Lecco: un campione mondiale di kickboxing in carcere, per essere d'esempio
Per chi segue la kickboxing è una leggenda. Per gli appassionati di storie di riscatto un esempio. Per tutti indubbiamente un modello positivo. 15 i titoli mondiali vinti nella sua categoria. Altrettanti i giorni di viaggio, su un camion, affrontati da ragazzino per lasciarsi alle spalle la guerra che (nel silenzio più assoluto) insanguina ancora oggi l'Armenia e raggiungere, da clandestino, quell'Italia che, per suo fratello Armen, non aveva nemmeno una collocazione sul mappamondo ma, da amante del calcio, aveva "il volto" di Alex Del Piero. Giorgio Petrosyan, accompagnato proprio da Armen e dal mental coach Giovanni Tavaglione, venerdì sera è stato ospite della Casa Circondariale di Pescarenico, su invito della direttrice Luisa Mattina, convinta sostenitrice dell'importanza dello sport quale pratica per interiorizzare valori come la costanza, il rispetto, la disciplina... "La vostra esperienza - ha detto dunque la responsabile del carcere lecchese rivolgendo ai due Petrosyan, riusciti entrambi a realizzarsi attraverso la kickboxing - testimonia che non importa da dove siete venuti e quali ostacoli la vita vi ha posto davanti, ma contano l'impegno, la passione e il sacrificio. L'incontro di oggi - ha aggiunto ancora rivolgendosi a una platea di autorità, agenti di polizia penitenziaria, operatori "laici" della struttura e detenuti - vuole essere un momento di riflessione sull'importanza di porsi obiettivi".
Parlando anche di pazienza e umiltà quali ulteriori chiavi per "fare meta", la dottoressa Mattina - con riferimento anche alla figura di Tavaglione - ha chiuso il suo saluto introduttivo focalizzandosi, infine, sul "fidarsi e affidarsi alle persone giuste. Auguro a tutti voi - la chiosa del suo intervento - di trovare una persona speciale, che vi sappia sostenere e accompagnare, come il papà di Giorgio e Armen".
Già, il papà. Andranik. E' stato lui nel 1999 a decidere di lasciare l'Armenia, portando con sé i due figli più grandi, per evitare venissero chiamati, con la maggiore età, a imbracciare un fucile e combattere quella guerra contro l'Azerbaijan che già insanguinava un Paese privato di tutto, futuro per i suoi ragazzi inclusi. Stepan (il suo primogenito) e Gevorg (Giorgio, per l'appunto) si ritrovano così, dopo due settimane di traversata dell'Europa su un camion, a vivere in stazione centrale a Milano, poi a Torino, sempre all'addiaccio, senza nulla, per arrivare infine a Gorizia, accolti dalla Caritas.
Eppure Giorgio, classe 1985, è riuscito comunque a “trasformare le cicatrici in arte, il fango in oro” per dirla con le parole di Travaglione. “Avevo un obiettivo: dovevo diventare qualcuno. Ho fatto di tutto per centrarlo” ha confermato il campione, diventato tale faticando e faticando. “Guardavo Bruce Lee e Van Damme. Volevo essere come loro. Avevo 11 anni e già, in Armenia, andavo a correre la mattina prima di andare a scuola. Papà continuava a dirmi “diventerai il numero uno”. La testa è quella di mio padre. E' lui quello che mi ha messo sulla carreggiata. Poi, quando ho vinto il primo mondiale mi ha detto: “ora puoi andare avanti da solo””.
Ma se Andranik è stato lo sprone, sono state poi la caparbietà e la dedizione di Giorgio a fare di lui quello che è oggi. “Mi allenavo alla Caritas. Dicevo a mio papà “voglio una palestra””. Ora l'ha, con Armen, a Milano, via Sibari 15.
“Facevo il manovale edile, in nero, otto ore al giorno, facendomi assegnare apposta le mansioni più dure. Poi andavo direttamente in palestra. Ho iniziato a combattere a 16 anni, vincevo sempre. A 17 non avevo più un avversario in Italia. Ma non avevo i documenti e ho dovuto combattere anche con la burocrazia, per ottenere poi il permesso per viaggiare. In Giappone, nel 2009, ho vinto quello che per un calciatore è il pallone d'oro”. Senza sentirsi però arrivato. “Non devi mai sentirti arrivato. Il successo – ha risposto infatti a una domanda avanzata dal pubblico – non mi ha cambiato, sono rimasto umile, la persona che ha ancora voglia di fare”.
“Una lezione di vita” - come da titolo dell'incontro a Lecco – anche per Armen, anch'egli arrivato a ottimi livelli nella kickboxing: “io sempre ringrazio Giorgio. Sono arrivato in Italia un anno dopo di lui, volevo combattere anche io, ma non sapevo nulla. E' stato lui a insegnarmi, prima ti alleni poi combatti. Grazie allo sport, poi, abbiamo ottenuto la cittadinanza italiana, oggi abbiamo la nostra palestra a Milano, io ho cominciato a organizzare eventi, cosa che mi viene bene. Il prossimo sarà il 30 novembre, quando Giorgio difenderà il titolo che ora detiene. Possiamo dirci di essere orgogliosi di rappresentare l'Italia in giro per il mondo”.
Due campioni – insomma – nello sport come nella vita. Da applauso. Ma anche da imitare, da tutti.
Parlando anche di pazienza e umiltà quali ulteriori chiavi per "fare meta", la dottoressa Mattina - con riferimento anche alla figura di Tavaglione - ha chiuso il suo saluto introduttivo focalizzandosi, infine, sul "fidarsi e affidarsi alle persone giuste. Auguro a tutti voi - la chiosa del suo intervento - di trovare una persona speciale, che vi sappia sostenere e accompagnare, come il papà di Giorgio e Armen".
Già, il papà. Andranik. E' stato lui nel 1999 a decidere di lasciare l'Armenia, portando con sé i due figli più grandi, per evitare venissero chiamati, con la maggiore età, a imbracciare un fucile e combattere quella guerra contro l'Azerbaijan che già insanguinava un Paese privato di tutto, futuro per i suoi ragazzi inclusi. Stepan (il suo primogenito) e Gevorg (Giorgio, per l'appunto) si ritrovano così, dopo due settimane di traversata dell'Europa su un camion, a vivere in stazione centrale a Milano, poi a Torino, sempre all'addiaccio, senza nulla, per arrivare infine a Gorizia, accolti dalla Caritas.
Eppure Giorgio, classe 1985, è riuscito comunque a “trasformare le cicatrici in arte, il fango in oro” per dirla con le parole di Travaglione. “Avevo un obiettivo: dovevo diventare qualcuno. Ho fatto di tutto per centrarlo” ha confermato il campione, diventato tale faticando e faticando. “Guardavo Bruce Lee e Van Damme. Volevo essere come loro. Avevo 11 anni e già, in Armenia, andavo a correre la mattina prima di andare a scuola. Papà continuava a dirmi “diventerai il numero uno”. La testa è quella di mio padre. E' lui quello che mi ha messo sulla carreggiata. Poi, quando ho vinto il primo mondiale mi ha detto: “ora puoi andare avanti da solo””.
Ma se Andranik è stato lo sprone, sono state poi la caparbietà e la dedizione di Giorgio a fare di lui quello che è oggi. “Mi allenavo alla Caritas. Dicevo a mio papà “voglio una palestra””. Ora l'ha, con Armen, a Milano, via Sibari 15.
“Facevo il manovale edile, in nero, otto ore al giorno, facendomi assegnare apposta le mansioni più dure. Poi andavo direttamente in palestra. Ho iniziato a combattere a 16 anni, vincevo sempre. A 17 non avevo più un avversario in Italia. Ma non avevo i documenti e ho dovuto combattere anche con la burocrazia, per ottenere poi il permesso per viaggiare. In Giappone, nel 2009, ho vinto quello che per un calciatore è il pallone d'oro”. Senza sentirsi però arrivato. “Non devi mai sentirti arrivato. Il successo – ha risposto infatti a una domanda avanzata dal pubblico – non mi ha cambiato, sono rimasto umile, la persona che ha ancora voglia di fare”.
“Una lezione di vita” - come da titolo dell'incontro a Lecco – anche per Armen, anch'egli arrivato a ottimi livelli nella kickboxing: “io sempre ringrazio Giorgio. Sono arrivato in Italia un anno dopo di lui, volevo combattere anche io, ma non sapevo nulla. E' stato lui a insegnarmi, prima ti alleni poi combatti. Grazie allo sport, poi, abbiamo ottenuto la cittadinanza italiana, oggi abbiamo la nostra palestra a Milano, io ho cominciato a organizzare eventi, cosa che mi viene bene. Il prossimo sarà il 30 novembre, quando Giorgio difenderà il titolo che ora detiene. Possiamo dirci di essere orgogliosi di rappresentare l'Italia in giro per il mondo”.
Due campioni – insomma – nello sport come nella vita. Da applauso. Ma anche da imitare, da tutti.
A.M.