In viaggio a tempo indeterminato/355: dritti al cuore di Java

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Puntiamo dritto al cuore.
Potrebbe essere questo lo slogan per una nuova marca di cioccolato o l'inizio di un romanzo rosa stile "Harmony".
E invece stavolta è il nostro programma di viaggio a Java, l'isola indonesiana dove siamo sbarcati da ormai qualche giorno.
Dopo aver scalato un vulcano attivo che con il suo borbottio ci ha sconquassato per bene, abbiamo virato verso l'interno.
Il cuore di questo pezzetto di terra è una città chiamata Yogyakarta.
Un nome complesso che ancora non abbiamo ben capito come si legga, ma che ha un significato importante.
Yogya significa "adatto" e karta "prosperare", quindi questa è letteralmente "la città adatta a prosperare".
Un nome sicuramente di buon auspicio e che le ha portato bene nel corso della storia.
Ma in che senso il cuore? Come si stabilisce il "cuore" di un Paese? Ma c'è anche il cervello di un Paese? E le gambe o le braccia?
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Sì, lo ammetto.
Ho pronunciato spesso la frase "questo è il cuore di xxxxx" senza soffermarmi bene sul suo peso.
E ora, proprio mentre sto scrivendo, mi rendo conto del significato profondo di questa espressione.
Perché Yogyakarta non è considerata il cuore di Java per la sua economia, per le industrie o il business. Ma lo è perché i 38 km² che occupa, sono considerati il centro della cultura e dell'arte tradizionale giavanese. La letteratura, il teatro, la danza, la pittura, la tecnica batik per decorare i tessuti, la musica... è per tutto questo che Yogyakarta è famosa.
È lei a custodire il vero tesoro e l'essenza più profonda della giavanesità.
Rappresenta le radici, il passato, la storia di questa isola e dell'intera Indonesia.
La parte romantica in contrapposizione a quella razionale.

Questa città mi ha ricordato la pasta al forno che mangiavo da bambina. È quel ricordo piacevole del passato che ti tiene ancorato a terra mentre scopri, viaggi, ti allontani.
Sono state tutte le scolaresche e i gruppi di turisti indonesiani a farmici pensare, li osservavo mentre, seguendo una guida, si spostavano tutti insieme per le vie della città, tra i monumenti e il palazzo del sultano.
Il gruppo con i cappellini viola. Il gruppo con le camicie batik. Il gruppo con i vestiti tutti rosa.
Come sono belli tutti con un outfit coordinato.
Si muovono lenti e chiassosi, ma è facile leggere un'espressione orgogliosa sul loro volto. Come se lì, in quella città, scoprissero qualcosa di più della loro storia e di loro stessi.
"È come tornare a casa" leggo in una recensione fatta al Kraton, il palazzo del sultano nel centro storico.
Ammetto che all'inizio avevo pensato che l'autore di quella frase avesse fatto una battuta del tipo "mi sento a casa perché questo palazzo enorme con tre cortili e centinaia di stanze è esattamente come casa mia".
Che burlone! Dicevo all'inizio.
Salvo poi rendermi conto che quello che intendeva è che lì, tra quelle mura, c'era la storia dei suoi antenati, le sue tradizioni, casa sua insomma.
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E quella frase mi rieccheggiva in testa mentre osservavo ipnotizzata ed estasiata le ballerine di danze tradizionali giavanesi.
Il ritmo lento e costante della musica e i movimenti armoniosi di tutte quelle donne con i piedi scalzi e i capelli neri raccolti in una retina.
Alcune molto giovani, altre in età più matura.
Tutte lì, disposte in file parallele, a ripetere lentamente dei movimenti che coinvolgevano tutto il corpo, dalla fronte fino al mignolo del piede. Eleganza, delicatezza e armoniosità.
Ma quello che più mi colpiva era la partecipazione e la volontà di mantenere viva quell'arte, quella tradizione.
Come se a Yogyakarta avessero capito quale sia il vero tesoro dell'umanità e avessero deciso di proteggerlo e preservarlo.
Non potevamo trovare modo migliore per concludere il nostro viaggio in Indonesia.
Ci siamo portati via con noi un pezzetto del suo cuore e siamo sicuri che ogni volta che torneremo in questo Paese sarà "come tornare a casa".
Angela (e Paolo)
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