SCAFFALE LECCHESE/236: il martirio del Beato Pagano da Lecco, illustre inquisitore domenicano del ‘200

Nelle prime ore del 26 dicembre 1277, mentre gli abitanti «nei loro umili casolari sono immersi nel sonno, nel silenzio di una notte rigida che sta per aprirsi agli albori del nuovo giorno, i crudeli sicari, che si sono nascosti sino dalla sera precedente, irrompono nella cella del Beato, che trovano assorto in profonda preghiera, e dopo averlo caricato di ingiurie lo finiscono a colpi di pugnale. Non contenti di questo, gli conficcarono una lancia nel costato. Così, la conversazione che Pagano aveva cominciata in terra, la terminò in cielo». E’ il martirio del beato Pagano da Lecco così come ce lo racconta padre Vincenzo Maria Folli in un opuscoletto pubblicato dal settimanale cattolico “Il Resegone” nel 1932 (“Il Beato Pagano da Lecco. Martire domenicano: 1205-1277”).
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Del Beato Pagano, «uno dei più illustri inquisitori domenicani del XIII secolo» come si legge sul sito internet dedicato a santi e beati (www.santiebeati.it) la basilica di San Nicolò conserva alcune reliquie, mentre all’esterno, sulla parete che si affaccia verso la via Mascari, campeggia la lapide scoperta l’11 settembre 1904 su iniziativa del circolo della Gioventù Cattolica Italiana che celebrava i propri vent’anni: era stato infatti fondato nel 1884 per essere intitolato l’anno successivo proprio al Beato Pagano. 
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La biografia del domenicano lecchese è avvolta da molta nebbia e naturalmente sconfina nella leggenda. Il Dizionario biografico dell’Enciclopedia Treccani ci informa come verso la fine del XVI secolo, quindi oltre trecento anni dopo la morte, «la vicenda del beato diventò patrimonio dell’erudizione ecclesiastica, soprattutto locale e domenicana, che, applicando i canoni della narrazione agiografica, modificò luoghi, protagonisti e simboli. Il nuovo martire della fede solo a quel punto acquisì riconoscibilità biografica, soprattutto a partire dal lavoro di Giorgio Longo, chierico lecchese e custode della neonata Biblioteca Ambrosiana, che fornì un racconto ricco e fantasioso, ma privo di aderenze documentarie».
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Fu proprio l’opera di Longo, pubblicata nel 1611, a diventare fonte principale dei biografi successivi: il citato padre Folli e prima di lui, Giuseppe Costa che nel 1846 aveva pubblicato con la tipografia milanese “Bonardi-Pogliani” le “Notizie intorno al Beato Pagano da Lecco”, attingendo dal Longo e da un altro domenicano, padre Agostino Maria Chiesa, che ne scrisse nel 1752. Ammettendo, Costa, di non essere riuscito a scovare ulteriori notizie per quanto vi si sia applicato con diligenza e quindi di essersi limitato a «ridurre a dettato più conforme all'odierna letteraria coltura il racconto delle azioni e della morte dell'eroico oppugnatore della eresia».
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Il destino del Beato Pagano viene comunemente intrecciato con quello san Pietro martire, figura più nota e venerata alla quale è stato anche dedicato un “cammino” da Como a Milano, inserito sull’itinerario della cosiddetta Via Francigena Renana. 
«Per una felice disposizione della Provvidenza», come scrive Folli, entrambi nacquero nel 1205, Pietro a Verona e Pagano «nella terra di Lecco, oggi insigne borgo che si incammina alla condizione di città» annota Costa che immaginiamo abbia mutuato questa immagine del borgo dai “Promessi sposi” manzoniani, usciti pochi anni prima, quest’immagine del borgo. 
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Busto Beato Pagano in Basilica a Lecco

Entrambi domenicani, Pagano succedette a Pietro, quando questi venne ucciso nel 1251 a Seveso, alla guida del monastero comasco di San Giovanni Pedemonte a anche nel ruolo di inquisitore. In comune hanno dunque anche avuto – sottolinea Folli - «l’istinto claustrale, le fatiche dell’apostolato e la gloria del martirio».
Della famiglia d’origine del lecchese nulla si sa («Vano sarebbe l’andar cercando chi fossero i genitori di lui» dice Costa). Lo storico lecchese dei giorni nostri Angelo Borghi scrive che «per tradizione si assegna la sua nascita nella casa Carissimi di via Mascari, che ra stata nel Settecento la dimora dei Pagani, ramo dei valsoldesi divenuti grandi imprenditori del ferro in Lecco».
Per parte sua, Folli mette in dubbio anche il nome di battesimo: «Scrittori moderni affermano che al Sacro Fonte egli avesse ricevuto il nome di Pietro Fedele, ma non so con quale fondamento e con quanta autorità, mentre in nessuno dei primi biografi, che io mi sappia, si fa cenno di questo binomio» che Costa invece accredita, sostenendo che avrebbe assunto il nome di Pagano al momento di vestire il saio domenicano.
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Naturalmente i segnali inviati dal Cielo sono più che precoci. Il ricamo dei nostri biografi è tanto accurato quanto immaginario: «Narrasi – le parole di Costa - che mentr'egli era in fasce bastasse alla madre accennargli di abbassare il capo davanti alle sacre immagini perché istintivamente, dirò così, docile al cenno divenisse ansiosamente premuroso in avvenire di mostrarsi spinto da non so qual secreto impulso di riverenza allorché scorgeva una devota effigie.» E poi «fanciullo si abituò a digiunare il sabato in onore della Regina del Cielo» e frequentava con profitto la scuola «divenendo col suo contegno maestro di saviezza ai condiscepoli». Del resto – aggiunge Folli - «alla dissipazione ai giuochi puerili, preferiva il raccoglimento e la preghiera. I cattivi compagni non avrebbero osato accostarglisi o li avrebbe con prontezza allontanati».
La svolta all’età di 14 anni, quando incontrò san Domenico. Secondo Costa a Bergamo, secondo Folli a Padova. Di fatto, Pagano divenne domenicano e per trent’anni insegnò nei monasteri di Bergamo, Crema e Rimini dove nel 1265 divenne priore per poi essere trasferito a Como, due anni dopo, messo alla guida del convento di San Giovanni. E diventando, come lo era stato Pietro da Verona, inquisitore: «Parola roboante – leggiamo in Folli – di cui tanto abusano scrittori ignoranti in mala fede per gettare veleno sulla religione e la Chiesa e assassinare le anime» perché invece «industriarsi per illuminare le menti, mettere a repentaglio i propri interessi, la propria tranquillità, ma anche la vita stessa per impedire lacrimevoli rovine alla Chiesa e alla società è atto di eroismo religioso e civile» e a questi eroi si «dovrebbero innalzare monumenti». Ciò era quanto esigevano tempi feroci, come puntualizza Costa: «la ferrea durezza dei tempi, da non paragonarsi alla gentile scorza dei nostri, e la temeraria insolenza degli eretici obbligavano a rimedi energici che non voglionsi giudicare colle nostre idee sistematiche, temperate e proprie di un'età moderata dai politici ordinamenti, ma sibbene coll'indole delle passate generazioni, coi pericoli cui bisognava far fronte».
Non stiamo a ricordare il contesto storico complesso, in cui le contese politiche si sovrapponevano a quelle religiose, la guerra e la violenza erano all’ordine del giorno e c’era poca differenza tra banditi e reggitore di uno Stato, in una mappa oltremodo frammentata.
«E per dire solamente di ciò che spetta a Como – scrive Folli - quella fiorente città era scissa e lacerata da due fazioni rappresentate dalle nobili famiglie dei Vittani e dei Rusconi». I primi capitani da Filippo Torriani e i secondi da Corrado Venosta, un capobanda – secondo la definizione di Costa -, un facinoroso e un «seminatore di scandali colle perverse dottrine e colla condotta non meno perversa».
Prevalendo nella contesa i Vittani, i rettori comaschi, su spinta proprio di Pagano, bandirono dalla città il Venosta che si ritirò a Tirano «con l’animo invelenito deciso a vendicarsi dell’inquisitore». Seguirono altri anni torbidi e altre guerre, nel suo dominio valtellinese il Venosta si riprese e scese a Como a fare sfracelli. 
«Il Beato Pagano che vigila da buon pastore – ci dice Folli – vede l’inferocire degli eretici e la trepidante condizione dei cattolici della Valtellina e decide senz’altro di trasferirsi tra loro per qualche tempo. Lottare contro di essi è un esporsi, non solo ai sarcasmi e alle calunnie, ma anche alla morte. Pagano lo sa e anziché intimidirsi ed ascoltare la voce della prudenza umana, pensa che il suo intervento è reclamato dal bene delle anime e non si cura d’altro. Prevede la catastrofe, ma la vittima è pronta al sacrificio: il martirio è da lui desiderato».
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Cappella di San Giuseppe con le reliquie 

Così, il domenicano partì per la Valtellina. Alcune fonti parlano di una piccola delegazione, altre di un più corposo drappello: certamente vi erano un certo fra’ Cristoforo e due notai. Lo   scopo della missione era comunque quello di arrestare Corrado. Che non si fece cogliere alla sprovvista e sorprese il domenicano. A Mazzo, poco distante da Tirano, secondo il Dizionario Treccani, a Colorina nei pressi di Sondrio secondo la legenda diffusa dai nostri biografi: «Era la vigilia del santo Natale dell'anno 1277 – scrive Costa - quando fu proposto ed accettato il patto sacrilego: ma per tema di concitar contro sé il furore del popolo che si affollava nella chiesa, nulla osarono quel dì, né l'altro appresso. Spuntò il giorno di santo Stefano, e i sicari si appostaron alla Colorina, risoluti di non frapporre ulteriore indugio al delitto».
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Poco prima dell’alba del giorno di Santo Stefano del 1277, l’aggressione mortale. Furono uccisi anche i due notai e ferite gravemente fra’ Cristoforo che però sopravvisse e poté raccontare l’accaduto. E raccontò pure che «dalle ferite del Pagano ancora sei giorni dopo sgorgava il sangue che esalava una fragranza soave e perciò si tardò a tumularlo». Per quanto le ferite continuassero a sanguinare anche al momento della sepoltura. E «il popolo cominciò a venerarne la memoria e iniziarono anche i miracoli».
Il giorno di San Silvestro, il corpo fu portato a Como e deposto sotto l’altare maggiore della chiesa di San Giovanni Pedemonte e lì rimase fino al 1810 quando il convento venne soppresso da Napoleone e poi distrutto. Nel 1842, il corpo venne poi deposto nell’oratorio di San Michele. Fu in quell’occasione che si aprì la “questione” delle reliquie: «Doleva intanto agli abitanti di Lecco – ci informa ancora Costa - di non avere del loro illustre conterraneo veruna reliquia, solo ricordando una effigie dipinta ad olio sulla tela che sta nella chiesa prepositurale».
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Una storia, quelle delle reliquie, che ci viene raccontata in un opuscolo pubblicato ancora nel 1932 dalla tipografia del “Resegone” (“Il trasporto a Lecco di insigni reliquie del martire beato Pagano”), in occasione dell’arrivo in San Nicolò di nuove reliquie in aggiunta di quelle già conservate da quasi mezzo secolo.
Le prime reliquie erano arrivate il 23 giugno 1845. Era stato appena completato il nuovo ospedale civico progettato dall’architetto Giuseppe Bovara (il palazzo che oggi è sede del Comune) e che disponeva anche di una chiesa detta di Santa Maria al Presepio per un quadro dipinto da Panfilo Nuvolone, pittore secentesco di riconosciuto valore. L’urna contenente alcune costole, varie clavicole e un calcagno, venne deposta sotto l’altare. Un trasferimento di non indifferente rilevanza, tanto da essere celebrato l’anno seguente con un opuscolo di poesie stampato a Como dalla tipografia Ostinelli: raccoglieva due Inni del sacerdote Pietro Confalonieri e di Eugenio Tassani, ma anche un “Carme” di un giovane chierico lecchese: Antonio Stoppani, allora ventiduenne.
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Nel 1900, come si saprà, l’ospedale venne trasferito nel nuovo complesso di via Ghislanzoni e il suo posto venne preso dagli uffici del Tribunale. Per una serie di ragioni, le reliquie dovettero essere “sgomberate” dalla sera alla mattina, nel vero senso della parola: così che il 23 settembre una processione notturna le trasportò dal cessato ospedale alla chiesa prepositurale. 
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Processione per il Beato Pagano 1911

Nel 1932 arrivano le altre reliquie (un’ulna, un omero e uno sterno) anche se i lecchesi avrebbero voluto l’intero corpo,: nel 1931 avevano infatti presentato al vescovo di Como «una istanza firmata da migliaia e migliaia di persone distinte – esagera Folli – perché volesse concedere alla città natale il corpo del Beato Pagano o almeno il Capo. Per quanto legittimo e giusto questo desiderio dei lecchesi, non meno giusto e fondato era il diritto dei cittadini di Como di non privarsi del corpo del Beato, perché la diocesi di Como era stato il campo del suo lavoro, dei suoi ardimenti generosi e sopra tutto del suo martirio. Tuttavia monsignor vescovo di Como promise che avrebbe ben volentieri concessa una reliquia insigne» e così vennero riesumati i resti dai quali vennero asportati un’ulna, un omero e uno sterno che la sera stessa vennero inviati a Lecco «dove, per quanto fosse tardi, vennero accolte con vero entusiasmo da numeroso popolo che, al suono festivo delle campane, si era raccolto devotamente nella Prepositurale» dove ancora sono conservate, parte in un busto e parte in una teca di vetro, l’uno destinato  a essere collocato sull’altare e l’altra posta nella cappella di San Giuseppe, come ci informa Oleg Zastrow, storico comasco e infaticabile e certosino catalogatore delle oreficerie sacre a informarci nei dettagli in quel ponderoso volume che è “San Nicolò. Storia e arte della Basilica di Lecco” stampato nel 1999 dall’Editoria Grafica Colombo per conto della stessa Prepositura con testi anche di Bruno Bianchi, Angelo Borghi e Giacomo Luzzana.
Dario Cercek
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