SCAFFALE LECCHESE/238: la conquista della Cattedrale Grande del Baltoro
Gli anniversari. Ah, gli anniversari. Tra i tanti dello scorso anno, c’era anche il cinquantesimo dell’epica conquista del Cerro Torre da parte dei Ragni. Quest’anno, il mezzo secolo ricorrerebbe per un’altra impresa dei “maglioni rossi” lecchesi. Impresa non entrata nel mito. Anzi, «per lo più ignorata dalla cronaca del tempo e forse ancora oggi non adeguatamente compresa dalla storia» per dirla con il ragno Serafino Ripamonti (sul sito “montagna.tv”). Quell’impresa rappresentò però un passaggio significativo (e “doloroso”) nella storia dell’alpinismo lecchese. «Uno spartiacque, una gigantesca pietra dello scandalo», come scrive il giornalista Giorgio Spreafico (“Orme su vette lontane. Alpinisti lecchesi nel mondo”, Editoriale La Provincia, 2022). Stiamo parlando della spedizione organizzata dal Cai Belledo alla Cattedrale Grande del Baltoro in Karakorum, luglio 1975.
Se il Torre rappresentò l’ultima grande pagina di un alpinismo “vecchio stile”, il Baltoro si inseriva sulla strada della “svolta” che contraddistingueva l’andare in montagna di quegli anni Settanta del Novecento e che avrebbe portato – come dicono gli esperti - più che a un nuovo genere di alpinismo a forme differenti di alpinismo. Scrive, per esempio, Alberto Benini: «Siamo all’apogeo dell’alpinismo di gruppo e l’impresa dei Ragni sul Torre è forse il canto del cigno di un certo modo di concepire l’alpinismo, anche se passeranno anni perché la cosa sia evidente a tutti».
Figlio di quel clima e dell’impresa al Baltoro è il gruppo alpinistico Gamma, la cui incubazione cominciò in quei mesi, anche se si sarebbe costituito ufficialmente soltanto di lì a tre anni, nel 1978. E pertanto il mezzo secolo di vita lo festeggerà nel 2028. Vedremo se per la ricorrenza sarà “aggiornato” il libro del ventennale: “Gamma. Gli anni di un’alternativa in alpinismo”, uscito nel 1999 per l’editore Vivalda e scritto da Alberto Benini, bibliotecario e storico dell’alpinismo che tre anni prima aveva anche firmato il libro sui cinquant’anni dei “Ragni della Grignetta”.
E’ una storia che comincia nel rione lecchese di Belledo: «Alla fine della seconda guerra mondiale – scrive Benini - lo sviluppo demografico di Lecco era stato costante, supportato da un tessuto industriale in forte espansione. Erano aumentati gli abitanti e con loro il numero dei soci del Cai. Mentre alcune sottosezioni del Cai Lecco cominciano a volare con le proprie ali (Dervio nel 1946, Valmadrera nel 1966) si assiste nel 1960 alla nascita della prima sottosezione posta nel perimetro della città: quella di Belledo».Ed è proprio il Cai Belledo, attorno al quale gravita un fuoriclasse come Carlo Mauri, a organizzare la spedizione al Baltoro. Seguendo alcune dritte di un altro mostro sacro, Reinhold Messner che proprio in quegli anni si sta imponendo all’attenzione dell’alpinismo mondiale.
«Una spedizione – scrive Benini – voluta anche per consentire a quasi tutti i giovani migliori della sottosezione di farsi un’idea non per sentito dire di quello che era stato correttamente individuato come il territorio dell’alpinismo del futuro» e che «ha contribuito anche a far prendere coscienza della necessità di muoversi in modo più leggero e meno rigidamente organizzato».
Inizialmente si era puntato alla Torre Grande di Trango, «un obiettivo incredibilmente ambizioso – scrive Serafino Ripamonti della sua storia dei “Ragni di Lecco” del 2020 (editore Rizzoli) - una montagna con la verticalità e le dimensioni del Cerro Torre, ma a quote himalayane di 6686 metri. L’idea stessa è straordinariamente in anticipo sui tempi per l’alpinismo italiano e non solo».Per una questione di autorizzazioni da parte del governo pakistano, si deve però ripiegare sulla Cattedrale Grande: «Quel bastione – parole ancora di Ripamonti -, che si alza immediatamente sopra il fiume ghiacciato del Baltoro fino quasi a toccare i 6000 metri, è comunque un terreno d’elezione per quell’alpinismo innovativo che i giovani lecchesi hanno ormai nella testa e nel cuore». Sottolinea Benini: «Siamo sulla strada di quel genere di “himalaysmo” reso popolare e portato alle estreme conseguenze proprio in quegli anni, (…): si salgono montagne di quota inferiore rispetto agli ottomila, ma di difficoltà (soprattutto su roccia) molto più elevate e continue».
Della spedizione, diretta da Giulio Fiocchi, fanno parte i ragni lecchesi Daniele Chiappa, Carlo Duchini, Pierino Maccarinelli, Sergio Panzeri, Giacomo Stefani, Giuseppe Lafranmconi, Gianluigi Lanfranchi, Ernesto Panzeri, Amabile Valsecchi, Benvenuto Laritti. Di supporto, il medico Alberto Sironi e l’alpinista torinese Arnaldo Colombari. Teniamoli presente tutti questi nomi.
La spedizione, non senza qualche screzio, si divide in due tronconi «per non puntare tutte le carte su un medesimo obiettivo – spiega Benini - e, nel migliore dei casi, di cogliere un doppio successo. E le cose vanno precisamente in questo modo».Una cordata punta alla vetta della Cattedrale Grande conquistata l’8 luglio, una seconda segue la cresta per salire sulla cima del Thumno Peak (10 luglio).
Sul sito del Cai nazionale si legge: «Quell’impresa, condotta da giovani talenti emergenti, rappresenta una svolta per l’alpinismo italiano: i colossi granitici del Karakorum qui forse per la prima volta in Italia non sono più considerati come tappa di avvicinamento agli ambiti Ottomila, ma come mete in sé meritevoli di imprese alpinistiche di rilievo».
La spedizione del Cai Belledo era partita da Lecco il 31 maggio, praticamente pochi giorni dopo la rinuncia da parte della spedizione promossa dal Cai nazionale e guidata da Riccardo Cassin alla Sud del Lhotse in Himalaya. Una spedizione – osserva Benini – che «mostra, per chi è in grado di leggere i segni dei tempi, l’apparire della crisi del modello di spedizione fino ad allora in voga. (…) La crisi fra un mondo tradizionale e uno ancora in via di definizione trova un personaggio che le dà corpo proprio in un ragno: Aldino Anghileri che abbandona la spedizione quando si rende conto che sta vivendo una situazione per lui di sola sofferenza».
Viene dunque da pensare a un simbolico passaggio di testimone tra generazioni. Scrive Ripamonti: «L’alpinismo lecchese ha dimostrato di essere all’avanguardia, di avere in sé la capacità di adattarsi ai cambiamenti di stile, tecniche e materiali. Potrebbe essere l’inizio di una nuova stagione di successi, ma non lo è: l’età dell’oro dei Ragni sta volgendo al termine in maniera diversa rispetto a come ci si sarebbe aspettati»
E infatti «la spedizione al Baltoro – spiega Benini -, malgrado riporti a casa due prestigiose nuove vie, non riesce a “bucare” presso il grande pubblico, con il suo futuristico obiettivo, come aveva fatto quella al Cerro Torre. Per di più, come quasi tutte le spedizioni, finisce con il mandare in rosso le casse della sottosezione e, malgrado i debiti siano coperti da solide fidejussioni, la circostanza fornisce il pretesto con cui la sezione madre si muove al drastico ridimensionamento di una realtà diventata agli occhi di molti un po’ troppo ingombrante. (…) Il braccio di ferro durerà del tempo, ma alla fine provocherà le dimissioni dal gruppo dei Ragni di dodici membri e lo scioglimento della sottosezione di Belledo»
Tutto si compie la sera dell’11 dicembre 1976, quando in undici lasciano l’assemblea dei Ragni: si tratta di Aldino Anghileri, Felice Anghileri, i fratelli Daniele e Roberto Chiappa, Carlino Duchini, Pierino Maccarinelli, Ernesto Panzeri, Sergio Panzeri, Giacomo Stefani, Gianni Stefanon, Amabile Valsecchi. I nomi, si diceva: con Aldino Anghileri che aveva abbandonato il Lhotse, ci sono quasi tutti i componenti della spedizione al Baltoro. Successivamente, al gruppo si uniranno due alpinisti che sovente arrampicano con loro: Giorgio Fumagalli e Giancarlo Riva, omonimo del vicepresidente dal Cai lecchese. E poi c’ il caso di Renato Frigerio «che nel Gruppo Ragni – ci racconta ancora Benini - svolgeva le funzioni di segretario, pur senza esserne componente» e che «si trova, la sera della diaspora degli undici, in una situazione curiosa e imbarazzante. (…) Deve stendere il verbale, come ogni segretario che si rispetti, ma parteggia per gli scismatici. Forse vorrebbe mollare a metà il resoconto della riunione e andarsene… ma il dovere lo mantiene al suo posto. Finisce di redigere il verbale e il giorno dopo va a dimettersi».
E’ un momento drammatico: «Sono in gioco due fedeltà non più conciliabili – scrive Benini -: da un lato quella al sodalizio in cui sono compiuti i primi passi della carriera alpinistica (…) dall’altro quella al maglione rosso dei Ragni, il massimo riconoscimento cui può aspirare un alpinista lecchese, una divisa nota in tutto il mondo. (…) Ma in qualche modo c’è dell’altro. (…) Ed è di nuovo, come alla nascita dei Ragni, una riedizione dell’eterno conflitto tra figli e padri».
Negli anni Settanta del Novecento, del resto, si assiste a grandi trasformazioni in tutta la società Sono gli anni di un protagonismo giovanile che contagia anche l’alpinismo: cambia il modo di guardare la montagna sulle quali anche le donne cominciano a dire la loro, segno che un’epoca sta finendo e un’altra va cominciando.Sulla scena «compare tangenzialmente la figura di Benvenuto (Ben) Laritti, uno dei protagonisti della spedizione in Baltoro – annota Benini -, forse uno che in quelle terre e nelle persone che le abitano trova delle affinità o delle risposte a un disagio esistenziale…. E la ricostruzione biografica della figura del Ben resta uno dei nodi da dipanare, per capire molti aspetti della storia alpinistica lecchese». A cercare di dipanare quei nodi è stato Ruggero Meles, insegnante e giornalista, che nel 2002 ha pubblicato “Ben Laritti. Storia di una meteora” con le edizioni ”Versante Sud” presentandoci il ritratto di un giovane, esuberante a dir poco, che nella montagna trova lo sfogo alla propria sregolatezza, affermandosi quasi subito come uno degli alpinisti più forti, sospinto come molti altri «da quella nuova brezza che porterà all’esplorazione di nuovi terreni verticali o alla rivisitazione di quello che già esisteva con occhi nuovi e meno incantati» fino alla morte nel 1983 in circostanze incredibili all’età di 30 anni: travolto in parete nelle Dolomiti da una scarica di sassi provocata da una scossa di terremoto. A ricordarlo, in Patagonia, ora c’è la Torre Ben, dedicatagli nel 1984 dalla spedizione al Cerro Murallon composta tra gli altri da Casimiro Ferrari, Fabio Lenti e Marco Ballerini.Tornando alla “diaspora” del 1976, i fuoriusciti dai “Ragni” e dal Cai lecchese devono ora inventarsi un futuro. Ricostruisce Benini: «Un nuovo gruppo? Forse, ma un gruppo diverso nello spirito e nella sostanza da quello che si è lasciato. Ma fare un gruppo, un circolo, un accorpamento o qualsiasi altro nome gli si voglia dare, sono solo parole. Servirebbero una sede e i soldi per pagarla, tanto per cominciare dal più banale e concreto dei problemi. Invece ci sono solo i debiti della spedizione del Baltoro…».
Per darsi un’organizzazione, «prima di far nascere un gruppo di arrampicatori, si dedicano le forze per far venire alla luce una struttura che accorpi gli ex soci del Cai Belledo». E spunta l’idea di ridare vita alla locale sezione della Uoei, l’Unione operaia escursionisti italiani, una delle prime società alpinistiche italiane e lecchesi.
L’Uoei era sorta nel 1911 per iniziativa di un gruppo di escursionisti monzesi e dopo tre anni si era ormai diffusa in tutta Italia. Come per altre analoghe associazioni, si poneva in alternativa al Cai, la cui quota di iscrizione era troppo elevata e pertanto accessibile solo ai ceti benestanti. La sezione lecchese dell’Uoei si era costituita nel 1912, veniva sciolta dal fascismo nel 1928 e si sarebbe poi ricostituita nel 1945, sciogliendosi improvvisamente nel 1960 per «esaurimento delle forza». Nel 1977, dunque, rinasce per opera dei dirigenti dell’ormai disciolto Cai di Belledo. E l’anno successivo «senza squilli di trombe, ma con una bella realizzazione alpinistica» debutta il Gruppo Gamma con Sergio Panzeri, Giacomo e Alberto Stefani, che, fra il 12 e il 13 marzo 1978, aprono la prima invernale del gran diedro ovest del Piz Pilato al dolomitico Sas de la Crusc (2825 metri) lungo la difficile via Mayerl,
Il gruppo è in gestazione da qualche mese ma è il 13 marzo che diventa realtà con l’insediamento del direttivo: il primo presidente è Aldino Anghileri. Nel frattempo si è riusciti a saldare i debiti per la spedizione del Baltoro e allora si può cominciare seriamente a guardare al futuro.
Nel libro del 1998, Benini scrive: «L’elenco dei Paesi e delle regioni toccati nel corso delle loro salite extraeuropee dai membri del gruppo appare abbastanza impressionante. Si va dal Pamir alla Siberia, dalla Cina al Tibet e al Nepal, dal Karakorum al Ladak. E poi Sinai, Hoggar, Mali, Sud Africa. In America si va dall’Alaska al Cile e all’Argentina, passando per Bolivia, Colombia, Perù».
Se il Torre rappresentò l’ultima grande pagina di un alpinismo “vecchio stile”, il Baltoro si inseriva sulla strada della “svolta” che contraddistingueva l’andare in montagna di quegli anni Settanta del Novecento e che avrebbe portato – come dicono gli esperti - più che a un nuovo genere di alpinismo a forme differenti di alpinismo. Scrive, per esempio, Alberto Benini: «Siamo all’apogeo dell’alpinismo di gruppo e l’impresa dei Ragni sul Torre è forse il canto del cigno di un certo modo di concepire l’alpinismo, anche se passeranno anni perché la cosa sia evidente a tutti».
Figlio di quel clima e dell’impresa al Baltoro è il gruppo alpinistico Gamma, la cui incubazione cominciò in quei mesi, anche se si sarebbe costituito ufficialmente soltanto di lì a tre anni, nel 1978. E pertanto il mezzo secolo di vita lo festeggerà nel 2028. Vedremo se per la ricorrenza sarà “aggiornato” il libro del ventennale: “Gamma. Gli anni di un’alternativa in alpinismo”, uscito nel 1999 per l’editore Vivalda e scritto da Alberto Benini, bibliotecario e storico dell’alpinismo che tre anni prima aveva anche firmato il libro sui cinquant’anni dei “Ragni della Grignetta”.
E’ una storia che comincia nel rione lecchese di Belledo: «Alla fine della seconda guerra mondiale – scrive Benini - lo sviluppo demografico di Lecco era stato costante, supportato da un tessuto industriale in forte espansione. Erano aumentati gli abitanti e con loro il numero dei soci del Cai. Mentre alcune sottosezioni del Cai Lecco cominciano a volare con le proprie ali (Dervio nel 1946, Valmadrera nel 1966) si assiste nel 1960 alla nascita della prima sottosezione posta nel perimetro della città: quella di Belledo».Ed è proprio il Cai Belledo, attorno al quale gravita un fuoriclasse come Carlo Mauri, a organizzare la spedizione al Baltoro. Seguendo alcune dritte di un altro mostro sacro, Reinhold Messner che proprio in quegli anni si sta imponendo all’attenzione dell’alpinismo mondiale.
«Una spedizione – scrive Benini – voluta anche per consentire a quasi tutti i giovani migliori della sottosezione di farsi un’idea non per sentito dire di quello che era stato correttamente individuato come il territorio dell’alpinismo del futuro» e che «ha contribuito anche a far prendere coscienza della necessità di muoversi in modo più leggero e meno rigidamente organizzato».
Inizialmente si era puntato alla Torre Grande di Trango, «un obiettivo incredibilmente ambizioso – scrive Serafino Ripamonti della sua storia dei “Ragni di Lecco” del 2020 (editore Rizzoli) - una montagna con la verticalità e le dimensioni del Cerro Torre, ma a quote himalayane di 6686 metri. L’idea stessa è straordinariamente in anticipo sui tempi per l’alpinismo italiano e non solo».Per una questione di autorizzazioni da parte del governo pakistano, si deve però ripiegare sulla Cattedrale Grande: «Quel bastione – parole ancora di Ripamonti -, che si alza immediatamente sopra il fiume ghiacciato del Baltoro fino quasi a toccare i 6000 metri, è comunque un terreno d’elezione per quell’alpinismo innovativo che i giovani lecchesi hanno ormai nella testa e nel cuore». Sottolinea Benini: «Siamo sulla strada di quel genere di “himalaysmo” reso popolare e portato alle estreme conseguenze proprio in quegli anni, (…): si salgono montagne di quota inferiore rispetto agli ottomila, ma di difficoltà (soprattutto su roccia) molto più elevate e continue».
Della spedizione, diretta da Giulio Fiocchi, fanno parte i ragni lecchesi Daniele Chiappa, Carlo Duchini, Pierino Maccarinelli, Sergio Panzeri, Giacomo Stefani, Giuseppe Lafranmconi, Gianluigi Lanfranchi, Ernesto Panzeri, Amabile Valsecchi, Benvenuto Laritti. Di supporto, il medico Alberto Sironi e l’alpinista torinese Arnaldo Colombari. Teniamoli presente tutti questi nomi.
La spedizione, non senza qualche screzio, si divide in due tronconi «per non puntare tutte le carte su un medesimo obiettivo – spiega Benini - e, nel migliore dei casi, di cogliere un doppio successo. E le cose vanno precisamente in questo modo».Una cordata punta alla vetta della Cattedrale Grande conquistata l’8 luglio, una seconda segue la cresta per salire sulla cima del Thumno Peak (10 luglio).
Sul sito del Cai nazionale si legge: «Quell’impresa, condotta da giovani talenti emergenti, rappresenta una svolta per l’alpinismo italiano: i colossi granitici del Karakorum qui forse per la prima volta in Italia non sono più considerati come tappa di avvicinamento agli ambiti Ottomila, ma come mete in sé meritevoli di imprese alpinistiche di rilievo».
La spedizione del Cai Belledo era partita da Lecco il 31 maggio, praticamente pochi giorni dopo la rinuncia da parte della spedizione promossa dal Cai nazionale e guidata da Riccardo Cassin alla Sud del Lhotse in Himalaya. Una spedizione – osserva Benini – che «mostra, per chi è in grado di leggere i segni dei tempi, l’apparire della crisi del modello di spedizione fino ad allora in voga. (…) La crisi fra un mondo tradizionale e uno ancora in via di definizione trova un personaggio che le dà corpo proprio in un ragno: Aldino Anghileri che abbandona la spedizione quando si rende conto che sta vivendo una situazione per lui di sola sofferenza».
Viene dunque da pensare a un simbolico passaggio di testimone tra generazioni. Scrive Ripamonti: «L’alpinismo lecchese ha dimostrato di essere all’avanguardia, di avere in sé la capacità di adattarsi ai cambiamenti di stile, tecniche e materiali. Potrebbe essere l’inizio di una nuova stagione di successi, ma non lo è: l’età dell’oro dei Ragni sta volgendo al termine in maniera diversa rispetto a come ci si sarebbe aspettati»
E infatti «la spedizione al Baltoro – spiega Benini -, malgrado riporti a casa due prestigiose nuove vie, non riesce a “bucare” presso il grande pubblico, con il suo futuristico obiettivo, come aveva fatto quella al Cerro Torre. Per di più, come quasi tutte le spedizioni, finisce con il mandare in rosso le casse della sottosezione e, malgrado i debiti siano coperti da solide fidejussioni, la circostanza fornisce il pretesto con cui la sezione madre si muove al drastico ridimensionamento di una realtà diventata agli occhi di molti un po’ troppo ingombrante. (…) Il braccio di ferro durerà del tempo, ma alla fine provocherà le dimissioni dal gruppo dei Ragni di dodici membri e lo scioglimento della sottosezione di Belledo»
Tutto si compie la sera dell’11 dicembre 1976, quando in undici lasciano l’assemblea dei Ragni: si tratta di Aldino Anghileri, Felice Anghileri, i fratelli Daniele e Roberto Chiappa, Carlino Duchini, Pierino Maccarinelli, Ernesto Panzeri, Sergio Panzeri, Giacomo Stefani, Gianni Stefanon, Amabile Valsecchi. I nomi, si diceva: con Aldino Anghileri che aveva abbandonato il Lhotse, ci sono quasi tutti i componenti della spedizione al Baltoro. Successivamente, al gruppo si uniranno due alpinisti che sovente arrampicano con loro: Giorgio Fumagalli e Giancarlo Riva, omonimo del vicepresidente dal Cai lecchese. E poi c’ il caso di Renato Frigerio «che nel Gruppo Ragni – ci racconta ancora Benini - svolgeva le funzioni di segretario, pur senza esserne componente» e che «si trova, la sera della diaspora degli undici, in una situazione curiosa e imbarazzante. (…) Deve stendere il verbale, come ogni segretario che si rispetti, ma parteggia per gli scismatici. Forse vorrebbe mollare a metà il resoconto della riunione e andarsene… ma il dovere lo mantiene al suo posto. Finisce di redigere il verbale e il giorno dopo va a dimettersi».
E’ un momento drammatico: «Sono in gioco due fedeltà non più conciliabili – scrive Benini -: da un lato quella al sodalizio in cui sono compiuti i primi passi della carriera alpinistica (…) dall’altro quella al maglione rosso dei Ragni, il massimo riconoscimento cui può aspirare un alpinista lecchese, una divisa nota in tutto il mondo. (…) Ma in qualche modo c’è dell’altro. (…) Ed è di nuovo, come alla nascita dei Ragni, una riedizione dell’eterno conflitto tra figli e padri».
Negli anni Settanta del Novecento, del resto, si assiste a grandi trasformazioni in tutta la società Sono gli anni di un protagonismo giovanile che contagia anche l’alpinismo: cambia il modo di guardare la montagna sulle quali anche le donne cominciano a dire la loro, segno che un’epoca sta finendo e un’altra va cominciando.Sulla scena «compare tangenzialmente la figura di Benvenuto (Ben) Laritti, uno dei protagonisti della spedizione in Baltoro – annota Benini -, forse uno che in quelle terre e nelle persone che le abitano trova delle affinità o delle risposte a un disagio esistenziale…. E la ricostruzione biografica della figura del Ben resta uno dei nodi da dipanare, per capire molti aspetti della storia alpinistica lecchese». A cercare di dipanare quei nodi è stato Ruggero Meles, insegnante e giornalista, che nel 2002 ha pubblicato “Ben Laritti. Storia di una meteora” con le edizioni ”Versante Sud” presentandoci il ritratto di un giovane, esuberante a dir poco, che nella montagna trova lo sfogo alla propria sregolatezza, affermandosi quasi subito come uno degli alpinisti più forti, sospinto come molti altri «da quella nuova brezza che porterà all’esplorazione di nuovi terreni verticali o alla rivisitazione di quello che già esisteva con occhi nuovi e meno incantati» fino alla morte nel 1983 in circostanze incredibili all’età di 30 anni: travolto in parete nelle Dolomiti da una scarica di sassi provocata da una scossa di terremoto. A ricordarlo, in Patagonia, ora c’è la Torre Ben, dedicatagli nel 1984 dalla spedizione al Cerro Murallon composta tra gli altri da Casimiro Ferrari, Fabio Lenti e Marco Ballerini.Tornando alla “diaspora” del 1976, i fuoriusciti dai “Ragni” e dal Cai lecchese devono ora inventarsi un futuro. Ricostruisce Benini: «Un nuovo gruppo? Forse, ma un gruppo diverso nello spirito e nella sostanza da quello che si è lasciato. Ma fare un gruppo, un circolo, un accorpamento o qualsiasi altro nome gli si voglia dare, sono solo parole. Servirebbero una sede e i soldi per pagarla, tanto per cominciare dal più banale e concreto dei problemi. Invece ci sono solo i debiti della spedizione del Baltoro…».
Per darsi un’organizzazione, «prima di far nascere un gruppo di arrampicatori, si dedicano le forze per far venire alla luce una struttura che accorpi gli ex soci del Cai Belledo». E spunta l’idea di ridare vita alla locale sezione della Uoei, l’Unione operaia escursionisti italiani, una delle prime società alpinistiche italiane e lecchesi.
L’Uoei era sorta nel 1911 per iniziativa di un gruppo di escursionisti monzesi e dopo tre anni si era ormai diffusa in tutta Italia. Come per altre analoghe associazioni, si poneva in alternativa al Cai, la cui quota di iscrizione era troppo elevata e pertanto accessibile solo ai ceti benestanti. La sezione lecchese dell’Uoei si era costituita nel 1912, veniva sciolta dal fascismo nel 1928 e si sarebbe poi ricostituita nel 1945, sciogliendosi improvvisamente nel 1960 per «esaurimento delle forza». Nel 1977, dunque, rinasce per opera dei dirigenti dell’ormai disciolto Cai di Belledo. E l’anno successivo «senza squilli di trombe, ma con una bella realizzazione alpinistica» debutta il Gruppo Gamma con Sergio Panzeri, Giacomo e Alberto Stefani, che, fra il 12 e il 13 marzo 1978, aprono la prima invernale del gran diedro ovest del Piz Pilato al dolomitico Sas de la Crusc (2825 metri) lungo la difficile via Mayerl,
Il gruppo è in gestazione da qualche mese ma è il 13 marzo che diventa realtà con l’insediamento del direttivo: il primo presidente è Aldino Anghileri. Nel frattempo si è riusciti a saldare i debiti per la spedizione del Baltoro e allora si può cominciare seriamente a guardare al futuro.
Nel libro del 1998, Benini scrive: «L’elenco dei Paesi e delle regioni toccati nel corso delle loro salite extraeuropee dai membri del gruppo appare abbastanza impressionante. Si va dal Pamir alla Siberia, dalla Cina al Tibet e al Nepal, dal Karakorum al Ladak. E poi Sinai, Hoggar, Mali, Sud Africa. In America si va dall’Alaska al Cile e all’Argentina, passando per Bolivia, Colombia, Perù».
Da parte nostra non stiamo a sfogliare le pagine dedicate a quell’attività. Nelle quali mancano inevitabilmente i traguardi dei successivi trent’anni, quelli che arrivano ai nostri giorni.
Con qualche venatura di tristezza: se il libro del ventennale ricordava la figura di Giorgio Anghileri, 26 anni, morto in incidente stradale nel 1997, la cronaca successiva ha fatto registrare la morte del fratello Marco, detto Butch, 41 anni, caduto durante una invernale in solitaria sul Monte Bianco nel 2014. Di lui esistono due biografie: una firmata da Giorgio Spreafico (“La scala dei sogni”, Teka Editrice, 2015) e un’altra da Andrea Gaddi (“Marco Anghileri. Quando i sogni sono vita”, Alpine Studio, 2022). Entrambi Gamma, Giorgio e Marco Anghileri erano figli di Aldino, il ragno della rinuncia al “Lhotse”, il primo presidente dei “Gamma”
Dario Cercek