Lecco: il carcere e la 'terza via' nell'incontro con Labora
Tra i “buonisti” e i “cattivisti” c’è una terza via. Perché il carcere non va visto come luogo di vendetta ma di trasformazione, come possibilità di recupero e reinserimento nella società. Così come del resto prevede la Costituzione. E perché sia possibile, il passaggio obbligato è il lavoro, dentro ma soprattutto fuori dal carcere, per imparare un mestiere che sia spendibile al momento del ritorno in società. Su questo occorre puntare non per ragioni di sentimento o pietà ma perché «è un investimento per la sicurezza».
E’ il senso di una riflessione sul carcere in un incontro tenutosi a Palazzo delle paure con il patrocinio del Comune e organizzato dall’associazione “Labora”, costituita un paio d’anni fa a livello nazionale e ora presente anche a Lecco. E se la sponda politica è rappresentata da “Fratelli d’Italia”, l’area culturale è quella di Comunione e Liberazione. L’associazione si presenta come promotrice di una cultura politica conservatrice ispirata e moderata dalla Dottrina Sociale della Chiesa. E si capiscono così talune “curve” che sembrano portare in altre direzioni rispetto a quelle seguite dal governo nazionale – appunto a trazione “Fratelli d’Italia” – più propenso a inasprire le pene e istituire nuovi reati. E allora Matteo Forte – esponente di “Labora” prima che rappresentante di “Fratelli d’Italia” nel consiglio regionale lombardo dove è membro della commissione carceri – può dire che tra il buonismo e il cattivismo può esserci una terza via.
“A qualsiasi età, ogni essere umano deve avere la possibilità di rilanciare i dadi… Storie di malavita, carcere e redenzione”, il titolo del convegno, svoltosi ieri 9 settembre. Promosso e moderato da Filippo Boscagli, consigliere comunale da qualche mese passato appunto con “Fratelli d’Italia”, ha visto in qualità di relatori, oltre a Matteo Forte, anche Matteo Zilocchi (giornalista, autore di “All’inferno e ritorno. Un uomo nella ‘ndrangheta, in carcere e verso una nuova vita” uscito nel 2021 per le Edizioni San Paolo) e don Niccolò Ceccolini, in collegamento video da Roma dove opera come cappellano del carcere minorile di Casal del Marmo.
In apertura, è arrivato il saluto del sindaco Mauro Gattinoni, del consigliere regionale di “Fratelli d’Italia” Giacomo Zamperini e anche della direttrice della casa circondariale di Pescarenico Luisa Mattina.
Nel suo intervento, Gattinoni ha ricordato come ormai da anni a Lecco sia stato instaurato uno stretto rapporto tra il carcere e la città, sottolineando l’impegno sul fronte della giustizia riabilitativa e affermando che «la nostra città è pronta ad accogliere un processo riabilitativo per i detenuti». Da parte sua, Zamperini ha parlato dell’impegno della Regione su questo fronte. Ammettendo che c’è ancora molto da fare (per esempio su talune figure come educatori o per l’assistenza psichiatrica) ed esprimendo un ringraziamento alla polizia penitenziaria, annunciando inoltre una prossima seduta del Consiglio regionale dedicata espressamente a questi problemi.
In un momento particolarmente difficile per i reclusori italiani (un alto tasso di suicidi, situazioni di disagio, un’autentica esplosione di rabbia nelle strutture minorili), la direttrice della casa circondariale lecchese Mattina ha parlato di Lecco come di un’isola felice, pur registrando qualche momento critico. Eppure anche la stagione estiva, per la quale si nutriva qualche preoccupazione, è stata superata abbastanza serenamente. E a proposito di lavoro per i detenuti, ha rilevato come il grande neo della struttura detentiva lecchese sia proprio la mancanza di spazi da poter dedicare all’attività professionale.
Introducendo l’incontro, Boscagli ha ricordato come complessivamente la popolazione carceraria sia di oltre 60mila persone con circa 38mila agenti penitenziari: significa una popolazione complessiva quasi doppia di quella di una città come Lecco. Ed è un problema – ha detto – di cui si parla per casi clamorosi, ma del quale ci si dimentica quasi subito. Ma è un problema del quale dobbiamo farci carico.
Zilocchi ha quindi parlato del suo libro, del ‘ndranghetista che, proprio attraverso il carcere ha trasformato la propria vita. Il protagonista venne arrestato in una grande operazione antidroga: «Era uno dei referenti del mercato dello spaccio milanese per conto di una delle più importanti famiglie di ‘ndrangheta, una delle mafie che ormai è penetrata in profondità in Lombardia dove sono presenti 24 “locali” (così si chiamano le “cellule” della mafia calabrese, ndr). Lui non era nato in una famiglia di ‘ndrangheta, ha cominciato con piccoli reati comuni. Ma è stato notare avere una particolare abilità imprenditoriale e la ‘ndrangheta lo ha inserito nel proprio organico per gestire il traffico di droga. Quando lo ho incontrato in carcere mi ha detto: “Io mi sono accorto solo quando sono stato arrestato che la libertà l’avevo già persa da tempo”. Ed è stato proprio il carcere a cambiarlo. Non sapeva cos’era il carcere. Ne è rimasto scioccato. Ne ha girati tre: San Vittore, Opera, Bollate. Quando a un processo ha incontrato i suoi vecchi complici che lo incoraggiarono a resistere perché una volta usciti si sarebbe ricominciato daccapo, ha capito che non era la sua strada. Certo, si tratta di un processo lungo. In carcere sei solo, il carcere ti offre la cassetta degli attrezzi, ma sei tu che decidi di usarli o non usarli. Ed ecco, allora, che il tema del lavoro è fondamentale: lavorare in carcere significa costruirsi un futuro».
Don Ceccolini ha invece parlato della propria esperienza di cappellano a Roma: «Stiamo vivendo un momento molto complesso nelle carceri minorili. Il numero dei ragazzi detenuti, tra i 14 e i 25 anni, è in aumento: sono 550 in 17 istituti, a Casal di Marmo ce ne sono 70. Molti sono ragazzi magrebini, minori non accompagnati e quindi ragazzi che non hanno niente da perdere. Se trasferisci un ragazzo italiano da Roma a Torino, ci sono problemi per gli incontri con la famiglia, con la fidanzata o il fidanzato. Questi altri ragazzi, invece, non hanno affetti, famiglia. E allora serve una preparazione particolare da parte degli operatori, educatori ma anche agenti, una preparazione che oggi non c’è. Il carcere sì, ti cambia, ma dipende anche dalle persone che incontri. E occorre pensare alla detenzione come a un’opportunità. Al carcere minorile come margine della speranza. E allora si può lavorare. Ma è importante realizzare una relazione autentica. Sono ragazzi come tutti, non sono mostri. Spesso, il carcere lo portavano già dentro sé, ma sono affamati di relazioni autentiche. Un ragazzo una volta ha detto: “Tu ha sempre cercato di cambiarmi, ma non di incontrarmi”. Ecco. Occorre riporre in loro fiducia per sciogliere la rabbia che hanno dentro. E se dai loro fiducia, vieni ricambiato. Certo è un rischio. Ma la prima prigione dalla quale farli uscire è dalla loro solitudine. E’ la grande sfida».
Infine, Forte: «Lo stato delle carceri ci dice com’è lo stato della giustizia. Perché è vero che la politica ha le sue responsabilità, ma c’è anche un altro potere che interviene ed è quello giudiziario. Per esempio, parliamo di carceri sovraffollate: la capienza è di 51mila detenuti e ve ne sono 61mila. Di questi, quasi 9mila sono in attesa del giudizio di primo grado e altri 6200 del giudizio definitivo. Dunque, i presunti innocenti reclusi sono oltre 15mila. Certo, 9mila sono stranieri che non hanno una casa dove stare e non si può pensare ad arresti domiciliare. Ma anche su questo aspetto, dobbiamo chiederci se in tutti questi anni sono state fatte politiche di integrazione culturale. Perché, a volter, proprio per le differenze culturali, commettono un reato senza sapere che nel nostro Paese quel comportamento è un reato». Anche Forte ha sottolineato l’importanza del lavoro per il quale c’è un’attenzione storica da parte della Regione. Però oggi solo il 33% dei detenuti è coinvolto in iniziativa lavorative e di questi l’85% in attività amministrative dentro il carcere. Le quali non possono garantire molti sbocchi al momento di tornare in società. A questo proposito, si potrebbe magari pensare a una sorta di certificazione delle competenze da parte di una società terza. Per esempio, se hai fatto il bibliotecario in carcere, ti viene in qualche modo riconosciuto. Aggiungendo come il governo attuale, con il ministro della giustizia Carlo Nordio, abbia rifinanziato la legge per il reinserimento lavorativo dei detenuti, la cosiddetta legge Smuraglia, dal nome del suo promotore e cioè il senatore Carlo Smuraglia (che, ricordiamo noi, fu anche presidente dell’Anpi, l’associazione dei partigiani).
«Tutto questo – è stata appunto la conclusione – non ha a che fare col sentimento o la pietà, ma è un investimento per la sicurezza. Non dividiamoci tra buonisti e cattivisti, c’è una terza via».
E’ il senso di una riflessione sul carcere in un incontro tenutosi a Palazzo delle paure con il patrocinio del Comune e organizzato dall’associazione “Labora”, costituita un paio d’anni fa a livello nazionale e ora presente anche a Lecco. E se la sponda politica è rappresentata da “Fratelli d’Italia”, l’area culturale è quella di Comunione e Liberazione. L’associazione si presenta come promotrice di una cultura politica conservatrice ispirata e moderata dalla Dottrina Sociale della Chiesa. E si capiscono così talune “curve” che sembrano portare in altre direzioni rispetto a quelle seguite dal governo nazionale – appunto a trazione “Fratelli d’Italia” – più propenso a inasprire le pene e istituire nuovi reati. E allora Matteo Forte – esponente di “Labora” prima che rappresentante di “Fratelli d’Italia” nel consiglio regionale lombardo dove è membro della commissione carceri – può dire che tra il buonismo e il cattivismo può esserci una terza via.
“A qualsiasi età, ogni essere umano deve avere la possibilità di rilanciare i dadi… Storie di malavita, carcere e redenzione”, il titolo del convegno, svoltosi ieri 9 settembre. Promosso e moderato da Filippo Boscagli, consigliere comunale da qualche mese passato appunto con “Fratelli d’Italia”, ha visto in qualità di relatori, oltre a Matteo Forte, anche Matteo Zilocchi (giornalista, autore di “All’inferno e ritorno. Un uomo nella ‘ndrangheta, in carcere e verso una nuova vita” uscito nel 2021 per le Edizioni San Paolo) e don Niccolò Ceccolini, in collegamento video da Roma dove opera come cappellano del carcere minorile di Casal del Marmo.
In apertura, è arrivato il saluto del sindaco Mauro Gattinoni, del consigliere regionale di “Fratelli d’Italia” Giacomo Zamperini e anche della direttrice della casa circondariale di Pescarenico Luisa Mattina.
Nel suo intervento, Gattinoni ha ricordato come ormai da anni a Lecco sia stato instaurato uno stretto rapporto tra il carcere e la città, sottolineando l’impegno sul fronte della giustizia riabilitativa e affermando che «la nostra città è pronta ad accogliere un processo riabilitativo per i detenuti». Da parte sua, Zamperini ha parlato dell’impegno della Regione su questo fronte. Ammettendo che c’è ancora molto da fare (per esempio su talune figure come educatori o per l’assistenza psichiatrica) ed esprimendo un ringraziamento alla polizia penitenziaria, annunciando inoltre una prossima seduta del Consiglio regionale dedicata espressamente a questi problemi.
In un momento particolarmente difficile per i reclusori italiani (un alto tasso di suicidi, situazioni di disagio, un’autentica esplosione di rabbia nelle strutture minorili), la direttrice della casa circondariale lecchese Mattina ha parlato di Lecco come di un’isola felice, pur registrando qualche momento critico. Eppure anche la stagione estiva, per la quale si nutriva qualche preoccupazione, è stata superata abbastanza serenamente. E a proposito di lavoro per i detenuti, ha rilevato come il grande neo della struttura detentiva lecchese sia proprio la mancanza di spazi da poter dedicare all’attività professionale.
Introducendo l’incontro, Boscagli ha ricordato come complessivamente la popolazione carceraria sia di oltre 60mila persone con circa 38mila agenti penitenziari: significa una popolazione complessiva quasi doppia di quella di una città come Lecco. Ed è un problema – ha detto – di cui si parla per casi clamorosi, ma del quale ci si dimentica quasi subito. Ma è un problema del quale dobbiamo farci carico.
Zilocchi ha quindi parlato del suo libro, del ‘ndranghetista che, proprio attraverso il carcere ha trasformato la propria vita. Il protagonista venne arrestato in una grande operazione antidroga: «Era uno dei referenti del mercato dello spaccio milanese per conto di una delle più importanti famiglie di ‘ndrangheta, una delle mafie che ormai è penetrata in profondità in Lombardia dove sono presenti 24 “locali” (così si chiamano le “cellule” della mafia calabrese, ndr). Lui non era nato in una famiglia di ‘ndrangheta, ha cominciato con piccoli reati comuni. Ma è stato notare avere una particolare abilità imprenditoriale e la ‘ndrangheta lo ha inserito nel proprio organico per gestire il traffico di droga. Quando lo ho incontrato in carcere mi ha detto: “Io mi sono accorto solo quando sono stato arrestato che la libertà l’avevo già persa da tempo”. Ed è stato proprio il carcere a cambiarlo. Non sapeva cos’era il carcere. Ne è rimasto scioccato. Ne ha girati tre: San Vittore, Opera, Bollate. Quando a un processo ha incontrato i suoi vecchi complici che lo incoraggiarono a resistere perché una volta usciti si sarebbe ricominciato daccapo, ha capito che non era la sua strada. Certo, si tratta di un processo lungo. In carcere sei solo, il carcere ti offre la cassetta degli attrezzi, ma sei tu che decidi di usarli o non usarli. Ed ecco, allora, che il tema del lavoro è fondamentale: lavorare in carcere significa costruirsi un futuro».
Don Ceccolini ha invece parlato della propria esperienza di cappellano a Roma: «Stiamo vivendo un momento molto complesso nelle carceri minorili. Il numero dei ragazzi detenuti, tra i 14 e i 25 anni, è in aumento: sono 550 in 17 istituti, a Casal di Marmo ce ne sono 70. Molti sono ragazzi magrebini, minori non accompagnati e quindi ragazzi che non hanno niente da perdere. Se trasferisci un ragazzo italiano da Roma a Torino, ci sono problemi per gli incontri con la famiglia, con la fidanzata o il fidanzato. Questi altri ragazzi, invece, non hanno affetti, famiglia. E allora serve una preparazione particolare da parte degli operatori, educatori ma anche agenti, una preparazione che oggi non c’è. Il carcere sì, ti cambia, ma dipende anche dalle persone che incontri. E occorre pensare alla detenzione come a un’opportunità. Al carcere minorile come margine della speranza. E allora si può lavorare. Ma è importante realizzare una relazione autentica. Sono ragazzi come tutti, non sono mostri. Spesso, il carcere lo portavano già dentro sé, ma sono affamati di relazioni autentiche. Un ragazzo una volta ha detto: “Tu ha sempre cercato di cambiarmi, ma non di incontrarmi”. Ecco. Occorre riporre in loro fiducia per sciogliere la rabbia che hanno dentro. E se dai loro fiducia, vieni ricambiato. Certo è un rischio. Ma la prima prigione dalla quale farli uscire è dalla loro solitudine. E’ la grande sfida».
Infine, Forte: «Lo stato delle carceri ci dice com’è lo stato della giustizia. Perché è vero che la politica ha le sue responsabilità, ma c’è anche un altro potere che interviene ed è quello giudiziario. Per esempio, parliamo di carceri sovraffollate: la capienza è di 51mila detenuti e ve ne sono 61mila. Di questi, quasi 9mila sono in attesa del giudizio di primo grado e altri 6200 del giudizio definitivo. Dunque, i presunti innocenti reclusi sono oltre 15mila. Certo, 9mila sono stranieri che non hanno una casa dove stare e non si può pensare ad arresti domiciliare. Ma anche su questo aspetto, dobbiamo chiederci se in tutti questi anni sono state fatte politiche di integrazione culturale. Perché, a volter, proprio per le differenze culturali, commettono un reato senza sapere che nel nostro Paese quel comportamento è un reato». Anche Forte ha sottolineato l’importanza del lavoro per il quale c’è un’attenzione storica da parte della Regione. Però oggi solo il 33% dei detenuti è coinvolto in iniziativa lavorative e di questi l’85% in attività amministrative dentro il carcere. Le quali non possono garantire molti sbocchi al momento di tornare in società. A questo proposito, si potrebbe magari pensare a una sorta di certificazione delle competenze da parte di una società terza. Per esempio, se hai fatto il bibliotecario in carcere, ti viene in qualche modo riconosciuto. Aggiungendo come il governo attuale, con il ministro della giustizia Carlo Nordio, abbia rifinanziato la legge per il reinserimento lavorativo dei detenuti, la cosiddetta legge Smuraglia, dal nome del suo promotore e cioè il senatore Carlo Smuraglia (che, ricordiamo noi, fu anche presidente dell’Anpi, l’associazione dei partigiani).
«Tutto questo – è stata appunto la conclusione – non ha a che fare col sentimento o la pietà, ma è un investimento per la sicurezza. Non dividiamoci tra buonisti e cattivisti, c’è una terza via».
D.C.