In viaggio a tempo indeterminato/344: a fidarsi degli sconosciuti...
Mia mamma da piccola mi diceva sempre di non seguire gli sconosciuti e di non accettare dolci e caramelle dagli estranei.
Credo siano gli insegnamenti base di molti. Quelli che ti vengono ripetuti come un mantra talmente tante volte che alla fine non ti chiedi neanche più il perché, sai che non va fatto e basta.
Sono passati parecchi anni da quelle "istruzioni per l'uso" e a volte mi chiedo se non sarebbe il caso di rispolverarle.
Ci pensavo giusto qualche giorno fa, mentre stavamo seguendo un gruppo di ragazzi in mezzo a una foresta di palme da cocco.
Era una situazione da film thriller.
Tutto era iniziato quella mattina a Leme Leme, un minuscolo villaggio dell'isola di Peleng, nell'arcipelago di Banggai, a Sulawesi in Indonesia.
(Non credo di aver mai scritto in una sola frase così tanti nomi di posti sconosciuti!).
Il sole splendeva e noi avevamo noleggiato un bel motorino.
"Dovremmo andare a Lumbi Lumbia. Guardando dalla mappa satellitare sembra molto bello... e poi, ha un bel nome!".
Di questa parte di mondo non ci sono molte informazioni online, persino la guida che abbiamo si limita a descrivere tutto l'arcipelago con pochissime parole: le remote e bellissime isole Banggai. Fine. Nessuna informazione o dettaglio.
E così, quel giorno, l'itinerario ce lo siamo un po' inventato e dopo vari km di sterrato, buche e fango abbiamo deciso di fermarci in un villaggio di palafitte che aveva attirato la nostra attenzione.
"Qui siamo tutti badjau" ci dice un ragazzo seduto sull'uscio della sua capanna.
E in quel momento realizziamo che abbiamo avuto una bella botta di fortuna perché siamo proprio nel posto perfetto.
Ci sentiamo baciati dalla buona sorte e decidiamo allora di accettare l'invito di un gruppo di ragazzi e ragazze che vuole condurci a una spiaggia.
Passiamo tra palme di cocco altissime, sentieri fangosi e tratti esposti sul mare.
Più ci allontaniamo dalla strada principale e dai nostri motorini, più nella mia testa sento la voce di mia mamma che mi dice "Angy ti ho sempre detto di non seguire gli sconosciuti".
Sì, lo so mamma. Ma questi sembrano simpatici e timidi. Non hanno nemmeno delle caramelle!
La realtà è che più camminiamo e più mi domando se abbiamo fatto la scelta giusta.
La faccio breve, quello che poteva tranquillamente essere un film thriller, si è trasformato presto in un documentario di quelli che ti tengono incollato allo schermo.
Un ragazzo, sigaretta in bocca e cappellino in testa, ci dice di essere un pescatore.
Parla pochissimo inglese ma con i gesti e con le poche parole di indonesiano che abbiamo imparato, sembriamo capirci.
Fare il pescatore è un lavoro molto comune in questa zona di Sulawesi, ma questo ragazzo non è un pescatore qualunque.
Fa parte del popolo dei Badjau, i "nomadi del mare".
Conosciuti anche come Bajau, questi abitanti del mare hanno costruito una cultura e uno stile di vita strettamente legati all'oceano che li circonda.
La loro storia è caratterizzata da un'esistenza nomade, che li ha portati a vivere su imbarcazioni galleggianti e in villaggi costruiti su palafitte. Abitano lungo le coste di tre diversi Paesi: le Filippine, la Malesia e l'Indonesia, ma formalmente non appartengono a nessuno di questi tre.
La loro esistenza dipende completamente dal mare che è la loro casa e la loro fonte di sostentamento.
I pescatori del popolo badjau vengono anche chiamati "uomini pesce" per la loro capacità di stare sott'acqua, trattenendo il fiato, per moltissimo tempo.
Il ragazzo che abbiamo incontrato, tutto orgoglioso, ci mostra come la tecnica per pescare si sia "modernizzata" rispetto alla tradizione
Invece di pescare in apnea, oggi utilizzano una rudimentale attrezzatura composta da una lungo tubo sottile che termina con un boccaglio. Dal lato opposto il tubo è collegato a una bombola, di quelle che in genere vengono usate per il gas, all'interno della quale c'è dell'aria. L'ultimo elemento chiave è un compressore che serve a spingere l'aria dalla tanica, lungo il tubo, fino al boccaglio.
Questa attrezzatura permette ai pescatori badjau di arrivare fino a 30 metri di profondità.
Siamo rimasti un paio d'ore nel villaggio Badjau, ascoltando e osservando.
È vero, ci siamo dovuti fidare di perfetti sconosciuti e sì, abbiamo dovuto lasciare da parte tutti i nostri preconcetti. Ma è solo così che si possono vivere davvero certe esperienze uniche.
Come questo incontro che ci ha permesso di avvicinarci a una cultura e a delle tradizioni che sembrano avere dell'incredibile.
E alla fine anche dei ragazzi che passano la loro vita nel fondo dell'oceano, non erano più dei semplici sconosciuti.
Credo siano gli insegnamenti base di molti. Quelli che ti vengono ripetuti come un mantra talmente tante volte che alla fine non ti chiedi neanche più il perché, sai che non va fatto e basta.
Sono passati parecchi anni da quelle "istruzioni per l'uso" e a volte mi chiedo se non sarebbe il caso di rispolverarle.
Ci pensavo giusto qualche giorno fa, mentre stavamo seguendo un gruppo di ragazzi in mezzo a una foresta di palme da cocco.
Era una situazione da film thriller.
Tutto era iniziato quella mattina a Leme Leme, un minuscolo villaggio dell'isola di Peleng, nell'arcipelago di Banggai, a Sulawesi in Indonesia.
(Non credo di aver mai scritto in una sola frase così tanti nomi di posti sconosciuti!).
Il sole splendeva e noi avevamo noleggiato un bel motorino.
"Dovremmo andare a Lumbi Lumbia. Guardando dalla mappa satellitare sembra molto bello... e poi, ha un bel nome!".
Di questa parte di mondo non ci sono molte informazioni online, persino la guida che abbiamo si limita a descrivere tutto l'arcipelago con pochissime parole: le remote e bellissime isole Banggai. Fine. Nessuna informazione o dettaglio.
E così, quel giorno, l'itinerario ce lo siamo un po' inventato e dopo vari km di sterrato, buche e fango abbiamo deciso di fermarci in un villaggio di palafitte che aveva attirato la nostra attenzione.
"Qui siamo tutti badjau" ci dice un ragazzo seduto sull'uscio della sua capanna.
E in quel momento realizziamo che abbiamo avuto una bella botta di fortuna perché siamo proprio nel posto perfetto.
Ci sentiamo baciati dalla buona sorte e decidiamo allora di accettare l'invito di un gruppo di ragazzi e ragazze che vuole condurci a una spiaggia.
Passiamo tra palme di cocco altissime, sentieri fangosi e tratti esposti sul mare.
Più ci allontaniamo dalla strada principale e dai nostri motorini, più nella mia testa sento la voce di mia mamma che mi dice "Angy ti ho sempre detto di non seguire gli sconosciuti".
Sì, lo so mamma. Ma questi sembrano simpatici e timidi. Non hanno nemmeno delle caramelle!
La realtà è che più camminiamo e più mi domando se abbiamo fatto la scelta giusta.
La faccio breve, quello che poteva tranquillamente essere un film thriller, si è trasformato presto in un documentario di quelli che ti tengono incollato allo schermo.
Un ragazzo, sigaretta in bocca e cappellino in testa, ci dice di essere un pescatore.
Parla pochissimo inglese ma con i gesti e con le poche parole di indonesiano che abbiamo imparato, sembriamo capirci.
Fare il pescatore è un lavoro molto comune in questa zona di Sulawesi, ma questo ragazzo non è un pescatore qualunque.
Fa parte del popolo dei Badjau, i "nomadi del mare".
Conosciuti anche come Bajau, questi abitanti del mare hanno costruito una cultura e uno stile di vita strettamente legati all'oceano che li circonda.
La loro storia è caratterizzata da un'esistenza nomade, che li ha portati a vivere su imbarcazioni galleggianti e in villaggi costruiti su palafitte. Abitano lungo le coste di tre diversi Paesi: le Filippine, la Malesia e l'Indonesia, ma formalmente non appartengono a nessuno di questi tre.
La loro esistenza dipende completamente dal mare che è la loro casa e la loro fonte di sostentamento.
I pescatori del popolo badjau vengono anche chiamati "uomini pesce" per la loro capacità di stare sott'acqua, trattenendo il fiato, per moltissimo tempo.
Il ragazzo che abbiamo incontrato, tutto orgoglioso, ci mostra come la tecnica per pescare si sia "modernizzata" rispetto alla tradizione
Invece di pescare in apnea, oggi utilizzano una rudimentale attrezzatura composta da una lungo tubo sottile che termina con un boccaglio. Dal lato opposto il tubo è collegato a una bombola, di quelle che in genere vengono usate per il gas, all'interno della quale c'è dell'aria. L'ultimo elemento chiave è un compressore che serve a spingere l'aria dalla tanica, lungo il tubo, fino al boccaglio.
Questa attrezzatura permette ai pescatori badjau di arrivare fino a 30 metri di profondità.
Siamo rimasti un paio d'ore nel villaggio Badjau, ascoltando e osservando.
È vero, ci siamo dovuti fidare di perfetti sconosciuti e sì, abbiamo dovuto lasciare da parte tutti i nostri preconcetti. Ma è solo così che si possono vivere davvero certe esperienze uniche.
Come questo incontro che ci ha permesso di avvicinarci a una cultura e a delle tradizioni che sembrano avere dell'incredibile.
E alla fine anche dei ragazzi che passano la loro vita nel fondo dell'oceano, non erano più dei semplici sconosciuti.
Angela e Paolo