Proprio tu, figlio mio?

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Se mio figlio mi colpisse con un coltello da carne so che non mi difenderei. Un coltello da cucina, come quello con cui Riccardo Chiarioni, diciassette anni, ha ucciso il fratello Lorenzo di 12, la mamma Daniela di 49 e il papà Fabio di 51.
Forse il primo, primissimo istinto di sopravvivenza mi farebbe alzare le mani, per proteggermi, non per aggredire. Sarei già morto nel momento stesso in cui vedessi mio figlio brandire un’arma contro di me. Lo lascerei fare, senza opporre alcuna resistenza, per paura di fargli del male.
La dinamica della strage di Paderno racconta questo: il ragazzo è andato in cucina, ha preso un coltello, è tornato in camera e ha colpito il fratellino che, svegliatosi, ha fatto accorrere i genitori. Lorenzo ha colpito la madre e poi alle spalle il padre, che – sto alle dichiarazioni rese dal giovane ma so che è così, perché è quello che qualsiasi padre avrebbe fatto – si era gettato sul figlio minore per soccorrerlo. Non sul maggiore per disarmarlo: sul piccolo, per salvarlo.
Non è la prima strage che si consuma nelle mura di una casa “normale”, in una famiglia “senza problemi”, ma è forse la prima per la quale sembrano non esistere moventi, neppure futili, cui aggrapparsi: non un amore contrastato, non il denaro, non eventuali insuccessi scolastici. «Non è successo niente di particolare sabato sera. Ma ci pensavo da un po’, era una cosa che covavo», ha detto il ragazzo.
Se mio figlio mi colpisse con un coltello da carne rimarrei paralizzato a chiedermi perché, e non saprei fare altro. Lo guarderei esterrefatto, come Cesare spalancò gli occhi di fronte a Bruto, conserverei il fiato per dirgli «Tu quoque, Brute, fili mi!», “proprio tu, figlio mio”, e mi accascerei al suolo tirandomi la veste sopra il viso, per coprirmi il volto e non lasciar trasparire agli altri non il dolore, ma lo sgomento, la vergogna.
 «Non c’è un vero motivo per cui li ho uccisi. Mi sentivo un corpo estraneo nella mia famiglia. Oppresso. Ho pensato che uccidendoli tutti mi sarei liberato da questo disagio. Me ne sono accorto un minuto dopo: ho capito che non era uccidendoli che mi sarei liberato», ha detto Riccardo. Dopo.

Nel giro di pochi giorni è il secondo caso di cronaca che si abbatte con questa disarmante prosaicità.
Lo stesso vuoto delle parole di Moussa Sangare, l’assassino di Sharon Verzeni: “Volevo uccidere qualcuno: l’ho vista e l’ho ammazzata”. Nessun movente economico, politico, religioso, nemmeno – schifoso quanto si voglia ma almeno concreto – sessuale. Niente.
«Ti dico io cosa è la libertà massima – dice Ivan Karamazov al fratello Smerdiakov nel romanzo di Dostoevskij che da loro prende il titolo –: uccidere una persona che tu non conosci, che non ti ha fatto nulla, che non ti riguarda».

Mi rendo conto che siamo stati feriti da due violenze che sembrano impossibili da prevenire. Certo, i conoscenti di Sangare riferiscono altri suoi comportamenti aberranti (basterebbe la musica trap, e se dicendo questo offendo qualcuno che vada in malora lui e tutti questi pseudocantanti che ruttano violenza ad ogni verso), ma come prevenire l’aggressione senza senso a una ragazza sconosciuta che cammina per strada?
I conoscenti dei Chiarioni dipingono una famiglia modello, un ragazzo sereno, una realtà pacifica. Ma se anche non fosse – chi può negare che in una famiglia normale ci siano dei conflitti, suvvia? – sarebbe davvero inimmaginabile prefigurare, e quindi prevenire, uno scenario come quello che si è consumato nella villetta di Paderno Dugnano.

Mio figlio ha un anno in meno di Riccardo Chiarioni. Ha un fratello minore. Ha una madre e un padre con cui – pare – vada molto d’accordo. Non riesco ad avere paura di lui. Non voglio. Non sono però nemmeno riuscito a commentare con lui questo fatto di cronaca.
Leggo le dichiarazioni di psichiatri, criminologi, pedagogisti, insegnanti, opinionisti che sui media hanno tutti le loro brave ricette. Invidio la loro sicumera: o sono molto più intelligenti di me o non hanno figli.
Stefano Motta
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