SCAFFALE LECCHESE/230: i "Promessi sposi" nella penna di Piero Chiara

La rivisitazione dei “Promessi sposi” manzoniani è passata anche per la penna dello scrittore Piero Chiara, il raffinato osservatore del costume della provincia italiana vista dall’angolazione particolare del lago Maggiore. 
La sua non doveva (o voleva) essere una parodia del gran romanzo nazionale. L’idea era un po’ più ambiziosa: riscrivere quella storia come il Manzoni avrebbe forse voluto (o non potuto) fare e non fece. Spiegava lo stesso Chiara: «Non pretendo di far credere che Alessandro Manzoni mi sia apparso in sogno o nel silenzio del mio studio e mi abbia chiesto di riscrivere il suo libro come l’avrebbe scritto lui oggi, o appena una trentina d’anni dopo. Ma è come se lui mi fosse apparso, perché l’ho sentito parlare tra le righe delle diverse versioni e varianti del suo romanzo. Soprattutto l’ho sentito parlare dal fondo del suo essere. Credo (…) di essermi introdotto (…) nella sua anima». 
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Però, volente o nolente l’autore, anche i suoi “Promessi sposi” sono ormai considerati alla stregua di una parodia. E, a essere sinceri, nemmeno delle più originali. Anche per Chiara, il rovesciamento del romanzo avviene per via sessuale: Lucia naturalmente è donna leggera, leggerissima, Agnese pensa al miglior partito per la figlia e questi certo non è Renzo che, per parte sua, con Lucia non batte chiodo ma si rifà nei bordelli. E i preti sono tutt’altro che esempi di virtù e tanto meno di castità. Siamo dunque non molto lontani da quel Guido (da) Verona che nel 1930 aveva dato scandalo. E se la “versione” di Chiara non arriva agli eccessi di quel romanzo è anche perché si tratta di una sceneggiatura cinematografica. E pertanto più stringata, essenziale.
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Guido da Verona

Oltretutto rimasta in un cassetto e pubblicata postuma nel 1996 da Mondadori. Non si può dunque sapere se l’autore, morto dieci anni prima e cioè nel 1986, sarebbe stato d’accordo. Forse sì, visto che ne avrebbe anche abbozzato la prefazione («Ho letto i “Promessi Sposi” un paio di volte in tutto, a cominciare dall’età di tredici anni, ma ci ho pensato tutta la vita») e anche che era solito divertire gli amici raccontando proprio «i “suoi” Promessi Sposi con un’allegria e precisione da farci rammaricare del fatto che mai avremmo potuto leggerli. “Perché non li scrivi?” incitavamo».
Il ricordo si deve a Ferruccio Parazzoli, scrittore e per un decennio direttore degli Oscar Mondadori, che introduce l’opera e ne racconta la genesi: «Chiara si apprestò a quest’opera di magia nell’inverno fra il 1970 e il 1971, quando raccontò la storia del suo Renzo e della sua Lucia a Marco Vicario con il quale, a Varese, stava stendendo una sceneggiatura. Ne nacque l’idea di un film. Nella primavera del 1971 Chiara dettò il testo della sceneggiatura della prima parte del romanzo e il riassunto-trattamento della seconda parte. Vicario ne rimase entusiasta ma il film non si fece a causa dei crescenti impegni».
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Piero Chiara

Morto lo scrittore, custode delle sue carte fu il comasco Federico Roncoroni che solo dieci anni dopo permise la pubblicazione integrale dei “Promessi” «su convinta insistenza dell’editore» e cioè Momdadori.
Va detto che il filo conduttore dell’intera vicenda rimane sostanzialmente quello manzoniano, a parte il finale che ci offre tutt’altra morale. 
I due “promessi” sono un Renzo che di cognome fa Brambilla, un giovane di circa 25 anni «dall’aria lievemente intronata», e una Lucia Castagna, ventiduenne dalle forme esuberanti e un seno prorompente. Che amoreggia con don Rodrigo ma anche con Padre Cristoforo. Anzi, il matrimonio con quel “tanghero” di Renzo è proprio architettato dal cappuccino «perché un San Giuseppe ci vuole» a mascherare la tresca. Del resto, Lucia raccomanda al frate di non venire così spesso a trovarla a casa perché «la gente osserva…» e anche Renzo potrebbe finire con l’intuire qualcosa. All’obiezione del francescano («Ma la mia veste…»), la replica di Lucia è tranchant: «La sua veste! Bello, lui! Come se la gente non lo sapesse cosa ci ha sotto la veste!».
Casto non è nemmeno il quarantenne don Abbondio che si trastulla con Perpetua, «una donna della sua stessa età. Infagottata in abiti quasi monacali, ma tutt’altro che brutta. Ha una bella capigliatura pettinata alla moda del tempo, un seno voluminoso e gli avambracci scoperti, tondi e bianchissimi». Per sovrappiù, il curato è un assiduo frequentatore del palazzo di don Rodrigo dove spesso si trattiene a pranzo. E, per quanto resti un pavido, è anche “uomo di mondo”. Per esempio, dice al Renzo infuriato per il matrimonio rimandato: ««Che bisogno hai di andarti a impegolare con quella Lucia? Con tante brave ragazze che ci sono in giro proprio Lucia ti vai a cercare! Una bella ragazza, non c’è che dire… Buona anche. Ma tanto chiacchierata… sulla quale ci sono, come dire? Molte ipoteche… pretese. E anche in qualche modo giustificate», suggerendo allo sposo mancato anche la possibile alternativa e cioè una vedova di Valmadrera o una di Morbegno. 
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In tema di preti assatanati, lo sarà anche il frate di Monza che accompagnerà Lucia al convento della monaca lanciando sguardi lussuriosi a di lei seno.
Agnese (Bartesaghi), come detto, calcola quale partito sia il migliore per Lucia: «Figlia mia! Qui bisogna scegliere! Il piede in tre scarpe non si può tenere! O ascolti il Padre Cristoforo, ti sposi il tuo Renzo appena puoi e ti metti sotto la protezione del Convento… Oppure non lo sposi e vai avanti così… Qualche marengo, per casa arriva… Forse ne arriveranno degli altri, che sarebbe ora! Che signore è questo Don Rodrigo, se non sgancia! (…) O i marenghi o la protezione del Convento… che in fondo vale come i marenghi, perché ci si mangia e ci si beve. Poi, devi sapere che questi spagnoli, oggi ci sono e domani chissà? Lo sai che c’è la guerra. E le guerre non si sa mai come vanno a finire. Ma la Chiesa, vinca Francia o vinca Spagna, sempre magna. E noi pure, se stiamo attaccati al campanile».
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Indubbiamente geniali le pagine in cui Lucia racconta a Renzo delle insidie di Don Rodrigo. La narrazione viaggia su binari paralleli: su uno corrono i dialoghi “ufficiali” e cioè le parole che Manzoni mette in bocca a Lucia, sull’altro la ricostruzione di Chiara che racconta tutta un’altra storia.
L’Azzeccagarbugli si chiama Gilardoni e rimane un frequentatore della mensa di Don Rodrigo. Però, cacciato dalla casa dell’avvocato, Renzo non demorde: cerca e trova consiglio in un dottor Rusconi detto “Rugamerda”.
La trama, come detto, segue il solco manzoniano: la notte degli imbrogli, la fuga a Monza con l’Addio Monti sostituito da una pisciata collettiva a da un discorsetto di Renzo al proprio membro. Poi, il rapimento che Lucia tutto sommato si aspettava anche se non «così all’improvviso», mentre la conversione dell’Innominato avviene dopo aver fatto cilecca con Lucia. La ragazza aveva fatto la civettuola con l’anziano ma affascinante castellano e i due e si erano coricati assieme ma «Bernardino Visconti passa la notte con Lucia senza riuscire a possederla. Si dispera, si vergogna, finché al mattino, quasi fuori di sé, la caccia dalla sua camera e spalanca la finestra. (…) Il Visconti decide di trarre partito dalla constatazione della sua irrimediabile vecchiaia. Va dal Cardinale e gli offre la sua clamorosa conversione (…) in cambio della revoca del bando e la restituzione dei tesori confiscati». Vediamo, tra l’altro, come l’innominato non sia più tale ma venga invece “nominato”.

Nel frattempo, Renzo passa per le rivolte di Milano, viene arrestato a casa di una celebre prostituta soprannominata “Schiscianüs” e riesce a fuggire poi verso la Bergamasca. Sennonché, superata l’Adda e messosi al sicuro, il povero Renzo anziché dire come volle il Manzoni «Ah, ne son proprio fuori! Sta lì, maledetto paese», si sfoga con un più colorito «Andate tutti a dar via il culo».

Ci sono il passaggio dei lanzichenecchi, la peste, il lazzaretto di Milano dove Renzo assiste al tentativo di «fuga di Don Rodrigo nudo dal lazzaretto, sopra un cavallo del quale si è impadronito. Caduta da cavallo per la strada e morte di don Rodrigo». Che i lettori sanno essere citazione autentica: la scena è quella ideata da Alessandro Manzoni nel cosiddetto “Fermo e Lucia”, salvo poi essere cancellata per le versioni a stampa.
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Quando infine Renzo reincontra Lucia scopre che, nel frattempo, si è sposata con don Ferrante e ha pure messo al mondo un bambino battezzato Cristoforo. Per Renzo non resta che un posto da cocchiere.

«Completamente e definitivamente scornato – conclude Chiara -, Renzo compie una specie di autocastrazione, riducendosi a cocchiere della donna amata, mentre Don Ferrante sublima la propria stagionatissima virilità facendosi portare in giro da chi sarebbe stato destinato per natura a possedere la donna che egli si è aggiudicata con la forza del rango, del danaro e dell’intelligenza)».

Va detto che, rispetto alla dissacrazione di Guido da Verona addirittura bruciata in piazza, il testo di Piero Chiara non suscitò polemiche o indignazione. Per quanto qualche intervento critico o scandalizzato ci sarà anche stato: noialtri, oggi, non ne abbiamo trovato traccia. Rispetto agli anni Trenta i tempi erano ormai cambiati. si era alla fine del Novecento, costume e società erano tutt’altra cosa. Del resto, sei anni prima della pubblicazione del romanzo di Chiara, a parodiare i “Promessi sposi, anche se in maniera più casta, considerato il pubblico al quale si rivolgeva, aveva provveduto la stessa televisione di Stato con la parodia messa in scena da un popolare trio comico: Massimo Lopez, Anna Marchesini, Tullio Solenghi.
Dario Cercek
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