Lecco: la saga dei Badoni in un libro a quattro mani e tre teste
“Una casa di ferro e di vento”, un luogo dell’anima abitato da anime tempestose: è la villa Badoni a Castello. Dal cui parco un piccolo passaggio superava una fiumicella e conduceva nella grande fabbrica, la “Antonio Badoni”. Esterna ma in simbiosi. Due luoghi simbolo. «Che ci sono e non ci sono». Due luoghi non luoghi. A fare da cornice alla storia di una famiglia, quella di Giuseppe Riccardo Badoni, il patriarca e grande industriale e delle sue undici figlie, essendo morto in guerra nel 1943 l’unico figlio maschio che avrebbe dovuto essere l’erede ufficiale. “Una casa di ferro e di vento” è il titolo del romanzo scritto dai giornalisti Lorenzo Bonini e Paolo Valsecchi, uscito in questi giorni per l’Editrice Nord e presentato ieri sera in una sede più che simbolica: l’Officina Badoni, vale a dire il nuovo polo culturale voluto dalla Fondazione comunitaria del Lecchese e appena inaugurato in quell’edificio neogotico affacciato su corso Matteotti che era la vecchia mensa della fabbrica Badoni, per anni in condizioni di abbandono che ne avevano fatto davvero un non luogo.
Intervistati dalla giornalista Rosa Valsecchi, i due autori hanno raccontato genesi e stesura di un romanzo al quale hanno lavorato per due anni, cominciando con l’incontrare Marta Badoni, l’ultima nata e l’ultima rimasta delle undici figlie, scomparsa nel maggio scorso a 85 anni e alla quale il romanzo «è necessariamente dedicato». Poi sono stati scandagliati gli archivi privati e aziendali oggi conservati alla sede cittadina del Politecnico.
«Marta Badoni – ha spiegato Bonini – ha avuto il pregio di raccontarci non solo semplici fatti, ma immagini e simboli, le verità profonde di una famiglia, gli episodi a cui era particolarmente legata. Come quella mattina del 1954 quando scese per far colazione in una sala dove su una lavagna si era soliti scrivere gli impegni del giorno. Ma quella volta c’era scritto semplicemente “Adriana va in convento”. Adriana era la prima figlia del secondo matrimonio di Giuseppe Riccardo che in lei vedeva la possibile nuova futura conduttrice dell’azienda. E’ stato il primo capitolo che abbiamo scritto, il nucleo sul quale si è sviluppato il romanzo».
Il racconto copre il periodo tra gli anni Venti e Settanta del Novecento. All’indomani, dunque, della morte della prima moglie di Giuseppe Riccardo, Adriana Molteni che nel 1918, quando la prima guerra mondiale si stava avviando a conclusione, assisteva i malati di spagnola ricoverati all’ospedale restandone fatalmente contagiata. Era stata la prima grande cesura nella vita dei Badoni. Adriana Molteni lasciava quattro figlie e quel maschietto piccolissimo che appunto sarebbe caduto nell’altra guerra. E sarà, quel nuovo lutto, la seconda grande cesura: «E anche in questo – ha approfondito Bonini – il racconto di Marta, che era una psicanalista e pertanto particolarmente sensibile a certi argomenti, ha saputo leggere tutto il dramma di quel periodo. Perché se Giuseppe Riccardo Badoni trattava i dipendenti come figli, nello stesso tempo trattava i figli come dipendenti. E la morte di Antonio cambiava le carte in tavola e richiedeva sacrifici da parte di tutti».
L’idea originaria in realtà era quella di una rincorsa lunga, partendo dagli albori di una fabbrica destinata ad avere poi importanza mondiale, albori altrettanto affascinanti. Il consiglio della casa editrice è stato invece quello di focalizzare l’attenzione appunto su un periodo più ridotto. Scandendo la lettura con capitoli ciascuno dedicato a un personaggio. Ogni capitolo è quasi una storia a sé, non un semplice passaggio della trama. Tutti sono introdotti dalle poesie di Piera Badoni.
E comunque «abbiamo voluto scrivere la storia della famiglia e non della fabbrica – ha aggiunto Paolo Valsecchi - Era il nostro obiettivo. Chiaro fin dall’inizio. La storia di undici sorelle nate da due matrimoni, ognuna portatrice di una propria verità di vita. Come Laura, la primogenita assoluta, figlia ribelle che si oppone al padre, protagonista di una fuga importante e di un rientro in famiglia. Erano storie fortissime, un materiale da maneggiare con cura. E vi ci siamo avvicinati con attenzione e rispetto. Aiutati da Marta e dalla sua capacità di ripercorrere alcuni momenti di vita, dandoci interpretazioni che ci lasciavano a bocca aperta».
La famiglia, dunque, «nei suoi momenti drammatici e in quelli felici, con i piccoli riti: il curioso corteo casalingo nella notte di Natale al suono di un tam tam che Giuseppe Riccardo aveva portato da chissà quale viaggio in Africa o la mongolfiera fatta costruire dagli operai e lanciata nel cielo il pomeriggio del Lunedì dell’Angelo: andava seguita da tutta la famiglia ed era una vera e propria gara, si doveva indovinare dove sarebbe planata, avrebbe vinto chi l’avesse raggiunta prima degli altri».
In controluce il protagonista è Giuseppe Riccardo «e siccome nei romanzi bisogna promettere uno svelamento finale – ha precisato Bonini – questo è il suo diario giovanile. Segreto. E non si tratta di un escamotage. E’ stato davvero ritrovato proprio da Marta nel cassetto di un vecchio scrittoio finito poi chissà dove. Un particolare talmente romanzesco da superare il livello di realismo del libro. Ma anche se è il protagonista, il patriarca non compare mai direttamente in scena. E’ come un quadro cubista. Lo si riconosce attraverso lo sguardo delle figlie. E il tassello mancante del mosaico è appunto il diario giovanile».
Diario nel quale sono contenute le riflessioni del giovane GRB, come viene spesso chiamato, di fronte al futuro che gli delinea davanti, quello appunto di prendere in mano le redini di una fabbrica destinata a diventare sempre più importante fino a realizzare, nel 1973, quello straordinario ponte sul Bosforo, «il primo ponte intercontinentale – parole di Paolo Valsecchi - allora il ponte più lungo al mondo, ma che sarà anche il canto del cigno, perché poi inizierà poi il declino dell’azienda che sarà liquidata nel 1993, quando noi eravamo appena nati».
E quella fabbrica è quasi in simbiosi con la villa e l’eco cupa si avverte nella villa, con quell’eco ci si addormenta. Però, della fabbrica si parla poco nel libro. «Lo abbiamo fatto – ha continuato Paolo Valsecchi - soltanto per un paio di momenti storici – il 1945 con la fine della guerra e la necessità della ricostruzione e il 1948 con le elezioni che hanno un significato particolare nella nostra storia. In questo caso abbiamo voluto inserire anche le voci degli operai perché c’era la villa e c’era la fabbrica, ma fuori c’era il mondo che cambiava».
Ai due autori, Rosa Valsecchi ha poi chiesto come si riesca a scrivere un romanzo a quattro mani (e tre teste, considerata appunto Marta Badoni): «Siamo complementari e affini. Occorre essere pronti al passo indietro per non incidere sulla sensibilità dell’altro e nello stesso tempo ci si aiuta tanto. Uno va avanti quando l’altro è stanco». In quanto al fatto che due uomini abbiamo scritto di undici donne – un altro aspetto curioso sottolineato da Rosa Valsecchi - «è un problema che non ci siamo posti. A noi interessava cogliere il nocciolo di alcune verità esistenziali».
Intervistati dalla giornalista Rosa Valsecchi, i due autori hanno raccontato genesi e stesura di un romanzo al quale hanno lavorato per due anni, cominciando con l’incontrare Marta Badoni, l’ultima nata e l’ultima rimasta delle undici figlie, scomparsa nel maggio scorso a 85 anni e alla quale il romanzo «è necessariamente dedicato». Poi sono stati scandagliati gli archivi privati e aziendali oggi conservati alla sede cittadina del Politecnico.
«Marta Badoni – ha spiegato Bonini – ha avuto il pregio di raccontarci non solo semplici fatti, ma immagini e simboli, le verità profonde di una famiglia, gli episodi a cui era particolarmente legata. Come quella mattina del 1954 quando scese per far colazione in una sala dove su una lavagna si era soliti scrivere gli impegni del giorno. Ma quella volta c’era scritto semplicemente “Adriana va in convento”. Adriana era la prima figlia del secondo matrimonio di Giuseppe Riccardo che in lei vedeva la possibile nuova futura conduttrice dell’azienda. E’ stato il primo capitolo che abbiamo scritto, il nucleo sul quale si è sviluppato il romanzo».
Il racconto copre il periodo tra gli anni Venti e Settanta del Novecento. All’indomani, dunque, della morte della prima moglie di Giuseppe Riccardo, Adriana Molteni che nel 1918, quando la prima guerra mondiale si stava avviando a conclusione, assisteva i malati di spagnola ricoverati all’ospedale restandone fatalmente contagiata. Era stata la prima grande cesura nella vita dei Badoni. Adriana Molteni lasciava quattro figlie e quel maschietto piccolissimo che appunto sarebbe caduto nell’altra guerra. E sarà, quel nuovo lutto, la seconda grande cesura: «E anche in questo – ha approfondito Bonini – il racconto di Marta, che era una psicanalista e pertanto particolarmente sensibile a certi argomenti, ha saputo leggere tutto il dramma di quel periodo. Perché se Giuseppe Riccardo Badoni trattava i dipendenti come figli, nello stesso tempo trattava i figli come dipendenti. E la morte di Antonio cambiava le carte in tavola e richiedeva sacrifici da parte di tutti».
L’idea originaria in realtà era quella di una rincorsa lunga, partendo dagli albori di una fabbrica destinata ad avere poi importanza mondiale, albori altrettanto affascinanti. Il consiglio della casa editrice è stato invece quello di focalizzare l’attenzione appunto su un periodo più ridotto. Scandendo la lettura con capitoli ciascuno dedicato a un personaggio. Ogni capitolo è quasi una storia a sé, non un semplice passaggio della trama. Tutti sono introdotti dalle poesie di Piera Badoni.
E comunque «abbiamo voluto scrivere la storia della famiglia e non della fabbrica – ha aggiunto Paolo Valsecchi - Era il nostro obiettivo. Chiaro fin dall’inizio. La storia di undici sorelle nate da due matrimoni, ognuna portatrice di una propria verità di vita. Come Laura, la primogenita assoluta, figlia ribelle che si oppone al padre, protagonista di una fuga importante e di un rientro in famiglia. Erano storie fortissime, un materiale da maneggiare con cura. E vi ci siamo avvicinati con attenzione e rispetto. Aiutati da Marta e dalla sua capacità di ripercorrere alcuni momenti di vita, dandoci interpretazioni che ci lasciavano a bocca aperta».
La famiglia, dunque, «nei suoi momenti drammatici e in quelli felici, con i piccoli riti: il curioso corteo casalingo nella notte di Natale al suono di un tam tam che Giuseppe Riccardo aveva portato da chissà quale viaggio in Africa o la mongolfiera fatta costruire dagli operai e lanciata nel cielo il pomeriggio del Lunedì dell’Angelo: andava seguita da tutta la famiglia ed era una vera e propria gara, si doveva indovinare dove sarebbe planata, avrebbe vinto chi l’avesse raggiunta prima degli altri».
In controluce il protagonista è Giuseppe Riccardo «e siccome nei romanzi bisogna promettere uno svelamento finale – ha precisato Bonini – questo è il suo diario giovanile. Segreto. E non si tratta di un escamotage. E’ stato davvero ritrovato proprio da Marta nel cassetto di un vecchio scrittoio finito poi chissà dove. Un particolare talmente romanzesco da superare il livello di realismo del libro. Ma anche se è il protagonista, il patriarca non compare mai direttamente in scena. E’ come un quadro cubista. Lo si riconosce attraverso lo sguardo delle figlie. E il tassello mancante del mosaico è appunto il diario giovanile».
Diario nel quale sono contenute le riflessioni del giovane GRB, come viene spesso chiamato, di fronte al futuro che gli delinea davanti, quello appunto di prendere in mano le redini di una fabbrica destinata a diventare sempre più importante fino a realizzare, nel 1973, quello straordinario ponte sul Bosforo, «il primo ponte intercontinentale – parole di Paolo Valsecchi - allora il ponte più lungo al mondo, ma che sarà anche il canto del cigno, perché poi inizierà poi il declino dell’azienda che sarà liquidata nel 1993, quando noi eravamo appena nati».
E quella fabbrica è quasi in simbiosi con la villa e l’eco cupa si avverte nella villa, con quell’eco ci si addormenta. Però, della fabbrica si parla poco nel libro. «Lo abbiamo fatto – ha continuato Paolo Valsecchi - soltanto per un paio di momenti storici – il 1945 con la fine della guerra e la necessità della ricostruzione e il 1948 con le elezioni che hanno un significato particolare nella nostra storia. In questo caso abbiamo voluto inserire anche le voci degli operai perché c’era la villa e c’era la fabbrica, ma fuori c’era il mondo che cambiava».
Ai due autori, Rosa Valsecchi ha poi chiesto come si riesca a scrivere un romanzo a quattro mani (e tre teste, considerata appunto Marta Badoni): «Siamo complementari e affini. Occorre essere pronti al passo indietro per non incidere sulla sensibilità dell’altro e nello stesso tempo ci si aiuta tanto. Uno va avanti quando l’altro è stanco». In quanto al fatto che due uomini abbiamo scritto di undici donne – un altro aspetto curioso sottolineato da Rosa Valsecchi - «è un problema che non ci siamo posti. A noi interessava cogliere il nocciolo di alcune verità esistenziali».
D.C.