto degli otto figli di quel Giulio che nel 1876 aveva rilevato una piccola fabbrica di munizioni trasformandola in una delle più importanti aziende lecchesi, fu un architetto che molte tracce della propria opera ha lasciato a Lecco, città nella quale nacque nel 1893 e alla quale restò sempre legato nonostante fin dalla più tenera età abbia sostanzialmente vissuto a Milano, morendo poi ad Appiano Gentile nel 1983.
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«Giunto alle soglie di una tarda vecchiaia – ricordava il figlio Carlo, anch’egli architetto -, aveva ridisegnato le opere che riteneva più significative e quelle cui era più affezionato, per raccoglierle in un album da lasciare alla famiglia come ricordo».
Quell’album, intimo negli intenti del suo autore, sarebbe stato trasformato in un libro pubblicato con la casa editrice milanese Eris nel 1981 e dunque con l’anziano architetto ancora vivente. 
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Il libro andava a colmare una lacuna: «Egli – scriveva ancora il figlio Carlo nell’introduzione – si era sempre rifiutato di pubblicizzare la propria attività, tanto che, sfiorando la scortesia, non aveva neppure voluto aderire alle richieste di numerosi colleghi che desideravano inserire nei loro libri di architettura contemporanea foto o disegni dei suoi lavori».
Non esistevano, dunque, pubblicazioni che dessero in qualche modo conto dell’opera di Fiocchi. «Cosicché, sollecitati da più parti a colmare la succitata lacuna editoriale, abbiamo deciso di dare alle stampe il presente volume, prendendo spunto dalla sua ultima fatica e cercando di mantenere il più possibile lo spirito del suo autore, il quale riteneva fondamentale per la presentazione dei propri lavori una veste grafica chiara. semplice e lineare, anche se un po’ scarna» Ai disegni che lo stesso architetto aveva raggruppato, vennero «aggiunte (magari contro la sua volontà) alcune fotografie d’epoca, che meglio esemplificano le opere».
Disegni e foto sono accompagnati da semplici didascalie, il racconto è quindi lasciato alle sole immagini, secondo un ordine cronologico che abbraccia oltre mezzo secolo di attività: dal 1921 al 1975. Dall’ipotesi di un piano regolatore per l’Isola Comacina con la quale aveva vinto il primo premio al concorso indetto dall’Accademia di Brera, fino al disegno della cappella funeraria per sé e la moglie al cimitero di Castello.
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Nel 1986 furono invece i Musei civici di Lecco a ospitare una mostra, “Mino Fiocchi. Architetto”. Ne resta il catalogo che raccoglie testi di Bruno Bianchi, Maria Grazia Furlani Marchi, Giuseppe Gambirasio jr., Enrico Mantero e Gianni Rigoli.
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Più recentemente, nel 2015, è stato il polo lecchese del Politecnico di Milano a pubblicare, con l’editore Paolo Cattaneo, “Mino Fiocchi. Disegni di architettura. Residenze unifamiliari tra lago e montagna”. Curato da Adele Carla Buratti e Ornella Selvafolta e con un contributo dello stesso figlio Carlo, il volume è frutto dello scandaglio nell’archivio milanese dell’architetto.
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La biografia ci è raccontata da Furlani: la nascita a Lecco nel 1893, il trasferimento a Milano dove, nel 1911, si iscrive alla Scuola di architettura del Politecnico, la partecipazione alla prima guerra mondiale e nel 1919 la laurea, dopo di che «si dedica alla progettazione architettonica e nel 1921 vince il concorso per il piano regolatore dell’Isola Comacina, ma soprattutto è incaricato di progettare case di città e di vacanze per parenti e amici. Lavora da solo, disegnando a matita e studiando con i pastelli non solo le tinte delle facciate ma anche il colore dei fiori per le aiuole. (…) Firma sempre le sue opere con il motivo della stella che compare nei luoghi più impensati. (…) Nel 1933 Fiocchi, con gli amici Lancia, Marelli e Serafini, progetta una villa di campagna che con altre 32 costruzioni viene realizzata nel parco antistante il Palazzo dell’Arte, presso uno specchio d’acqua. E’ l’unico lavoro che conosciamo frutto di collaborazione. (…) Probabilmente insoddisfatto di quest’esperienza, prosegue solitario per la strada precedentemente intrapresa».
Ed è una strada
Nell’album del 1981 sono catalogati quasi duecento tra progetti, piccoli lavori e grandi opere.
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Il primo edificio importante della sua attività milanese – sono ancora i ricordi del figlio Carlo – è la casa di via Cernaia in cui sarebbe andato ad abitare egli stesso: «Più di ogni altro è stato citato e analizzato e in un certo senso gli ha dato anche una certa notorietà internazionale. Numerosi gruppi di varie facoltà di architettura sono venuti più volte a visitarla e a studiarla. (…) L’edificio fu portato a termine nella primavera del 1925, credo con il contributo finanziario dei fratelli, i quali, una volta realizzato, ne occuparono gran parte degli appartamenti. (…) Purtroppo, nell’estate del 1943, mentre eravamo sfollati nella baita di montagna al Pian dei Resinelli, Milano fu investita da un bombardamento devastante e la casa di via Cernaia fu centrata in pieno da un grappolo di bombe dirompenti. L’ala di levante venne completamente sventrata, ma il peggio fu che alcune di quelle bombe, impattando sulle putrelle in ferro del quarto piano, esplosero con effetto drammatico; il nostro appartamento, con tutto quello che conteneva, fu letteralmente spazzato via e di esso non rimasero che poche polverose macerie. Forse fu l’unica volta che vidi piangere mio padre. Ma non si diede per vinto. Appena finita la guerra si rimboccò le maniche e cominciò subito la ricostruzione che ci permise dopo pochi anni di tornare a vivere in quella casa».
S’è detto della baita ai Resinelli: si tratta della “Roccella” che Mino Fiocchi progettò e costruì nel 1938. «Il contatto diretto con la montagna Mino Fiocchi l’ebbe fin dalla nascita. In quell’epoca le madri partorivano con cadenza annuale e i figli venivano spesso mandati a balia presso robuste contadine delle valli circostanti. Capitò anche a mio padre, spedito in quel di Ballabio». All’architettura alpina avrebbe poi dedicato tanta attenzione. Progettò molte case di villeggiatura che allora erano naturalmente appannaggio dei ceti benestanti, ma anche rifugi: nel 1926 il “Nino Castelli” e nel 1928 il “Cazzaniga”, entrambi ad Artavaggio dove sorge anche la piccola cappella Bettini del 1931. Del 1926 è il progetto per un santuario-rifugio sul Grignone.
E’ impossibile, qui, delineare un itinerario esauriente che ci porti a conoscere l’opera dell’architetto lecchese a Milano, nella nostra provincia e nella nostra città tra grandi palazzi e ville di pregio. Non poche, per esempio, sono le ville realizzate per diversi industriali lecchesi, nel novero dei quali naturalmente ci sono anche gli esponenti della propria cerchia famigliare: edifici che rispondono a differenti stili e suggestioni che andrebbero approfonditi uno per uno.
«Non sorprende – scrive Selvafolta – che siano le abitazioni le architetture più rappresentate nel curriculum professionale di Mino Fiocchi e nemmeno che tra esse prevalgano le case unifamiliari in un’ampia gamma di varianti e gradazioni socio-tipologiche. Siano dimore abituali o dimore di vacanza, siano circondate o meno da estesi giardini, siano luoghi di grande agiatezza o di più sobrio decoro, le case che Fiocchi ha costruito nell’arco di circa cinquant’anni hanno saputo interpretare e indirizzare al meglio i modi di abitare della committenza borghese ed alto borghese lombarda». E per la gran parte, quelle ville sorgono in quegli «stessi luoghi dove Fiocchi ha vissuto e di cui conosce così bene le caratteristiche, le condizioni e anche le particolari atmosfere da non operare mai fuori contesto, pur restando sempre fedele ad una personale poetica dove la cultura classica convive con la cultura locale, modelli palladiani convivono con modelli della tradizione regionale, architetture di matrice “mediterranea” convivono con architetture di matrice alpina in una singolare contemporaneità di interessi». 
Basterebbe soffermarsi sulla Casa Tubi di Castello (1925), sulle case Fiocchi di via Cantarelli e corso Matteotti, sulla Casa Aldé di Rancio, sulla Casa Dubini di Santo Stefano 
Ma accanto alle ville dei ricchi, Mino Fiocchi progettò anche abitazioni più modeste: le case operaie realizzate a Belledo nel 1939 e nel 1949 proprio per i dipendenti della “Fiocchi” e che proponevano anche per le classi meno abbienti una dimensione domestica di respiro e di comfort. «Una casa popolare – scrive Carlo Fiocchi – non implicava per lui l’idea di un edificio “povero”, che nelle periferie delle grandi città assumeva la caratteristica di alveare, il cosiddetto “falansterio”. Per quanto semplice ed economico doveva pur sempre rispettare i criteri di un umanesimo in scala minore, con tutte le qualità di una civile abitazione». E su questa linea si innesta anche l’asilo infantile di Belledo (intitolato a Giulio Fiocchi) realizzato nel 1928. Del 1929 è la casa popolare di Pescarenico che – scrive ancora Gambirasio – ha l’aspetto di un palazzotto signorile dove «l’apparato decorativo appare essenziale rispetto all’impianto architettonico, sobrio ma espressivamente molto efficace»
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Ma non ci furono solo case di abitazione. Nel 1927 progettò la sede del municipio di Oggiono e nel 1941 la sede della Banca popolare di Lecco in piazza Garibaldi. Che era un edificio “leggero”, raffinato, uno stile “classico” con inserti che in qualche modo richiamavano la stessa architettura alpina ed era uno degli esempi di quel rapporto tra architettura e ambiente circostante. Un risultato, comunque, che non sembra convincere Giuseppe Gambirasio jr. per il quale la banca lecchese fa i conti con quella «sorta di interiore straniamento del Fiocchi stesso verso i temi metropolitani e più in generale verso quelli dell’alta borghesia milanese» e l’edificio di piazza Garibaldi resta sospeso «in una sorta di limbo tra l’incomunicabilità espressiva e l’anacronismo della proposta stilistica» tanto che «il disagio percettivo che ne deriva è evidente specialmente se si volesse porre in relazione l’intervento con il luogo in cui sorge, certamente tra i più delicati e importanti della storia urbana e paesistica di Lecco». Non è forse un caso che nemmeno vent’anni dopo e cioè nel 1957, le linee di Fiocchi vennero cancellate dalla ristrutturazione affidata a Piero Portaluppi – architetto di prim’ordine e di larga fama – che ricoprì i muri esterni con quel marmo destinato ad appesantirne le forme e che fece della banca principale della città un’autentica cattedrale moderna.
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Rimane nelle sue forme originarie, invece, la chiesa francescana di viale Turati: «Nel 1950 – dice ancora Carlo – venne incaricato dai Frati Minori Cappuccini di realizzare un grande complesso religioso chew doveva comprendere una chiesa dedicata a San Francesco e un convento vero e proprio per i monaci e un’ala destinata alle attività sociali della zona. Forse la necessità di conglobare tutti questi elementi eterogenei lo distolse un poco dal concetto di sacralità che in genere lo contraddistingueva per cui l’insieme si presenta con un’impostazione schematica troppo formale in cui l’aspetto laico è predominante a scapito di una immagine religiosa».
Dario Cercek
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