SCAFFALE LECCHESE/235: tra novella e parodia manzoniana, i racconti natalizi di Ghislanzoni
«Dal “calamo logorroico” di Antonio Ghislanzoni uscirono sovente pagine di ambientazione natalizia; di schietta ispirazione al Natale con il ricorrente e un po’ stereotipato bagaglio di coscienze macchiate, rimorsi e ravvedimenti provvidenzialmente coincidenti con la Notte Santa o di ispirazione più eteroclita in cui il tema, originariamente religioso, è costantemente filtrato dal suo dissacrante spirito burlesco. Al primo filone si può ascrivere la novella “Il corvo rosso”, al secondo appartiene la parodia manzoniana del “Natale: inno sacro” e senz’altro “I drammi del Natale”».
All’allerta dei cuochi, segue la messa in tavola e allora sale l’invocazione: «Signor, signor, soccorrimi/ Nella tremenda impresa!/ Io sono un buon cattolico…/ Bramo onorar la Chiesa…/ Ma all’ocausto pio/ Infermo, ohimè! Son io…/ A tanto sacrifizio/ Cede ogni ventre uman./ Di questo ancor ti supplico,/ Buon Dio che ci hai redenti:/ Mentre alle turpi gastriche/ Si sciupano i gaudenti,/ L’orrendo strazio cessi/ Dei mille paria oppressi,/ Che proni ai solchi gridano:/ A noi non basta il pan!».
La poesia è pubblicata nel primo volume, stampato a Bergamo nel 1886, di quei “Capricci letterari”, nei quali Ghislanzoni avrebbe inteso raccogliere la propria sterminata produzione letteraria, salvo poi abbandonare il progetto.Lo stesso Baio ci ricorda anche come Ghislanzoni avesse poi scritto «“I drammi del Natale” sulla scia della moda del racconto natalizio introdotta e diffusa in Italia sotto una doppia spinta: editoriale per la proluvie di lunari, almanacchi, strenne che si andò via via pubblicando e squisitamente letteraria a seguito della traduzione (a partire dal 1852) dei “Christmas Books – e soprattutto di “A Christmas Carol” – di Charlkes Dickens”.
“I drammi del Natale” era comparso nel 1878 nel “Libro allegro” e poi ripubblicato nel 1887 nel terzo volume degli stessi “Capricci letterari”.
“Il corvo rosso” apparve nel 1891 al giornale “La Posta di Caprino” ma dovrebbe trattarsi della rielaborazione di un racconto di vent’anni prima annunciato e che poi non venne mai pubblicato.
Si tratta di due racconti dalle caratteristiche decisamente opposte, a confermare lo spirito proteiforme di Ghislanzoni. Il primo può essere catalogato come umoristico ed è una storia ironica e amara. Il secondo è invece già truculento, guardando più alla letteratura dell’orrore.Nei “Drammi del Natale” si racconta la storia di Sperongiallo e Nasella «due polli della più pura specie indiana» che una buona massaia aveva aiutato «a sgusciarsi e quindi allevati con molto amore e poco dispendio, sebbene in cuor suo ella innalzasse ogni mattina delle fervide preci al Signore, onde crescessero sani e grassi e degni del loro destino». I due pollastri «eran cresciuti insieme dalla più tenera infanzia» e quindi nessuna sorpresa «che all’età delle forti passioni, Sperongiallo e Nasella si amassero».
Finché un giorno di dicembre vengono divisi: la buona massaia li porta al mercato e l’uno viene acquistato dal «signor Meronzio ricco proprietario di Oggiono» e la seconda dal «dottor Tencalli di Galbiate».
Finché, il 16 dicembre, dopo avere assistito al cruento sacrificio dei due paperi con i quali aveva condiviso quei giorni prenatalizi, Nasella intuisce ciò che l’aspetta: «Tutto perfidia, tradimento, inganno! Sì! noi siamo traditi… La strage dei nostri è decretata… Ho appena il tempo di prevenirti… Se puoi, affrettati… salta il muro… riparati all’estero». E il giorno seguente, Sperongiallo risponde: «La tua lettera mi trova… spirante. Ti scrivo col sangue… Mi unisco a te nell’imprecare all’ipocrisia ed alla ferocia degli uomini… Iddio ci vendicherà….».
La conclusione è lasciata alle “parole” di Fido a Diana: «Perdona se ieri non son venuto a trovarti. Sai bene; al natale, in casa Tencalli, tutti imbestialiscono più del solito. Non dubito che tu avrai passata la festa cristianamente. Qui ce ne siam dati da crepare. Da me solo ho dovuto smaltirmi le ossa di due paperi e quelle di Nasella per giunta. Micione, il gatto di casa, che gli altri anni mi aiutava col suo buon stomaco alla cremazione degli scheletri, questa volta… fu egli stesso cremato da alcuni buontemponi, i quali, in difetto di pollame, lo mangiarono in guazzetto. Ringraziamo la provvida natura che si è piaciuta di dare alle nostre carni un sapore ripugnante al palato degli uomini; ove ciò non fosse, questi signori sarebbero ben capaci di divorarci anche noi che siamo, come essi affermano colle parole e cogli scritti, i loro migliori amici».“Il corvo rosso” prende invece le mosse da un delitto consumato a Caprino la notte di Natale: «Mastro Lanza, un dabben uomo sulla cinquantina, da due mesi rimpatriato dall’America con un bel gruzzolo di monete, era stato ucciso da mano ignota».
Vane le indagini dei gendarmi per individuare l’assassino, mentre al camposanto il becchino recitava «questa lugubre antifona: “Il tuo letto è ghiacciato, povero mastro; e il birbone che ti segò la gola per impadronirsi delle tue piastre, passerà allegramente l’invernata presso un focolare coronato di bottiglie!».L’attenzione si sposta poi su un misterioso viandante, Nardo dei Brizzi, che da Pontida si sta recando a Opreno, nella valle di Caprino, timoroso di essere sorpreso dalla notte lungo la strada: «Camminava… camminava. Superata l’erta, si arrestò per un istante, come all’affacciarsi di un ostacolo o al suono di una minaccia. Che aveva veduto? Che udito? Aveva vedute le bianche muraglie del cimitero, aveva udito il rauco strido di un corvo». Si tratta appunto del corvo rosso che attende l’uomo e lo segue fino a casa, minaccioso. Ingenerando nel viandante inquietudine e timori tali da non fargli chiudere occhio. Cosicché il mattino, dopo una notte pressoché insonne, l’uomo imbraccia il fucile per sparare al corvo, il quale «dal ramo di un albero dove si era riparato, si spiccò con uno strido, e avventandosi all’uomo (…) gli piantò le grinfie negli occhi e gli compresse la faccia tra le ali sanguinose. L’uomo lasciò cadere il fucile, barcollò, rotolò nella neve ululando… L’assassino di mastro Lanza aveva tentato una cosa impossibile: uccidere la coscienza del suo delitto».A proposito di questo racconto, ancora Baio evoca Camillo Boito, Emilio De Marchi Heinrich Heine e il «sempre presente magistero di Edgar Allan Poe il cui poemetto “Il corvo” era ben conosciuto da Ghislanzoni che condivide l’elezione del torvo uccello al ruolo di creatura emblematica, proiezione iconica dell’io del protagonista lacerato dall’efferato delitto».
Così Gian Luca Baio della “Fucina Ghislanzoni” di Caprino introduceva proprio “I drammi del Natale” in una singolare collana, promossa dalla stessa “Fucina” e stampata dall’editore Cattaneo, frutto di un progetto del liceo artistico lecchese “Medardo Rosso” coordinato da Giorgio Rota e Valeria Campagni: scelti alcuni racconti di Ghislanzoni, erano stati poi gli studenti a illustrarli. La collana – denominata “Le ciliegie” – ha prodotto sette titoli tra il 2002 e il 2006. Tra questi, oltre ai “Drammi”, anche “Il corvo rosso”.In quanto all’inno sacro “Il Natale”, se il richiamo è inevitabilmente agli “Inni sacri” che Alessandro Manzoni ha dedicato alla festività dell’anno liturgico, la poesia di Ghislanzoni è naturalmente irriverente, una sferzata ironica a proposito di una solennità già allora ormai gastronomica prima che religiosa, non senza una critica severa al troppo spreco: «Dannato anch’io da secoli», per via del discendere da Adamo, nel giorno di Natale «ai festanti riti,/ Ai tumidi conviti/ Vuo’ dei redenti al fervido/ Zelo, il mio zelo unir». E si apre così un’enumerazione di leccornie: dalle ostriche al “solito branziano” che ogni anno invia «quel buon uomo di Tita». Il gran pranzo natalizio è l’occasione per un viaggio gastronomico: gli zamponi di Modena, la mortadella di Bologna, la mostarda e il torrone di Cremona, il tartufo piemontese, il pane di Siena, i piselli di Genova, i cappellini di Lodi, i biscotti novaresi. E naturalmente il “panetton regale” che è «stupendo simbolo/ Della città morale;/ Simiglia un’epa Immane/ Che dentro le sottane/ D’un frate e d’un canonico/ Al caldo intumidì».
All’allerta dei cuochi, segue la messa in tavola e allora sale l’invocazione: «Signor, signor, soccorrimi/ Nella tremenda impresa!/ Io sono un buon cattolico…/ Bramo onorar la Chiesa…/ Ma all’ocausto pio/ Infermo, ohimè! Son io…/ A tanto sacrifizio/ Cede ogni ventre uman./ Di questo ancor ti supplico,/ Buon Dio che ci hai redenti:/ Mentre alle turpi gastriche/ Si sciupano i gaudenti,/ L’orrendo strazio cessi/ Dei mille paria oppressi,/ Che proni ai solchi gridano:/ A noi non basta il pan!».
La poesia è pubblicata nel primo volume, stampato a Bergamo nel 1886, di quei “Capricci letterari”, nei quali Ghislanzoni avrebbe inteso raccogliere la propria sterminata produzione letteraria, salvo poi abbandonare il progetto.Lo stesso Baio ci ricorda anche come Ghislanzoni avesse poi scritto «“I drammi del Natale” sulla scia della moda del racconto natalizio introdotta e diffusa in Italia sotto una doppia spinta: editoriale per la proluvie di lunari, almanacchi, strenne che si andò via via pubblicando e squisitamente letteraria a seguito della traduzione (a partire dal 1852) dei “Christmas Books – e soprattutto di “A Christmas Carol” – di Charlkes Dickens”.
“I drammi del Natale” era comparso nel 1878 nel “Libro allegro” e poi ripubblicato nel 1887 nel terzo volume degli stessi “Capricci letterari”.
“Il corvo rosso” apparve nel 1891 al giornale “La Posta di Caprino” ma dovrebbe trattarsi della rielaborazione di un racconto di vent’anni prima annunciato e che poi non venne mai pubblicato.
Si tratta di due racconti dalle caratteristiche decisamente opposte, a confermare lo spirito proteiforme di Ghislanzoni. Il primo può essere catalogato come umoristico ed è una storia ironica e amara. Il secondo è invece già truculento, guardando più alla letteratura dell’orrore.Nei “Drammi del Natale” si racconta la storia di Sperongiallo e Nasella «due polli della più pura specie indiana» che una buona massaia aveva aiutato «a sgusciarsi e quindi allevati con molto amore e poco dispendio, sebbene in cuor suo ella innalzasse ogni mattina delle fervide preci al Signore, onde crescessero sani e grassi e degni del loro destino». I due pollastri «eran cresciuti insieme dalla più tenera infanzia» e quindi nessuna sorpresa «che all’età delle forti passioni, Sperongiallo e Nasella si amassero».
Finché un giorno di dicembre vengono divisi: la buona massaia li porta al mercato e l’uno viene acquistato dal «signor Meronzio ricco proprietario di Oggiono» e la seconda dal «dottor Tencalli di Galbiate».
«La lingua indiana – continua il narratore – possiede, per esprimere la disperazione del dolore, accenti intraducibili. Nasella, separata a viva forza dal suo compagno di infanzia, strillava a tutta gola: “glù-glù-zit-tai-lai-glù-sit-las-giù”, ciò che potrebbe in qualche maniera spiegarsi colla parafrasi: “amami sempre, conservamiti fedele se lo puoi, e scrivimi affrancando”. Sperongiallo, avvinto per le gambe da una fune, urlava d’altra parte: “glut-glut as-glut”, il che presso a poco significa: “amerò, scriverò, farò quel che potrò”. Nei maschi l’espressione del dolore suol essere più laconica. Le femmine, al dire dei più famosi naturalisti, esalano il doppio di quello che sentono».
I due pollastri riescono a tenersi in comunicazione, grazie al cane Fido del dottor Tencalli che nottetempo si reca «per isbrigare certe sue peccaminose faccende colla cagna» Diana del signor Meronzio e pertanto s’incarica di recapitare lettere e riposte dei pennuti innamorati.
Ignara della sua sorte, Nasella scrive di come sia stata accolta con entusiasmo nella nuova casa: «Vogliono che io mi nutra sei volte al giorno – e quali vivande, quali ghiottonerie! (…) Gli uomini sono la nostra provvidenza quaggiù – benediciamoli in ogni ora del giorno». Analoga, naturalmente, la risposta di Sperongiallo: «Ho appena la forza di scriverti, tanto sono obeso. In verità, questi signori cominciano ad eccedere nella cortesia».I due pollastri riescono a tenersi in comunicazione, grazie al cane Fido del dottor Tencalli che nottetempo si reca «per isbrigare certe sue peccaminose faccende colla cagna» Diana del signor Meronzio e pertanto s’incarica di recapitare lettere e riposte dei pennuti innamorati.
Finché, il 16 dicembre, dopo avere assistito al cruento sacrificio dei due paperi con i quali aveva condiviso quei giorni prenatalizi, Nasella intuisce ciò che l’aspetta: «Tutto perfidia, tradimento, inganno! Sì! noi siamo traditi… La strage dei nostri è decretata… Ho appena il tempo di prevenirti… Se puoi, affrettati… salta il muro… riparati all’estero». E il giorno seguente, Sperongiallo risponde: «La tua lettera mi trova… spirante. Ti scrivo col sangue… Mi unisco a te nell’imprecare all’ipocrisia ed alla ferocia degli uomini… Iddio ci vendicherà….».
La conclusione è lasciata alle “parole” di Fido a Diana: «Perdona se ieri non son venuto a trovarti. Sai bene; al natale, in casa Tencalli, tutti imbestialiscono più del solito. Non dubito che tu avrai passata la festa cristianamente. Qui ce ne siam dati da crepare. Da me solo ho dovuto smaltirmi le ossa di due paperi e quelle di Nasella per giunta. Micione, il gatto di casa, che gli altri anni mi aiutava col suo buon stomaco alla cremazione degli scheletri, questa volta… fu egli stesso cremato da alcuni buontemponi, i quali, in difetto di pollame, lo mangiarono in guazzetto. Ringraziamo la provvida natura che si è piaciuta di dare alle nostre carni un sapore ripugnante al palato degli uomini; ove ciò non fosse, questi signori sarebbero ben capaci di divorarci anche noi che siamo, come essi affermano colle parole e cogli scritti, i loro migliori amici».“Il corvo rosso” prende invece le mosse da un delitto consumato a Caprino la notte di Natale: «Mastro Lanza, un dabben uomo sulla cinquantina, da due mesi rimpatriato dall’America con un bel gruzzolo di monete, era stato ucciso da mano ignota».
Vane le indagini dei gendarmi per individuare l’assassino, mentre al camposanto il becchino recitava «questa lugubre antifona: “Il tuo letto è ghiacciato, povero mastro; e il birbone che ti segò la gola per impadronirsi delle tue piastre, passerà allegramente l’invernata presso un focolare coronato di bottiglie!».L’attenzione si sposta poi su un misterioso viandante, Nardo dei Brizzi, che da Pontida si sta recando a Opreno, nella valle di Caprino, timoroso di essere sorpreso dalla notte lungo la strada: «Camminava… camminava. Superata l’erta, si arrestò per un istante, come all’affacciarsi di un ostacolo o al suono di una minaccia. Che aveva veduto? Che udito? Aveva vedute le bianche muraglie del cimitero, aveva udito il rauco strido di un corvo». Si tratta appunto del corvo rosso che attende l’uomo e lo segue fino a casa, minaccioso. Ingenerando nel viandante inquietudine e timori tali da non fargli chiudere occhio. Cosicché il mattino, dopo una notte pressoché insonne, l’uomo imbraccia il fucile per sparare al corvo, il quale «dal ramo di un albero dove si era riparato, si spiccò con uno strido, e avventandosi all’uomo (…) gli piantò le grinfie negli occhi e gli compresse la faccia tra le ali sanguinose. L’uomo lasciò cadere il fucile, barcollò, rotolò nella neve ululando… L’assassino di mastro Lanza aveva tentato una cosa impossibile: uccidere la coscienza del suo delitto».A proposito di questo racconto, ancora Baio evoca Camillo Boito, Emilio De Marchi Heinrich Heine e il «sempre presente magistero di Edgar Allan Poe il cui poemetto “Il corvo” era ben conosciuto da Ghislanzoni che condivide l’elezione del torvo uccello al ruolo di creatura emblematica, proiezione iconica dell’io del protagonista lacerato dall’efferato delitto».
Dario Cercek