SCAFFALE LECCHESE/225: l'Africa dell'esploratore Gaetano Casati
Per tre anni, gli ultimi della sua vita e cioè dal luglio 1899 al marzo 1902, fu sindaco di Monticello Brianza. Ma non è certo come amministratore che lo si ricorda, bensì come esploratore: dieci anni in Africa a effettuare ricerche geografiche e rilievi cartografici, ma inevitabilmente coinvolto nelle guerre locali e diventando per un momento un autentico eroe nazionale. Se in seguito ebbe a esprimere il desiderio d’essere dimenticato, questo desiderio «il mondo lo esaudisce sempre più presto che non creda chi l’esprime», come avrebbe sottolineato circa mezzo secolo dopo uno dei massimi letterati italiani, Riccardo Bacchelli.Si parla di Gaetano Casati: è figura importante nella storia dell’esplorazione italiana. Fu un protagonista di quella “scoperta” dell’Africa da parte degli europei nel corso del XIX secolo: si apriva una nuova stagione che da scientifica sarebbe diventata politica e militare, un movimento di conquista, un nuovo fronte del colonialismo. Lo stesso Casati – osserva lo storico brianzolo Sandro Pirovano – «si lascia attirare e condizionare inevitabilmente dalla ideologia della conquista coloniale, allora sempre più forte in Europa e che prosperava sulla convinzione di un entroterra africano “immerso nella barbarie”: era lo schiavismo, erano i sanguinosi contrasti tribali ad accentuare questa impressione negativa agli occhi degli Europei. Ma si noti l’affermazione convinta: “Perché una potenza possa vantare diritti di possesso su una regione conquistata, bisogna che dimostri che in quella regione dove ha trovato la barbarie, essa ha portato civiltà, miglioramento, progresso”. Beninteso che la civiltà di cui si parla è quella europea, che l’opera di civilizzazione richiama il celebre “fardello dell’uomo bianco”». Però è pur vero che «Casati inizia come estimatore dell’opera di Romolo Gessi, geografo e militare italiano al servizio anche del governatore inglese, nemico acerrimo dello schiavismo, ma anche fautore di una politica di “rigenerazione” dei nativi, mediante la collaborazione dei nativi stessi (…) già assunta come idea guida dal vescovo Comboni».
Aggiunge Bacchelli: «L’amor del prossimo e la sua filosofia l’accostarono ai negri con una disposizione dell’animo, con uno tratto così semplice e schiettamente umano che è raro e forse unico, e gli ispirava un affetto per la loro storia, non meno singolare di quello per le loro persone».
Della sua Africa, Casati ci parla un libro. “Dieci anni in Equatoria e ritorno con Emin pascià” pubblicato in due volumi nel 1891 dalla casa editrice “Fratelli Dumolard” di Milano.
Si tratta di una descrizione accurata e di una cronaca fin troppo dettagliato di quanto Casati ha incontrato e visto: popolazioni, tradizioni, natura, pagine di vita quotidiana. Con tanto di ricostruzioni storiche e di cronaca militare. E naturalmente le traversie che lo riguardano. Come quando venne imprigionato a Giuaia: «S’apre la porta del palazzo, squilla una tromba, ed il Visir si avanza seguito dai dignitari del regno e da copia di armati. (…) Ad un tratto egli stende risolutamente in alto il braccio destro. Il segnale è dato; l'aere rimbomba di orribili grida, la turba - sfrenata si avventa sopra di noi; ci afferrano, ci avvingono di corde, e siamo barbaramente legati ai grossi alberi in prossimità del gran lago. Spogliato del tarbusc, e predato di quanto aveva nelle mani e nelle tasche, io sono avvinto con corde al collo, alle braccia, ai polsi, ai ginocchi, al collo dei piedi, ed assicurato ad un grosso albero con tale diligenza atroce, da non lasciarmi libero di fare il benché minimo movimento». Rinchiuso in un luogo «non di buon augurio» dove sono ben visibili le tracce «del sangue dei trucidati» il pensiero fu che «bisogna. tentare una fuga» Che ci fu e fu rocambolesca.
Tra l’altro, proprio in quell’occasione gli vennero sottratti diari e appunti costringendolo, quando metterà mano alle proprie memorie, a ricorrere a lettere e report all’epoca inviati in Italia.
L’Equatoria del titolo è una provincia sudanese. All’epoca, era al centro di guerre continue con l’intervento più o meno ufficiale delle potenze europee. C’era ancora l’impero ottomano e c’erano le popolazioni arabe che puntavano a proprie autonomie. Il Sudan era sotto controllo egiziano ma con l’appoggio dei britannici e dal 1881 divenne teatro di una rivolta islamista. In questa cornice vanno inserite da una parte le rivalse e le rivolte delle singole nazionalità e tribù, dall’altra la battaglia contro lo schiavismo e le vendette dei trafficanti d’uomini. Pretesto per le politiche coloniali delle potenze europee. Interessate anche all’avorio del quale si faceva gran commercio. La cronaca registra massacri, stragi, decapitazioni, sacrifici umani, cannibalismo, guerre feroci e violenze efferate. Casati si trovava in mezzo a tutto questo e si rese conto che il suo lavoro non sarebbe stato solo geografico o tecnico, ma avrebbe richiesto risorse politiche, diplomatiche e anche militari, costretto a destreggiarsi tra mille interessi contrapposti, sospetti, doppiezze. Una situazione storica complessa che non possiamo certo riassumere qui. Lo stesso Casati ha un suo peccato: il suo sguardo è troppo ravvicinato. Però, è uno sguardo che cerca di essere obiettivo, da catalogatore scientifico. Anche se, naturalmente, è sguardo di un militare occidentale e certi pregiudizi traspaiono. La quantità di informazioni è impressionante, ma non c’è sintesi. A un lettore d’oggi risulta difficile tenere il passo.
Del resto – osserva ancora Bacchelli - «egli non era scrittore e le sue letture di poeti e di storici servirono a ingarbugliare il suo dettato, a far più rude ed indigesta la gran mole di fatti e di persone delle sue memorie».Ed è proprio Bacchelli, allora, a decidere di trasformare quel “dettato” in un romanzo, “Mal d’Africa”, uscito nel 1935 prima a puntate sulla rivista “La Nuova antologia” e poi in volume dall’editore milanese Treves. Non è delle sue opere migliori, ma all’uscita ebbe un discreto successo e più edizioni. Erano del resto gli anni in cui il Fascismo andava costruendo il suo “impero” africano: l’invasione dell’Etiopia è dell’ottobre 1935, la proclamazione dell’Impero del maggio 1936. «Lo si ritenne infatti libro di ispirazione imperialistica coloniale», ma si sarebbe trattato di un equivoco e «fu Bacchelli stesso a correggere l’interpretazione errata»: così sostiene il già citato Pirovano, autore di un esauriente volume (“L’esploratore Gaetano Casati”) voluto dall’amministrazione comunale di Monticello nel 1988. Nel 2001, un altro libro interessante: Caasati è personaggio non secondario di “Tenebre sul Congo” scritto da Luigi Guarnieri ed edito da Mondadori. Come il “Mal d’Africa” di Bacchelli, è un romanzo. Guarnieri quindi colorisce, si prende qualche libertà narrativa, ma mette anche ordine a una trama ingarbugliata che nemmeno Bacchelli aveva districato e ci offre così un quadro generale non solo dei fatti militari ma anche del contesto politico, nel quale è così possibile inquadrare e meglio comprendere le stesse memorie di Casati.
Il 28 dicembre di quello stesso anno si imbarcò da Genova per l’Africa dove appunto sarebbe rimasto dieci anni. «Restavano per uomini di buona volontà – ricorda Bacchelli -, segreti d’Africa da scoprire. Egli non arrivava troppo tardi. Restava cammino da fare, inesplorato, e per aggiungere il suo nome al catalogo dei predecessori, per legarlo sopra la carta geografica, umile perspicuo monumento di tante fatiche e pericoli, a una linea di colline o al serpeggiar di un fiume tropicale, c’era ancora da faticare e da azzardare».La scena era affollata di personaggi dalla vita e dalla morte romanzesche: c’erano il generale inglese Charles George Gordon, ucciso e decapitato a Khartum; il medico tedesco Isaak Eduard Schnitzler, convertitosi all’Islam che è l’Emin pascià del titolo di “Equatoria”; il già ricordato militare e geografo italiano Romolo Gessi, morto di stenti sulla via del rientro in Italia; il missionario italiano Daniele Comboni. Tra gli altri, anche una figura ormai consegnata al mito: il giornalista anglo-americano Henry Morton Stanley, quello del leggendario «Doctor Livingston, I presume», frase che in realtà non sarebbe mai stata pronunciata. E’ Guarnieri a offrirci una serie di ritratti di quei personaggi, mettendone in luce grandezze e miserie, generosità e meschinità. Stanley compreso.
Inoltre, tra i suoi personaggi, Guarnieri colloca arditamente anche lo scrittore Joseph Conrad, chiamando in causa proprio Casati. L’esploratore italiano, ormai ritiratosi in Brianza a scrivere le proprie memorie, ci viene ritratto così: «La sensazione principale è l’irrealtà. Ricordare è complicato. Senza gli appunti e i diari distrutti, poi, illuminare il passato è ancora più farraginoso e difficile. (…) A poco a poco la visione si farà libro, certo. Ma, alla fine, dopo averlo pubblicato, Casati capirà che – se vuole scrivere un libro destinato a durare nel tempo – la vita non si può soltanto raccontare. Bisogna inventarla di nuovo. No, non sarà lui a raccontarla, questa storia (…) dei semplici memoriali, accurati o tendenziosi, non bastano. Ma prima o poi la racconterà qualcun altro, forse». E questo qualcuno sarebbe appunto Conrad in “Cuore di tenebra”, il suo mister Kurz ricalcato su Emin pascià.
In quanto a Stanley, fu lui a guidare un vero e proprio esodo dall’Equatoria, un esodo obbligato dalle circostanze o forse provocato dallo stesso giornalista, come suggerisce Guarnieri il quale fa dire a Casati che di Stanley non ci si può fidare. L’esodo si tradusse in oltre sei mesi di cammino per 1600 chilometri in circostanze drammatiche da parte di centinaia di persone. Casati vi dedica molte pagine che sintetizziamo attingendo da Pirovano: «Una carovana che viene così descritta: alla testa l’imperterrito Stanley con una avanguardia di zanzibaresi, poi portatori, poi la gente di Equatoria in strana mescolanza di ebrei, ufficiali, egiziani, impiegati copti, soldati sudanesi: la gente di qualche importanza si porta schiavi, donne, bambini, con i carichi più stravaganti; degli Europei, oltre a Stanley ci sono i suoi collaboratori, il nostro Casati; è una “mescolanza bizzarra di tutte le tribù dell’Africa e dei tutti i popoli europei”, senza contare gli animali, indispensabili, al vettovagliamento che aumentano la confusione». Ci furono agguati, scaramucce, razzie, esecuzioni sommarie, diserzioni, ribellioni, tanti morti. Per un tratto di strada, lo stesso Casati fu costretto in barella. Nella carovana c’era anche la piccola Amina: «Era questa bambina – spiega l’esploratore – nata da una donna che si trovava al mio servizio; ed io avevo preso interesse per lei, sia per obbligo di umanità, sia per non piegare ai sentimenti di taluni, che avrebbero salutato con gioia l'abbandono di lei e della madre. (…) Mantenni la mia protezione alla bambina, che valse a lei ed alla madre la possibilità di superare le peripezie del viaggio e giungere a salvamento» e seguire poi Casati in Italia con altri fedeli servitori.In Italia arrivarono nel luglio 1890. Il nostro esploratore ebbe l’accoglienza degna di un eroe. E con non poca curiosità.
All’arrivo in treno a Milano «la fanfara della Società ginnastica di Lodi – scrive Guarnieri – attacca a strombazzare sul piazzale: Casati si avvia lungo il marciapiede tra due ali di folla plaudente, stringendo mani a destra e a sinistra, seguito da una dozzina di negri d’ogni età, maschi e femmine, inguainati in abiti di tela bianca, storditi dal viaggio interminabile e dall’accoglienza fragorosa. Stupore e panico fra gli astanti. Il giorno dopo gli indigenti verranno definiti dai giornali “una simpatica nota di colore”. (…) Turbe di monelli strillano in dialetto: Sono arrivati i cannibali a Milano!»
Dopo di che «si ritira con il suo bizzarro seguito a Monza – ci dice Pirovano -, a villa Giovio dove si dedica, recuperando lettere e rapporti, giacché gran parte del suo lavoro di ricerca è andato perduto, alla stesura delle sue memorie». Il gruppetto dei suoi fedeli servitori non avrebbe retto il clima: «Gli adulti hanno tutti un destino infelice, si ammalano molto presto, vengono mandati in Egitto e nessuno sopravvive» mentre un altro muore all’Ospedale Maggiore di Milano «ed una malinconica croce lo ricorderà per qualche tempo al cimitero di Musocco. Resta la piccola Amina, per la quale Casati ha sempre nutrito un affetto paterno».
Casati, si trasferì poi «a Cortenuova in comune di Monticello, dove ha acquistato tramite un conoscente una villetta e vi resterà fino alla morte. E si lascia coinvolgere abbastanza presto nella vita amministrativa, se già nel 1892 è fra i consiglieri e il 15 luglio 1895 è eletto tra i componenti della giunta. Nella seduta del consiglio comunale del 30 luglio 1899 è eletto sindaco e rimarrà in carica fino alla morte. Si occupa con puntiglio e assiduità delle piccole o meno piccole faccende amministrative. (…) A Cortenuova vive di ricordi: abitazione con bel giardino, salotto in cui conserva fotografie, medaglie, commende, diplomi di cui è stato insignito. Condizioni economiche modeste. Fondava molte speranze sulla pubblicazione del suo libro di memorie. (…) Ma l’edizione italiana dell’opera, affidata dalla editrice Buchner di Bamberga ai fratelli Dumolard di Milano messa in vendita a 25 lire si risolve in una delusione perché i Dumolard falliscono e Casati è costretto a rilevare le copie rimanenti. (…) I legami con l’Africa si vanno affievolendo per il nostro Casati, ormai tornato ad essere brianzolo ed avendo scelto l’eremo di Cortenuova per trascorrere gli ultimi anni. (…) Al nostro esploratore, divenuto monticellese d’adozione, restano del sogno africano le febbri periodicamente ricorrenti che lo fanno declinare rapidamente conducono alla morte: si spegne infatti all’una di notte del 7 marzo 1902. (…) La salma è tumolata nel cimitero di Triuggio».
Poi, dopo gli onori funebri, la memoria sembra svaporare: «I ricordi si fanno sporadici – continua Pirovano – e solo un ritorno di gloria pare toccare il nostro Casati nel 1938, quando la figlia adottiva Amina chiede al capo di Governo che venga celebrato degnamente il centenario della nascita dell’esploratore» e vengono organizzati a Monza «roboanti festeggiamenti, con tanto di discorso del sottosegretario Attilio Teruzzi e solenne parata di un battaglione di polizia coloniale, ma quanto tutto ciò sia un pretesto per una celebrazione del regime, ancora tardivamente impegnato a costruirsi il suo impero coloniale, è facilmente intuibile. (…) Ultima testimone di una vicenda ormai dispersa tra le nebbie del passato, aspetto inconfondibilmente “sudanese” ma accento disinvoltamente brianzolo, Amina Casati trascorre a Casatenovo gli ultimi anni di una esistenza dignitosa e patetica: muore il 23 marzo 1970».
Aggiunge Bacchelli: «L’amor del prossimo e la sua filosofia l’accostarono ai negri con una disposizione dell’animo, con uno tratto così semplice e schiettamente umano che è raro e forse unico, e gli ispirava un affetto per la loro storia, non meno singolare di quello per le loro persone».
Della sua Africa, Casati ci parla un libro. “Dieci anni in Equatoria e ritorno con Emin pascià” pubblicato in due volumi nel 1891 dalla casa editrice “Fratelli Dumolard” di Milano.
Si tratta di una descrizione accurata e di una cronaca fin troppo dettagliato di quanto Casati ha incontrato e visto: popolazioni, tradizioni, natura, pagine di vita quotidiana. Con tanto di ricostruzioni storiche e di cronaca militare. E naturalmente le traversie che lo riguardano. Come quando venne imprigionato a Giuaia: «S’apre la porta del palazzo, squilla una tromba, ed il Visir si avanza seguito dai dignitari del regno e da copia di armati. (…) Ad un tratto egli stende risolutamente in alto il braccio destro. Il segnale è dato; l'aere rimbomba di orribili grida, la turba - sfrenata si avventa sopra di noi; ci afferrano, ci avvingono di corde, e siamo barbaramente legati ai grossi alberi in prossimità del gran lago. Spogliato del tarbusc, e predato di quanto aveva nelle mani e nelle tasche, io sono avvinto con corde al collo, alle braccia, ai polsi, ai ginocchi, al collo dei piedi, ed assicurato ad un grosso albero con tale diligenza atroce, da non lasciarmi libero di fare il benché minimo movimento». Rinchiuso in un luogo «non di buon augurio» dove sono ben visibili le tracce «del sangue dei trucidati» il pensiero fu che «bisogna. tentare una fuga» Che ci fu e fu rocambolesca.
Tra l’altro, proprio in quell’occasione gli vennero sottratti diari e appunti costringendolo, quando metterà mano alle proprie memorie, a ricorrere a lettere e report all’epoca inviati in Italia.
L’Equatoria del titolo è una provincia sudanese. All’epoca, era al centro di guerre continue con l’intervento più o meno ufficiale delle potenze europee. C’era ancora l’impero ottomano e c’erano le popolazioni arabe che puntavano a proprie autonomie. Il Sudan era sotto controllo egiziano ma con l’appoggio dei britannici e dal 1881 divenne teatro di una rivolta islamista. In questa cornice vanno inserite da una parte le rivalse e le rivolte delle singole nazionalità e tribù, dall’altra la battaglia contro lo schiavismo e le vendette dei trafficanti d’uomini. Pretesto per le politiche coloniali delle potenze europee. Interessate anche all’avorio del quale si faceva gran commercio. La cronaca registra massacri, stragi, decapitazioni, sacrifici umani, cannibalismo, guerre feroci e violenze efferate. Casati si trovava in mezzo a tutto questo e si rese conto che il suo lavoro non sarebbe stato solo geografico o tecnico, ma avrebbe richiesto risorse politiche, diplomatiche e anche militari, costretto a destreggiarsi tra mille interessi contrapposti, sospetti, doppiezze. Una situazione storica complessa che non possiamo certo riassumere qui. Lo stesso Casati ha un suo peccato: il suo sguardo è troppo ravvicinato. Però, è uno sguardo che cerca di essere obiettivo, da catalogatore scientifico. Anche se, naturalmente, è sguardo di un militare occidentale e certi pregiudizi traspaiono. La quantità di informazioni è impressionante, ma non c’è sintesi. A un lettore d’oggi risulta difficile tenere il passo.
Del resto – osserva ancora Bacchelli - «egli non era scrittore e le sue letture di poeti e di storici servirono a ingarbugliare il suo dettato, a far più rude ed indigesta la gran mole di fatti e di persone delle sue memorie».Ed è proprio Bacchelli, allora, a decidere di trasformare quel “dettato” in un romanzo, “Mal d’Africa”, uscito nel 1935 prima a puntate sulla rivista “La Nuova antologia” e poi in volume dall’editore milanese Treves. Non è delle sue opere migliori, ma all’uscita ebbe un discreto successo e più edizioni. Erano del resto gli anni in cui il Fascismo andava costruendo il suo “impero” africano: l’invasione dell’Etiopia è dell’ottobre 1935, la proclamazione dell’Impero del maggio 1936. «Lo si ritenne infatti libro di ispirazione imperialistica coloniale», ma si sarebbe trattato di un equivoco e «fu Bacchelli stesso a correggere l’interpretazione errata»: così sostiene il già citato Pirovano, autore di un esauriente volume (“L’esploratore Gaetano Casati”) voluto dall’amministrazione comunale di Monticello nel 1988. Nel 2001, un altro libro interessante: Caasati è personaggio non secondario di “Tenebre sul Congo” scritto da Luigi Guarnieri ed edito da Mondadori. Come il “Mal d’Africa” di Bacchelli, è un romanzo. Guarnieri quindi colorisce, si prende qualche libertà narrativa, ma mette anche ordine a una trama ingarbugliata che nemmeno Bacchelli aveva districato e ci offre così un quadro generale non solo dei fatti militari ma anche del contesto politico, nel quale è così possibile inquadrare e meglio comprendere le stesse memorie di Casati.
Nato a Lesmo nel 1838, Casati abbandonò gli studi nel 1859 per partecipare alle guerre di indipendenza, fu bersagliere e all’indomani dell’Unità dell’Italia venne inviato al Sud per combattere il brigantaggio e successivamente assegnato agli uffici topografici per redigere le carte militari del Regno d’Italia. Congedatosi nel 1879, entrò nella redazione della rivista geografica “l’Esploratore”, in tempo per accogliere l’appello inviato da Romolo Gessi, da anni in Sudan, perché gli fosse inviato un giovane ufficiale esperto di topografia. Casati, giovane non lo era più, aveva ormai 40 anni, ma fremeva: «Nelle serate che passava per l’ordinario solo in camera – scrive Bacchelli -, levava gli occhi dai trattati di geografia e dai libri di viaggio, sospirando. Fantasticava i molti fiumi che dai laghi e dalle paludi equatoriali confluiscono a formare il Nilo e il Congo; le foreste dell’Africa tenebrosa, I Monti della Luna degli antichi geografi; gli rincresceva la sua vita».
Il 28 dicembre di quello stesso anno si imbarcò da Genova per l’Africa dove appunto sarebbe rimasto dieci anni. «Restavano per uomini di buona volontà – ricorda Bacchelli -, segreti d’Africa da scoprire. Egli non arrivava troppo tardi. Restava cammino da fare, inesplorato, e per aggiungere il suo nome al catalogo dei predecessori, per legarlo sopra la carta geografica, umile perspicuo monumento di tante fatiche e pericoli, a una linea di colline o al serpeggiar di un fiume tropicale, c’era ancora da faticare e da azzardare».La scena era affollata di personaggi dalla vita e dalla morte romanzesche: c’erano il generale inglese Charles George Gordon, ucciso e decapitato a Khartum; il medico tedesco Isaak Eduard Schnitzler, convertitosi all’Islam che è l’Emin pascià del titolo di “Equatoria”; il già ricordato militare e geografo italiano Romolo Gessi, morto di stenti sulla via del rientro in Italia; il missionario italiano Daniele Comboni. Tra gli altri, anche una figura ormai consegnata al mito: il giornalista anglo-americano Henry Morton Stanley, quello del leggendario «Doctor Livingston, I presume», frase che in realtà non sarebbe mai stata pronunciata. E’ Guarnieri a offrirci una serie di ritratti di quei personaggi, mettendone in luce grandezze e miserie, generosità e meschinità. Stanley compreso.
Inoltre, tra i suoi personaggi, Guarnieri colloca arditamente anche lo scrittore Joseph Conrad, chiamando in causa proprio Casati. L’esploratore italiano, ormai ritiratosi in Brianza a scrivere le proprie memorie, ci viene ritratto così: «La sensazione principale è l’irrealtà. Ricordare è complicato. Senza gli appunti e i diari distrutti, poi, illuminare il passato è ancora più farraginoso e difficile. (…) A poco a poco la visione si farà libro, certo. Ma, alla fine, dopo averlo pubblicato, Casati capirà che – se vuole scrivere un libro destinato a durare nel tempo – la vita non si può soltanto raccontare. Bisogna inventarla di nuovo. No, non sarà lui a raccontarla, questa storia (…) dei semplici memoriali, accurati o tendenziosi, non bastano. Ma prima o poi la racconterà qualcun altro, forse». E questo qualcuno sarebbe appunto Conrad in “Cuore di tenebra”, il suo mister Kurz ricalcato su Emin pascià.
In quanto a Stanley, fu lui a guidare un vero e proprio esodo dall’Equatoria, un esodo obbligato dalle circostanze o forse provocato dallo stesso giornalista, come suggerisce Guarnieri il quale fa dire a Casati che di Stanley non ci si può fidare. L’esodo si tradusse in oltre sei mesi di cammino per 1600 chilometri in circostanze drammatiche da parte di centinaia di persone. Casati vi dedica molte pagine che sintetizziamo attingendo da Pirovano: «Una carovana che viene così descritta: alla testa l’imperterrito Stanley con una avanguardia di zanzibaresi, poi portatori, poi la gente di Equatoria in strana mescolanza di ebrei, ufficiali, egiziani, impiegati copti, soldati sudanesi: la gente di qualche importanza si porta schiavi, donne, bambini, con i carichi più stravaganti; degli Europei, oltre a Stanley ci sono i suoi collaboratori, il nostro Casati; è una “mescolanza bizzarra di tutte le tribù dell’Africa e dei tutti i popoli europei”, senza contare gli animali, indispensabili, al vettovagliamento che aumentano la confusione». Ci furono agguati, scaramucce, razzie, esecuzioni sommarie, diserzioni, ribellioni, tanti morti. Per un tratto di strada, lo stesso Casati fu costretto in barella. Nella carovana c’era anche la piccola Amina: «Era questa bambina – spiega l’esploratore – nata da una donna che si trovava al mio servizio; ed io avevo preso interesse per lei, sia per obbligo di umanità, sia per non piegare ai sentimenti di taluni, che avrebbero salutato con gioia l'abbandono di lei e della madre. (…) Mantenni la mia protezione alla bambina, che valse a lei ed alla madre la possibilità di superare le peripezie del viaggio e giungere a salvamento» e seguire poi Casati in Italia con altri fedeli servitori.In Italia arrivarono nel luglio 1890. Il nostro esploratore ebbe l’accoglienza degna di un eroe. E con non poca curiosità.
All’arrivo in treno a Milano «la fanfara della Società ginnastica di Lodi – scrive Guarnieri – attacca a strombazzare sul piazzale: Casati si avvia lungo il marciapiede tra due ali di folla plaudente, stringendo mani a destra e a sinistra, seguito da una dozzina di negri d’ogni età, maschi e femmine, inguainati in abiti di tela bianca, storditi dal viaggio interminabile e dall’accoglienza fragorosa. Stupore e panico fra gli astanti. Il giorno dopo gli indigenti verranno definiti dai giornali “una simpatica nota di colore”. (…) Turbe di monelli strillano in dialetto: Sono arrivati i cannibali a Milano!»
Dopo di che «si ritira con il suo bizzarro seguito a Monza – ci dice Pirovano -, a villa Giovio dove si dedica, recuperando lettere e rapporti, giacché gran parte del suo lavoro di ricerca è andato perduto, alla stesura delle sue memorie». Il gruppetto dei suoi fedeli servitori non avrebbe retto il clima: «Gli adulti hanno tutti un destino infelice, si ammalano molto presto, vengono mandati in Egitto e nessuno sopravvive» mentre un altro muore all’Ospedale Maggiore di Milano «ed una malinconica croce lo ricorderà per qualche tempo al cimitero di Musocco. Resta la piccola Amina, per la quale Casati ha sempre nutrito un affetto paterno».
Casati, si trasferì poi «a Cortenuova in comune di Monticello, dove ha acquistato tramite un conoscente una villetta e vi resterà fino alla morte. E si lascia coinvolgere abbastanza presto nella vita amministrativa, se già nel 1892 è fra i consiglieri e il 15 luglio 1895 è eletto tra i componenti della giunta. Nella seduta del consiglio comunale del 30 luglio 1899 è eletto sindaco e rimarrà in carica fino alla morte. Si occupa con puntiglio e assiduità delle piccole o meno piccole faccende amministrative. (…) A Cortenuova vive di ricordi: abitazione con bel giardino, salotto in cui conserva fotografie, medaglie, commende, diplomi di cui è stato insignito. Condizioni economiche modeste. Fondava molte speranze sulla pubblicazione del suo libro di memorie. (…) Ma l’edizione italiana dell’opera, affidata dalla editrice Buchner di Bamberga ai fratelli Dumolard di Milano messa in vendita a 25 lire si risolve in una delusione perché i Dumolard falliscono e Casati è costretto a rilevare le copie rimanenti. (…) I legami con l’Africa si vanno affievolendo per il nostro Casati, ormai tornato ad essere brianzolo ed avendo scelto l’eremo di Cortenuova per trascorrere gli ultimi anni. (…) Al nostro esploratore, divenuto monticellese d’adozione, restano del sogno africano le febbri periodicamente ricorrenti che lo fanno declinare rapidamente conducono alla morte: si spegne infatti all’una di notte del 7 marzo 1902. (…) La salma è tumolata nel cimitero di Triuggio».
Poi, dopo gli onori funebri, la memoria sembra svaporare: «I ricordi si fanno sporadici – continua Pirovano – e solo un ritorno di gloria pare toccare il nostro Casati nel 1938, quando la figlia adottiva Amina chiede al capo di Governo che venga celebrato degnamente il centenario della nascita dell’esploratore» e vengono organizzati a Monza «roboanti festeggiamenti, con tanto di discorso del sottosegretario Attilio Teruzzi e solenne parata di un battaglione di polizia coloniale, ma quanto tutto ciò sia un pretesto per una celebrazione del regime, ancora tardivamente impegnato a costruirsi il suo impero coloniale, è facilmente intuibile. (…) Ultima testimone di una vicenda ormai dispersa tra le nebbie del passato, aspetto inconfondibilmente “sudanese” ma accento disinvoltamente brianzolo, Amina Casati trascorre a Casatenovo gli ultimi anni di una esistenza dignitosa e patetica: muore il 23 marzo 1970».
Dario Cercek