In viaggio a tempo indeterminato/352: 53 ore dopo, lo sbarco
"È proprio marrone" penso mentre la vedo scorrere sotto il buco tra le assi di legno.
L'acqua del fiume Mahakam ha lo stesso colore delle caramelle al mou che mi piacciono tanto, ma mi fa un effetto diverso.
Sono nel bagno della barca, un buco come toilette e un secchio che si riempie di acqua di fiume come lavandino.
Il pavimento verde e le pareti gialle mettono allegria persino a una come me che alle 7 di mattina ancora non connette.
Prendo coraggio e mi faccio una doccia usando il secchiello più piccolo. La necessità di lavarmi ha preso il sopravvento sull'idea che quella fosse acqua marrone.
"Se lo fanno migliaia di persone perché non dovrei farlo io?"
È la mia domanda "mantra" quando mi blocco perché sono in una situazione che mi mette parecchio alla prova. In genere fa il suo effetto e mi riporta alla realtà del luogo in cui mi trovo.
Ha funzionato anche la prima volta che mi sono avvicinata a questo bagno e ho realizzato che sarei entrata a piedi nudi perché sulla barca non sono ammesse nemmeno le infradito.
Il profumo della saponetta e la freschezza dell'acqua mi danno la carica di cui avevo bisogno. Le prime 24 ore sulla barca stavano iniziando a dare i loro segni, ma avevamo deciso che saremmo arrivati fino al capolinea e questo avrebbe voluto dire almeno altre 12 ore di navigazione. O almeno questa era l'idea che avevamo, dato che era scritto sulla guida. La stessa guida che ci aveva spinto a infilarci in quell'avventura e a desiderare di arrivare a scoprire "il cuore del Borneo".
Tering doveva essere la nostra destinazione in origine e dalla mole di persone scese in questo villaggio, credo fosse l'idea di molti.
Quando ripartiamo dal piccolo porto fatto di tronchi mi rendo conto che sulla barca siamo rimasti in pochi, meno di una ventina. Ci sono più merci che passeggeri ormai a bordo e l'atmosfera si fa ancora più rilassata e tranquilla. I ragazzi che lavorano sulla barca si fanno un riposino nei posti letto rimasti vuoti e io mi siedo sola sul terrazzo esterno a scrutare l'orizzonte.
Le navi cariche di carbone sono sparite, il fiume ora scorre ancora più rapido e noi navighiamo ancora più lenti.
Le ore passano senza particolari colpi di scena e devo ammettere che è confortante pensare che non succederà nulla di diverso da quello che è successo nelle ultime 30 ore.
Abbiamo ormai finito tutte le provviste (cracker e scatolette di sardine) che ci eravamo portati, quindi decidiamo di assaggiare le prelibatezze preparate sulla barca.
L'idea che i piatti venissero lavati con l'acqua del fiume, fino a quel momento ci aveva un po' frenato.
Ma la fame fa superare ogni inibizione e quindi eccoci seduti al tavolo con davanti due piatti di riso, verdure e tempeh che non sono per niente male. Tre signore cucinano per tutti qui. Hanno solo due fuochi ma hanno preparato diverse opzioni anche con carne e pesce. I prezzi sono esattamente gli stessi della terraferma, 20.000 rupie indonesiane (1,20€) per un piatto. Speriamo solo che il lavaggio con acqua di fiume non abbia effetti collaterali perché il bagno è sempre e solo un buco in 4 assi di legno.
Tra un boccone e l'altro scambiamo quattro chiacchiere con le cuoche.
"A che ora arriviamo a Long Bagun?" chiede a un certo punto Paolo pensando che la risposta sarebbe stata un numero compreso tra 8 e 10 seguito dalla parola "jam", ore.
"Besok siang" è invece la risposta.
"Besok siang?!?" chiede Paolo pensando di aver capito male.
Mi guarda perplesso e in quel momento capiamo che la guida ci aveva illuso.
Arriveremo a destinazione domani pomeriggio. Non 37 ore ma più di 50.
Mentirei se dicessi che siamo andati nel panico dopo questa scoperta. L'abbiamo presa con filosofia. Come se il viaggio ci stesse dando la possibilità di rallentare e non fare nulla per ben due giorni e mezzo.
Che poi "nulla" è relativo perché osservare tutto quello che succede o non succede sulle rive di un fiume nel bel mezzo del Borneo si può dire tutto tranne che è il "nulla".
Con il passare delle ore, la barca inizia a fare parecchie soste. Si ferma lungo le rive, accanto a edifici in legno costruiti su piattaforme galleggianti.
Qualche metro prima dell'arrivo, il capitano suona la tromba e il rumore riecheggia fortissimo nel silenzio generale di quel luogo.
Vengono scaricate merci ogni volta.
In un villaggio viene lasciata una lavatrice e 4 polli.
In un altro 20 casse di frutta.
In un altro ancora dozzine e dozzine di uova che dei ragazzini di 10/12 anni vengono a recuperare in equilibrio su una piccola canoa.
Poi è il momento di salutare i pulcini che hanno pigolato costantemente per tutto il viaggio e di scaricare qualche pollo che ha viaggiato sul tetto della barca.
Ogni volta che ci avviciniamo a un villaggio le persone che mi vedono sul balcone della barca, mi scrutano curiose, prima di esplodere in un sorriso e in un "helloooo" caloroso.
È affascinante e coinvolgente osservare come si vive in questi piccoli centri lungo il fiume.
Abituati alle spedizioni "prime" con consegna in 24 ore, ai supermercati aperti 7 giorni su 7, alle autostrade veloci per raggiungere la destinazione, ci eravamo dimenticati dell'esistenza di un altro ritmo di vita.
Un ritmo che dipende dalla piena di un fiume e dal lento procedere di una barca di legno.
Un ritmo che è deciso dalla natura e che non contempla la possibilità di ordinare cibo cinese da asporto alle 10 di sera.
Un mondo che non corre ma cammina a passo calmo e rilassato.
Che riscoperta eccezionale!
Uscire dal turbinio e dalla fretta devo ammettere che però per noi non è semplice.
Le ore sembrano passare a una velocità diversa su questa barca e il pomeriggio del secondo giorno iniziamo a cedere.
"Non ce la faccio più!" ci troviamo a dire quasi all'unisono io e Paolo.
Salvo poi scoppiare a ridere, maledire la guida con le sue informazioni sbagliate e stupirci per un tramonto rosso che infuoca il cielo.
Sono passate le 10 del terzo giorno a bordo della barca pubblica che risale il fiume Mahakam. La giungla in questa parte di fiume ha lasciato il posto a delle alte scogliere rocciose, un tempo usate come luoghi di sepoltura dai Dayak, l'etnia che abita queste zone.
Quello è l'ultimo regalo che ci fa questo viaggio in barca, prima di raggiungere finalmente Long Bagun.
53 ore dopo la partenza da Samarinda finalmente sbarchiamo sulla terraferma. Camminare sembra stranissimo e le gambe hanno bisogno di qualche minuto per risvegliarsi.
Siamo arrivati a destinazione ma questo è proprio uno di quei casi in cui è il viaggio che conta e non la destinazione.
So che è una frase detta e ridetta ma non potrebbe descrivere meglio il senso di questa avventura.
Che poi, a pensarci bene, riassume un po' il senso della vita. La destinazione è la stessa per tutti quindi meglio godersi il viaggio per arrivarci.
L'acqua del fiume Mahakam ha lo stesso colore delle caramelle al mou che mi piacciono tanto, ma mi fa un effetto diverso.
Sono nel bagno della barca, un buco come toilette e un secchio che si riempie di acqua di fiume come lavandino.
Il pavimento verde e le pareti gialle mettono allegria persino a una come me che alle 7 di mattina ancora non connette.
Prendo coraggio e mi faccio una doccia usando il secchiello più piccolo. La necessità di lavarmi ha preso il sopravvento sull'idea che quella fosse acqua marrone.
"Se lo fanno migliaia di persone perché non dovrei farlo io?"
È la mia domanda "mantra" quando mi blocco perché sono in una situazione che mi mette parecchio alla prova. In genere fa il suo effetto e mi riporta alla realtà del luogo in cui mi trovo.
Ha funzionato anche la prima volta che mi sono avvicinata a questo bagno e ho realizzato che sarei entrata a piedi nudi perché sulla barca non sono ammesse nemmeno le infradito.
Il profumo della saponetta e la freschezza dell'acqua mi danno la carica di cui avevo bisogno. Le prime 24 ore sulla barca stavano iniziando a dare i loro segni, ma avevamo deciso che saremmo arrivati fino al capolinea e questo avrebbe voluto dire almeno altre 12 ore di navigazione. O almeno questa era l'idea che avevamo, dato che era scritto sulla guida. La stessa guida che ci aveva spinto a infilarci in quell'avventura e a desiderare di arrivare a scoprire "il cuore del Borneo".
Tering doveva essere la nostra destinazione in origine e dalla mole di persone scese in questo villaggio, credo fosse l'idea di molti.
Quando ripartiamo dal piccolo porto fatto di tronchi mi rendo conto che sulla barca siamo rimasti in pochi, meno di una ventina. Ci sono più merci che passeggeri ormai a bordo e l'atmosfera si fa ancora più rilassata e tranquilla. I ragazzi che lavorano sulla barca si fanno un riposino nei posti letto rimasti vuoti e io mi siedo sola sul terrazzo esterno a scrutare l'orizzonte.
Le navi cariche di carbone sono sparite, il fiume ora scorre ancora più rapido e noi navighiamo ancora più lenti.
Le ore passano senza particolari colpi di scena e devo ammettere che è confortante pensare che non succederà nulla di diverso da quello che è successo nelle ultime 30 ore.
Abbiamo ormai finito tutte le provviste (cracker e scatolette di sardine) che ci eravamo portati, quindi decidiamo di assaggiare le prelibatezze preparate sulla barca.
L'idea che i piatti venissero lavati con l'acqua del fiume, fino a quel momento ci aveva un po' frenato.
Ma la fame fa superare ogni inibizione e quindi eccoci seduti al tavolo con davanti due piatti di riso, verdure e tempeh che non sono per niente male. Tre signore cucinano per tutti qui. Hanno solo due fuochi ma hanno preparato diverse opzioni anche con carne e pesce. I prezzi sono esattamente gli stessi della terraferma, 20.000 rupie indonesiane (1,20€) per un piatto. Speriamo solo che il lavaggio con acqua di fiume non abbia effetti collaterali perché il bagno è sempre e solo un buco in 4 assi di legno.
Tra un boccone e l'altro scambiamo quattro chiacchiere con le cuoche.
"A che ora arriviamo a Long Bagun?" chiede a un certo punto Paolo pensando che la risposta sarebbe stata un numero compreso tra 8 e 10 seguito dalla parola "jam", ore.
"Besok siang" è invece la risposta.
"Besok siang?!?" chiede Paolo pensando di aver capito male.
Mi guarda perplesso e in quel momento capiamo che la guida ci aveva illuso.
Arriveremo a destinazione domani pomeriggio. Non 37 ore ma più di 50.
Mentirei se dicessi che siamo andati nel panico dopo questa scoperta. L'abbiamo presa con filosofia. Come se il viaggio ci stesse dando la possibilità di rallentare e non fare nulla per ben due giorni e mezzo.
Che poi "nulla" è relativo perché osservare tutto quello che succede o non succede sulle rive di un fiume nel bel mezzo del Borneo si può dire tutto tranne che è il "nulla".
Con il passare delle ore, la barca inizia a fare parecchie soste. Si ferma lungo le rive, accanto a edifici in legno costruiti su piattaforme galleggianti.
Qualche metro prima dell'arrivo, il capitano suona la tromba e il rumore riecheggia fortissimo nel silenzio generale di quel luogo.
Vengono scaricate merci ogni volta.
In un villaggio viene lasciata una lavatrice e 4 polli.
In un altro 20 casse di frutta.
In un altro ancora dozzine e dozzine di uova che dei ragazzini di 10/12 anni vengono a recuperare in equilibrio su una piccola canoa.
Poi è il momento di salutare i pulcini che hanno pigolato costantemente per tutto il viaggio e di scaricare qualche pollo che ha viaggiato sul tetto della barca.
Ogni volta che ci avviciniamo a un villaggio le persone che mi vedono sul balcone della barca, mi scrutano curiose, prima di esplodere in un sorriso e in un "helloooo" caloroso.
È affascinante e coinvolgente osservare come si vive in questi piccoli centri lungo il fiume.
Abituati alle spedizioni "prime" con consegna in 24 ore, ai supermercati aperti 7 giorni su 7, alle autostrade veloci per raggiungere la destinazione, ci eravamo dimenticati dell'esistenza di un altro ritmo di vita.
Un ritmo che dipende dalla piena di un fiume e dal lento procedere di una barca di legno.
Un ritmo che è deciso dalla natura e che non contempla la possibilità di ordinare cibo cinese da asporto alle 10 di sera.
Un mondo che non corre ma cammina a passo calmo e rilassato.
Che riscoperta eccezionale!
Uscire dal turbinio e dalla fretta devo ammettere che però per noi non è semplice.
Le ore sembrano passare a una velocità diversa su questa barca e il pomeriggio del secondo giorno iniziamo a cedere.
"Non ce la faccio più!" ci troviamo a dire quasi all'unisono io e Paolo.
Salvo poi scoppiare a ridere, maledire la guida con le sue informazioni sbagliate e stupirci per un tramonto rosso che infuoca il cielo.
Sono passate le 10 del terzo giorno a bordo della barca pubblica che risale il fiume Mahakam. La giungla in questa parte di fiume ha lasciato il posto a delle alte scogliere rocciose, un tempo usate come luoghi di sepoltura dai Dayak, l'etnia che abita queste zone.
Quello è l'ultimo regalo che ci fa questo viaggio in barca, prima di raggiungere finalmente Long Bagun.
53 ore dopo la partenza da Samarinda finalmente sbarchiamo sulla terraferma. Camminare sembra stranissimo e le gambe hanno bisogno di qualche minuto per risvegliarsi.
Siamo arrivati a destinazione ma questo è proprio uno di quei casi in cui è il viaggio che conta e non la destinazione.
So che è una frase detta e ridetta ma non potrebbe descrivere meglio il senso di questa avventura.
Che poi, a pensarci bene, riassume un po' il senso della vita. La destinazione è la stessa per tutti quindi meglio godersi il viaggio per arrivarci.
Angela (e Paolo)