SCAFFALE LECCHESE/234: la ‘descrittione’ del territorio di Lecco di Bernardo Tartari

Un territorio che «fiorisce non meno famoso che bello». Anzi, di rare bellezze «nelli ondeggianti christalli del Lago, quale or con ritorti giri stringendosi, or come ondeggiata campagna dilatandosi, or qui veloce al corso, strisciandosi quelle christalline acque frà quei intreciati laberinti di tante Gueglie, che conducono il gregge natante de pesci a un eterno carcere, formano un soave mormorio, or colà arrestatosi ampiamente distende un ceruleo letto alle gratie, et a favori, in tal maniera piacevolmente da una parte và circondando». Non è proprio l’incipit, ma quasi, balla solo qualche riga. Il linguaggio è un po’ arcaico, ma ci viene spontaneo compararlo con quell’altro più celebre incipit che vedrà la luce circa duecento anni dopo e cioè il manzoniano ramo del lago tutto a seni e a golfi. 
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Questa “veduta” ci è invece offerta dalla penna di Bernardo Tartari nella “Descrittione del territorio di Lecco”. Si tratta di un libriccino di poche pagine uscito dai torchi dello stampatore milanese Lodovico Monza nell’anno 1647. E scritto in occasione dell’infeudazione di Lecco al conte Marcellino Airoldo (e cioè Airoldi). Il libretto, volto a celebrare la bellezza del territorio e la grandezza del suo nuovo feudatario, è dunque opera “politica”. Ne rimane una copia alla Biblioteca Ambrosiana ed è quella che sarà poi riprodotta nel corso del Novecento: nel 1911 dalla Società geologica italiana per farne dono ai partecipanti al congresso geologico nazionale che si tenne a Lecco su iniziativa di Mario Cermenati; nel 1937 dall’editore Ettore Bartolozzi con una sobria edizione stampata in soli 125 esemplari; nel 1971, infine,  dal bisettimanale “Terzo ponte” diretto da Aroldo Benini che appoggiò al testo del Tartaru un apparato storico riconducibile allo stesso Benini o forse ad Angelo Borghi.
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Il “nostro” Tartari, peraltro, non deve essere confuso con l’omonimo Bernardo Tartari che nel Settecento fu frate guardiano al convento di Pescarenico del quale cominciò a compilare la celebre “Cronichetta”. Entrambi appartenevano comunque allo stesso ceppo famigliare attestato ad Acquate, proveniente da Mandello, e forse oriundo della Germania. 
Il Bernardo secentesco fu allievo del Collegio gesuitico di Brera, divenne sacerdote e quindi cappellano di Varigione e poi di San Giovanni alla Castagna e «nel 1675 riuscì ad erigere in parrocchiale la sua chiesa, avendo impegnato i suoi stessi beni». E perciò viene considerato il primo parroco di San Giovanni. Fu anche «protonotario e vicario foraneo di Lecco, “chiaro di dottrina, ardente di zelo”» e morì a 79 anni il 16 ottobre 1703.
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Bernardo Tartari
Naturalmente, possiamo immaginare come nel Seicento il paesaggio lecchese fosse incomparabilmente incantevole e pertanto anche comprenderne certe lodi sperticate che fanno apparire la descrizione del Tartari come quella di un vero e proprio paradiso terrestre: un «territorio sì ameno in una aperta pianura circondato da una stabil corona di verdeggianti, e fertilissimi monti, collinette, e piccole valli, la quale viene pomposamente adornata d’amenissimi oliveti, e di numerosi alberghi vestita, da limpidissime fontane innaffiata, le quali sotto frondeggianti arbori, col dolce mormorio gelide correndo destano, et insieme saziano di sete de viandanti le sitibonde fauci». E poi, le coltivazioni «poiché si vedono parti dalla natura prodotti, quali non so se siano più di diletto che di meraviglia e stupore» tanto che sembra prediletto dalle divinità e Bacco «di sicuro non rifiuterebbe quale albergo questo delizioso territorio».
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Il ponte di Lecco in una stampa del Seicento
Inoltre, «le Ninfe a gara ponendosi l’ultimo suo sforzo da miniere d’oro snervando le più limpide e perfette acque, che correnti s’ammirano nel fiume del Coldone le quali distillate fra tanti lambicchi, contessuti d’incatenate rupi, di sublimi balze, di profonde scoscese, di superbi macigni, ne composero sì cristallino e salutevole liquore, che come liquefatta dolcezza della terra, et insieme perfetta medicina del corpo, furono degne d’esser collocate su le reggie tavole, dove se bene suscitano gare di squisitezza alla varietà di tanti vini, e vermigli e bianchi, or picanti or dolci, or generosi». Si vanti pure, Venezia, d’avere le proprie fondamenta nelle salse acque del mare, che il territorio lecchese si vanterà d’avere acque limpidissime, fondamento di fama eterna.
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Dalla natura all’economia. Parlando del lago, il Tartari accenna a una “palestra di pescatori”, ma soprattutto ci racconta di una vallata del Gerenzone già in piena fioritura industriale. Si parla di un «fiume il cui antico ma sempre nuovo origine trae da un luogo appellato Gallina» e che discende «per quella fruttuosa valle dell’Orca, inoltrandosi fra rotati nidi di tante fucine, per esporre ai mortali i suoi utilissimi parti, che sono tanti tesori, danno il continuo moto a mantici con raddoppiati soffi fa che si s’innalzino scintillanti fiamme, a cui come tanti vulcani assistendo numerosi artefici, tutti grondanti di sudore, annegati nei vapori e scherzanti in mezzo al fuoco». E scendendo verso il Borgo, altre fabbriche, altri lavori, altre forme di ferro, rame e ottone. Dove mai trovare una così feconda “Gallina”? Lo dicano le Spagne, le Indie, le Afriche e le tante circonvicine città nelle quali si spargono come tesori i suoi prodotti». 
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Così che Lecco è ricca, il denaro abbonda e i suoi abitanti sono propensi a spendere. Soprattutto a quel mercato che si tiene nel borgo due volte alla settimana e che richiama numerose persone, tanto che il luogo può chiamarsi “Piazza del buon mercato».
Infine, begli edifici e chiese, monasteri e palazzi, quattordici parrocchie, per non parlare degli abitanti, «proporzionati e di bella statura» e che, ingagliarditi dalla natura benigna, vivono in salute e a lungo, «ricreando i loro spiriti con quell’aria soave?»
E dunque, quale altro luogo dello Stato di Milano gode di un «aere sì benigno, clima sì dolce, terra sì fertile, prati sì ameni, poggi sì ridenti, fiumi si deliziosi?». E in quale parte del mondo «si trafilarono più ferri? Si fabbricarono più rami? Si polirono più ottoni?».
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Ne discende che un territorio siffatto faccia gola a molti e sia stato pertanto causa di guerre. Ma orgoglio della città sono la “gagliarda” fortezza del borgo e l’altrettanto gagliardo ponte.
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Ma più che il territorio, il libretto di Bernardo Tartari vuol celebrare il conte di Lecco Marcellino Airoldi al quale il libretto è dedicato, «magnanimo signore» al quale questo fiore è stato concesso. E «dal qual fiore questo gran uomo ne spargerà un soavissimo odore di benigno e valoroso governo». Dedicandogli l’opera, il Tartari si proclama umilissimo servitore e «benché sia piccolo il dono che ardisco presentarle, la sua magnanimità più che grande farà grande anche la mia piccolezza».
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L’edizione di “Terzo Ponte” del 1971, come detto, ci aiuta negli approfondimenti. Oltre a informarci sull’autore, ci presenta anche la figura di Marcellino Airoldi: «Pare che la famiglia fosse originaria di Mandello. (…) E’ probabile che si fosse arricchita con l’arte degli spadari a Milano, così come in seguito verrà interessata all’arte metallurgica». Marcellino si era distinto per i servizi resi alla Corona di Spagna «cui aveva scucito in varie riprese 30mila scudi e nello stesso 1646, versava altri 10mila scudi alla tesoreria come anticipo del prezzo dei feudi che la Camera stava forsennatamente alienando al culmine della guerra dei trent’anni. (…) Quando Marcellino chiese il feudo di Lecco (…) gli si venne incontro visti “i servigi che da lui possiamo permetterci nell’avvenire…. Per maggiore utile della Real hazienda” (…) sicché il 20 aprile 1647 il notaio F. Marcantoli registrava la cessione di Lecco come feudo perpetuo, nobile e gentile con le sue dignità, privilegi, dazi, pascoli, ecc. all’Airoldi e discendenti maschi». Fino ad arrivare, nel Settecento all’abate Domenico Antonio «scomparso il quale il feudo viene concesso a Giuseppe marchese di Santacolomba palermitano fuggito nel 1796 e morto poi a Mandello nel ’99. La famiglia rimase poi sempre a Palermo».
Dario Cercek
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