Lecco: il piazzale della funivia per i Piani d'Erna intitolato a Francesca Ciceri

Il piazzale di partenza della funivia per i Piani d’Erna, è stato intitolato a Francesca Ciceri, nome di battaglia “Vera, protagonista della storia lecchese del Novecento, figura di primo piano nelle lotte antifascista e sindacale e della Resistenza. Luogo e data – domenica 20 ottobre - non casuali: nelle giornate del 19 e 20 ottobre 1943, i Piani d’Erna furono infatti teatro della battaglia tra i nazifascisti e i partigiani che un mese prima erano saliti lassù a costituire una delle prime formazioni armate d’Italia.
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Aprendo la cerimonia, il sindaco Mauro Gattinoni, oltre a ricordare come l’intitolazione sia stata deliberata all’unanimità dal consiglio comunale su proposta di Alberto Anghileri, ha anche indicato i tre motivi essenziali della dedica. Perché Francesca Ciceri era una donna e ancora troppo pochi sono i luoghi e le vie cittadine intitolati a una figura femminile, se si escludono i personaggi di fantasia dei “Promessi Sposi”. Perché il luogo è significativo, per la battaglia d’Erna, ma anche perché è il più alto della città. E terzo motivo, per il messaggio: Francesca Ciceri è stata donna di valore e valori che non ha esitato a difendere. Anche salendo in montagna ed è un impegno che ci ricorda come i sentieri della democrazia, a differenza di quelli di montagna, sono per tutti o non sono. Ricordando la canzone “Bella ciao”, il sindaco Gattinoni si è soffermato sul significato del “fiore del partigiano”: che altro è, questo fiore, se non la libertà, la democrazia.
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Dai fiori ha preso spunto anche la vicepresidente provinciale dell’Anpi (Associazione partigiani) lecchese, Patrizia Milani, che ha iniziato il suo intervento proprio con alcune parole di Francesca Ciceri. La quale un giorno ricordava come, salita in Erna per dare vita alla prima banda partigiana, scoprì dei bellissimi fiori in un luogo quasi inaccessibile o comunque poco battuto, chiedendosi dunque quale fosse il significato di quella bellezza se nessuno o pochi avrebbero potuto vedere. Proprio come l’impegno dei compagni di Resistenza, molti dei quali sarebbero stati dimenticati. Compagni e compagne, ha sottolineato Milani, che ha centrato la sua riflessione proprio sul ruolo delle donne nella lotta di Liberazione, un ruolo troppo spesso dimenticato. Eppure sono state 35mila le partigiane inquadrate nelle varie formazioni, 20mila le patriote impegnate in attività di sostegno, quasi cinquemila quelle arrestate, oltre seicento quelle fucilate. Ciò nonostante, gli stessi compagni di lotta mostravano diffidenza e temevano di consegnare loro le armi ritenendo non fossero capaci di usarle. 

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In molte testimonianze delle partigiane – ha continuato Milani – viene ricordato come un trauma, ma anche come qualcosa di inevitabile in quel momento per combattere i nazifascisti. Anche per questo, l’impegno delle donne nella Resistenza ha valore particolare: non dovevano fuggire perché renitenti alla leva della Repubblica Sociale, come i maschi. Si sono dunque impegnate per scelta, per tanti motivi: la fede religiosa, la “pietas” cristiana, l’ideologia politica, la stanchezza per la guerra voluta dal Fascismo, l’odio verso il fascismo e anche per spirito di ribellione e d’avventura per ché in quel momento il personale diventava politico: Si sono impegnate come potevano ma in maniera attiva ponendosi come elemento imprescindibile. Non si sono limitate a dare un contributo, come troppo spesso è stato detto, ma erano presenti. Non c’era settore in cui non lo fossero. E contavano anche nei momenti decisionali. Purtroppo sono state ricordate col termine vago di staffette, perché era difficile staccarle da un ruolo ancillare. Anche dopo, finita la guerra, sono state messe nell’angolo. Certo, le donne hanno conquistato il diritto di voto, ma c’è voluto ancora molto tempo perché il loro ruolo e i loro diritti fossero riconosciuti appieno.
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Roberta Cairoli

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Patrizia Milani

A offrire il ritratto di Francesca “Vera” Ciceri è stata Roberto Cairoli dell’Istituto di storia contemporanea e della Resistenza “Perretta” di Como, ricordando come la biografia della partigiana lecchesi si incroci con gli snodi storici nel Novecento: la prima guerra mondiale, il Fascismo, le lotte dei lavoratori. E nonostante sia una figura di primo piano nella lotta antifascista e in quella sindacale, è ancora poco nota, riconosciuta, ricordata.

Nata nel 1904, a 10 o 11 anni, Francesca Ciceri va a lavorare alla “Rocco Bonaiti”, a 16 anni partecipa alle lotte operaie fino all’occupazione della fabbrica nel 1920. E’ in quei giorni di scioperi che incontra Gaetano Invernizzi, già attivo nel Partito comunista e che nel 1922 è costretto a fuggire in Francia perché perseguitato dai fascisti. Lei lo raggiunge nel 1924 e resteranno poi uniti da un legame che unirà vita privata e politica. Si sposano nel 1925. Tornati in Italia, dopo l’8 settembre 1943 salgono ai Piani d’Erna a creare il primo nucleo della formazione partigiana “Carlo Pisacane”: operativa già dal 10 settembre, fu tra le prime in Italia. E che durò quaranta giorni, perché tra il 19 e il 20 ottobre vi fu il grande rastrellamento da parte dei nazifascisti. Dopo di che, Gaetano e Francesca vanno a Milano a lavorare per il partito: lei è incarcata di ristabilire i collegamenti tra le fabbriche milanesi e di avviare i gruppi di difesa delle donne, molte delle quali ingrosseranno poi le fila dei Gap (Gruppi di azione patriottica) e delle Sap (Squadre d’azione patriottiche) che costituiranno il partigianato urbano. Ma tutto ciò fu possibile per il grande ruolo che “Vera” ebbe nell’attività clandestina antifascista negli anni Venti e Trenta. Nel 1943 ha ormai 40 anni e alle spalle un grande bagaglio d’esperienze. Lei è una rivoluzionaria professionale, non c’è soluzione di continuità tra vita privata e vita privata e pubblica, la vita personale è modellata sulle priorità del partito. L’impegno è politico ma è anche quello di uscire dai canoni femminili, pagando per questo un prezzo altissimo. Nei confronti della donna, c’è infatti diffidenza e sospetto anche dai compagni di fede. E del resto, nei casellari giudiziari fascisti, Francesca Ciceri non è indicata come soggetto autonomo, ma come moglie del pericoloso sovversivo Gaetano Invernizzi. Eppure già in Francia, Francesca è attiva nel Soccorso Rosso per assistere le famiglie delle vittime della repressione fascista e costrette all’esilio, avvicinando mogli e figlie anche per capirne i problemi. Sono state 748 le donne deferite al Tribunale Speciale, 124 quelle processate. Lei è condannata e resta in carcere a Perugia dal 1937 al 1941. Senza tutto il grande lavoro fatto dalle donne, fatto da Francesca Ciceri, la Resistenza non sarebbe stata quello che è stata. Con il recupero di quelle istanze di emancipazione di inizio secolo che il Fascismo aveva cancellato. Un recupero che ha contraddistinto il suo lavoro anche dopo la guerra, con l’impegno nell’Udi e per i diritti delle donne. Valorizzare la memoria di Francesca Ciceri è un modo per riannodare i fili della storia della donna.
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E’ poi intervenuta Manuela Valsecchi, pronipote di Francesca Ciceri, che ha ringraziato Anpi e Comune da parte dei parenti: «La zia Francesca, come la sentivo chiamare, non l’ho conosciuta. E’ morta l’anno prima che io nascessi, però ne ho sentito parlare molto. E’ importante questa intitolazione perché è un tassello ulteriore di memoria, tanto più importante allontanandoci da quel periodo, per evitare che si dimentichi».

Infine, lo scoprimento della targa toponomastica: Francesca “Vera” Ciceri, partigiana lecchese, 1904-1988.
D.C.
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