Lecco: la città in transizione, in un arazzo. Omaggio a Alquati, a cent'anni dalla nascita

L’arazzo campeggia all’ingresso della sede della Fondazione comunitaria del Lecchese, al primo piano dell’Officina Badoni di corso Matteotti a Lecco. «Non c’erano ancora i mobili – ha detto la presidente Maria Grazia Nasazzi - nemmeno una scrivania e una sedia, ma l’arazzo quello sì». 
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Si parla dell’arazzo realizzato nel 1958 dalla scuola di Esino su cartone del pittore Franco Alquati, del quale ricorrono quest’anno i cent’anni della nascita (per la precisione, il 13 dicembre). Ed è proprio per l’occasione di questo anniversario che si sono volute accendere le luci su quest’opera di un pittore che era ormai dimenticato e che il figlio Marco è da qualche anno impegnato per valorizzarne la produzione «e per tributargli – ha detto egli stesso – un riconoscimento più di quanto abbia ricevuto fino a ora». In questo mese di dicembre, chiunque lo volesse potrà dunque recarsi alla sede della Fondazione Comunitaria del Lecchese durante gli orari di apertura (da lunedì a venerdì dalle 9 alle 12 e dalle 14 alle 18) e ammirare l’arazzo.
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Ieri sera, la presentazione dell’iniziativa da parte della presidente Nasazzi, dello stesso Marco Alquati e della conservatrice della casa museo di Villa Monastero a Varenna, Anna Ranzi.
L’arazzo è una particolare veduta di Lecco, da uno scorcio che richiama le antiche stampe – ha spiegato Ranzi – con il viaggiatore seduto sul poggio a guardare dall’alto. Il ponte Visconti, com’era appunto nelle vedute d’un tempo, è in primo piano. Curiosamente, Alquati l’ha disegnato con ancora la cappelletta centrale che nel 1958 non c’era più da ormai mezzo secolo. Del resto, la rappresentazione della città non rispetta le coordinate geografiche e storiche: gli edifici sono affastellati, addossati l’uno all’altro, in una sorta di groviglio dominato inevitabilmente dalle montagne. Si riconoscono la chiesa dei cappuccini, i “grattacieli” che andavano sorgendo in quel periodo di ricostruzione, i campanili di San Nicolò e della Vittoria, il campaniletto di Pescarenico, l’isola, i capannoni delle fabbriche.
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«L’arazzo – ha detto Maria Grazia Nasazzi, introducendo l’incontro – è una rappresentazione della nostra Fondazione, indica il radicamento nel territorio». 
Tre i motivi che sottendono all’iniziativa di questo mese: il primo, naturalmente, è il ricordo del pittore Alquati; il secondo è il valore dello stesso arazzo: «non lo si guarda mai a sufficienza, ogni volta si scopre qualcosa di nuovo» e soprattutto rappresenta eloquentemente «una città in transizione»; terzo motivo, la valorizzazione anche dell’esperienza della scuola di arazzeria di Esino, fondata nel 1936 da don Giambattista Rocca, parroco del paese dal 1927 al 1965, «un prete illuminato che ha offerto a tante donne un’occasione di lavoro e di bellezza». 
Realizzato appunto nel 1958, l’arazzo era nella sede di piazza Mazzini della Cariplo lecchese, quella che era nata come Cassa di risparmio delle province lombarde e che, come altri istituti di credito, è stata poi interessata da progetti di fusioni e accorpamenti. Fu proprio quando la Cariplo si fuse con l’Ambroveneta e stava per lasciare la sede di piazza Mazzini che l’arazzo venne “recuperato”.
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E’ stato Mario Romani Negri, a lungo presidente della stessa Fondazione Cariplo e poi fondatore dalla Fondazione comunitaria lecchese, a raccontare quei momenti: «Venni avvertito che stavano caricando quell’arazzo con altri arredi su un camion per portarlo chissà dove. Sono intervenuto, ho chiesto di averlo in comodato d’uso. E così, l’arazzo è di proprietà ancora della Cariplo ma è qui. Ed è un’opera che ci avvince. Del resto, l’importanza della scuola di Esino è riconosciuta: i suoi arazzi decoravano anche i transatlantici che andavano in America».
La scuola, fondata appunto nel 1936, «produsse opere di artisti quali Aligi Sassu, Bruno Cassinari, Umberto Lilloni, Pietro Marussig, Pietro Fornasetti; venne premiata alla Triennale di Milano con medaglia d’oro alle adizioni del 1940, 1951 e 1954. Chiusa nel 1961, venne riaperta nel 1990 per breve tempo»: così si legge nel pieghevole di presentazione.
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Un’esperienza, quella dell’arazzeria, ricordata dallo stesso sindaco di Esino, Pietro Pensa: «Per quella scuola, Esino è entrata in contatto con molti artisti. Ora, è chiusa, ma non chiusa… Perché Esino è intraprendente. Nonostante sia in posizione isolata, è un paese che vive e produce. Nel 2016 abbiamo ospitato addirittura il congresso mondiale di Wikipedia. La scuola di arazzi ha generato negli esinesi la capacità di non arrendersi di fronte a nessun ostacolo. Che non ci sia più è indubbiamente una perdita, ma il mondo va avanti. Per essere realizzate, queste opere richiedono una lunga lavorazione e finirebbero con il costare cifre impossibili. Eppure, nel 1990 abbiamo cercato di farla ripartire, ma non abbiamo trovato le persone, non c’era più quella manualità straordinaria che avevano le contadine, perché di contadine si trattava, che l’avevano fatta andare avanti per trent’anni».
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E’ stata poi la volta di Marco Alquati raccontare il papà Franco appunto con gli occhi di un figlio, snocciolando aneddoti, parlando di una casa che era un intero studio con i quadri appesi su tutte le pareti, di cacce al tesoro domestiche, di una famiglia “ingombrante” per via di levature intellettuali non indifferenti «e io ero la pecora nera, ma mi consolavo pensando che almeno con una pecore nera in mezzo, si sarebbero meglio riconosciute le bianche».
Nato nel 1924 a Cremona, Franco Alquati arrivò a Lecco quindicenne con la famiglia. Il padre era direttore dell’Inail oltre a essere un finissimo intellettuale, che conosceva il latino e il greco alla perfezione. Durante la guerra, si arruolò volontario in marina e finì in un campo di prigionia ad Algeri. Fu in quell’occasione che decise di dedicarsi alla pittura: «Nel campo – ha raccontato Marco Alquati – era stato organizzato un avventuroso concorso di disegno tra i reclusi. Lui partecipò con un disegno ispirato alla poesia più celebre di Giuseppe Ungaretti, “Mattina”, e cioè il “M’illumino d’immenso”. Vinse il primo premio. Durante la vita, poi, di premi ne vinse altri eppure disse sempre che quello più importante per lui fu proprio quello lì, quello di Algeri. Ho cercato a lungo e continuo a cercare quel disegno, non credo che ce la farò a ritrovarlo».
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Come molti altri artisti che di pittura non vivono, anche Franco Alquati fece diversi lavori: alla Tipografia Bodega di Lecco negli anni Cinquanta e Sessanta, poi nei Settanta avviò un’attività pubblicitaria che fu forse una delle prime in Italia ma che non ebbe fortuna. Fondò poi una rivista culturale (“La poltrona delle occasioni”), collaborò con la rivista “Adesso” di don Primo Mazzolari, con l’editore Ettore Bartolozzi e con “La Rivista di Lecco”.
«Era di carattere schivo – ha continuato il figlio – e per schivo si intendono molte cose: non mettersi al centro dell’attenzione, non scendere a compromessi con la politica e l’arte al di sopra di ogni cosa. Certo non fu nemmeno un artista fortunato: nel 1956, un gallerista volle portare a New York alcuni suoi quadri. Era un’occasione importante. Ma quei quadri erano sulla Andrea Doria che naufragò».
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Quando morì, il 25 novembre 1983, «era una sera come questa – ha detto ancora Marco – e mi è morto fra le braccia. Per me, il mondo si è spezzato. E’ stata durissima. Ho avuto non pochi problemi. E ora mi sono impegnato a rivalutare l’opera di papà, per tributargli un riconoscimento più di quanto abbia ricevuto fino a oggi. Come per tutti i figli, era il miglior papà del mondo. Mi ha fatto comprendere il mondo colorandolo, facendomi capire che bisogna colorare la vita altrimenti vedi solo i neri e i grigi».
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Da parte sua, Anna Ranzi ha parlato di un artista poliedrico: pittore e grafico, ma anche poeta. Varie le fasi: il paesaggio, vedute sintetiche prive di personaggi e poi l’arte sacra con delle crocifissioni straordinarie: il tema della sofferenza umana è stato una costante del lavoro.
Fino a quella straordinaria impresa che fu la Stamperia del Moretto, il cui protagonista fittizio era uno stampatore veneziano del Settecento che riproduceva opere impossibili di altri artisti». Un’impresa che Marco Alquati ha dettagliato ricordando come opere d’arte fossero gli stessi cartigli che certificavano l’autenticità del quadro e di come si ingegnasse ad apprendere i mezzi tecnici allora disponibili a partire da una fotocopiatrice giapponese che smontò e modificò tanto da essere sospettato di rubare segreti industriali: «Chissà cosa avrebbe realizzato, oggi, con la possibilità tecniche che ci sono».
D.C.
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