Stefano Golfari: 50 anni fa, l’estate rovente della Regione di mio padre
Dicono che in Lombardia facesse più fresco cinquant’anni fa. Ma non in politica: fu un’estate rovente quella del 1974, in Regione. Il primo presidente, Piero Bassetti, il leader dei Regionalisti, l’alfiere della riforma “strutturale” che quattro anni prima aveva scosso la piramide dei poteri dello Stato ridisegnandola finalmente più simile a quanto stava scritto nella Costituzione dal ‘48… si era improvvisamente dimesso.
Nel frattempo il ’74 era già stato uno degli anni peggiori della storia repubblicana: inflazione al 20% , crisi del petrolio, Austerity, rivolte per il pane, scontri di piazza, attentati, bombe (Piazza della Loggia), BR, sequestri di persona. A Roma i governi nazionali (saranno tre in dodici mesi), con la Dc terremotata dalla vittoria dei No al referendum sul divorzio, non sapevano più che pesci pigliare e varavano provvedimenti assurdi: condoni fiscali, baby pensioni, divieto di espatrio con più di 20mila lire in tasca. Ai vertici della piramide, tuttavia, la notizia delle dimissioni di Bassetti giunse con un certo malcelato gradimento. Il ragionamento, fuori dal burocratese, deve essere stato di questo tipo: se ha mollato lui, la nuova Regione - con tutte quelle assurde pretese di cambiare, di contestare - oramai è cotta, evaporerà al solleone. Fu sotto caldissimi auspici del genere che la mission impossible da “secondo presidente” arrivò a mio padre Cesare Golfari. La partita, sul concreto, stava messa così: conclusa la fase costituente con l’approvazione dello Statuto, la Lombardia che ora aveva poteri legislativi su nove milioni di abitanti e il 30% del PIL del Paese, in cambio aveva promesso parecchio: un sistema di governo più avanzato, più efficace, più incisivo sul territorio, più attento ai mutamenti sociali, più capace di futuro. Sapeva farlo o erano chiacchiere? Rino, come lo si chiamava fin da bambino, lesse i giornali sotto l’ombrellone: stavamo al mare in Romagna dove era cresciuto fino ai diciott’anni prima di diventare galbiatese e lecchese (o meglio: un comasco critico fino alla Provincia targata Lc).
Chiuse il giornale, salutò la sua MT - cioè la mamma - con la password «Devo andare» e, sudatissimo, partì per Milano. Si rifece vivo dopo quindici giorni, ma la nuova giunta Golfari era fatta: un DC-PSI-PSDI fondato sui capisaldi della “Base”, cioè la corrente democristiana (quella anche di Bassetti) che più di ogni altra aveva spinto per le Regioni e per l’apertura a sinistra.
Ma, in concreto? La risposta, dall’estate del 1974, deve estendersi fino al luglio 1979 perché Cesare Golfari, con diverse e complicate coalizioni, rimase presidente per cinque anni. In estrema sintesi: prima legge urbanistica della Lombardia, primo Piano ospedaliero, primo Piano per il diritto allo studio (451 nuove sezioni di scuola materna, 2.227 aule di scuola elementare, 2.096 aule di scuola media inferiore, 1.146 aule di scuola media superiore, 227 nuove palestre), completa riorganizzazione degli uffici regionali e del personale (acquisto del grattacielo Pirelli), istituzione parchi naturali (Ticino, Groane, Nord-Milano, Colli di Bergamo, Monte Barro), primo assessorato (primo in Italia) all’Ecologia, gestione caso Seveso (a mio giudizio, ma non solo mio, efficace e coraggiosa. Poi conclusa sotto la presidenza di Giuseppe Guzzetti con la “Normativa Seveso” che diventò legge europea), sul finale il primo Piano Regionale di Sviluppo 1979-1981.
Ovviamente abbiamo colorato un po’ il racconto, va sottolineato e ribadito che far politica significa far squadra: i meriti come i demeriti non sono mai di uno solo. Ciò detto, credo di poter sostenere senza tema di smentita che quella Lombardia rimasta orfana di leader a quattro anni, nell’estate mezzo secolo fa non trovò soltanto il suo “secondo presidente”, trovò un numero uno. Alla fine del decennio era cresciuta forte, adulta. Nel 1974 non aveva nemmeno una sede, si riuniva in uffici sparsi per Milano o affittava il palazzo della Provincia. Adesso era un grattacielo di trenta piani, e che grattacielo! Insomma, non era evaporata al solleone. Nonostante il clima.
Sto scrivendo una biografia del papà, tratta dalle tante carte del suo archivio che la famiglia ha conservato dopo la morte, improvvisa, del 26.12.1994 (un altro anniversario, ma più triste). Ha lasciato anche una sorta di diario scritto soprattutto per se stesso (infatti non lo pubblicò) dove bada più alla sincerità dei suoi pensieri e delle sue emozioni che ai formalismi del lessico e della politica. Trascrivo un brano riferito al Piano di sviluppo 1979-81, il primo studio del genere fatto da una regione italiana:
(…) Il governo nazionale è sempre indaffarato in cose che sembrano più importanti perché “centrali”, nella radicata convinzione che ci sono problemi centrali, che sono importanti, e problemi locali o regionali che sono secondari. Che il problema regionale si chiami Stelvio, si chiami raccordo Baviera-Pianura padana, si chiami sfogo dell’Europa sui porti del Tirreno, si chiami riequilibrio territoriale di una regione di nove milioni di persone… nessuno lo rileva, oppure ne parla con distacco in qualche fuggevole occasione romana. Senza tempi, senza soldi, senza impegno, senza voglia. Quello che si riesce a fare spesso dà l’impressione del miracolo. (…) Comunque, faticosamente, sistemiamo tutte le residue pendenze. La discussione più accesa è sul traforo dello Stelvio, sugli ospedali di Brescia e sul sistema aeroportuale, in particolare sul recupero dell’aeroporto di Montichiari. Sono tre problemi in uno: in pratica si tratta di decidere se il riequilibrio della Lombardia si deve fare o no, e, se si fa, immaginare Brescia come città attorno la quale si programmano le grandi direttrici di sviluppo esterne a Milano. Un asse ideale che scende dalla Valtellina a nord e arriva all’Oltrepò pavese passando per Brescia e Cremona proiettandosi verso i porti marittimi. Lo sbocco a mare e Monaco di Baviera sono i due capilinea di un disegno certamente ambizioso ma degno della Lombardia. Il dibattito sul ruolo di Milano, sulla sua presunta decadenza, riemerge in questa discussione (…) ma Milano ha bisogno della Lombardia per continuare ad essere Milano. Anche se è vero che la Lombardia senza Milano non esisterebbe. Il primo decennio della Regione è stato contrassegnato da questo intenso confronto dialettico tra Milano e il resto della Lombardia che in certe occasioni è degradato alle piccole beghe di campanile tra chi stava dentro o fuori l’area metropolitana. In questi casi il rosso e il bianco si confondevano: prevaleva la geografia. Ma al di là di quelle occasioni che davano sfogo ai piccoli interessi di provincia, la sostanza del dibattito è sempre stata di grande interesse regionale e quindi nazionale, se è vero che la Lombardia è la quinta parte dell’Italia. Nove milioni di abitanti, il venti per cento del reddito nazionale, quasi il 30% della produzione industriale, il 35%, addirittura, dell’export.
Nel frattempo il ’74 era già stato uno degli anni peggiori della storia repubblicana: inflazione al 20% , crisi del petrolio, Austerity, rivolte per il pane, scontri di piazza, attentati, bombe (Piazza della Loggia), BR, sequestri di persona. A Roma i governi nazionali (saranno tre in dodici mesi), con la Dc terremotata dalla vittoria dei No al referendum sul divorzio, non sapevano più che pesci pigliare e varavano provvedimenti assurdi: condoni fiscali, baby pensioni, divieto di espatrio con più di 20mila lire in tasca. Ai vertici della piramide, tuttavia, la notizia delle dimissioni di Bassetti giunse con un certo malcelato gradimento. Il ragionamento, fuori dal burocratese, deve essere stato di questo tipo: se ha mollato lui, la nuova Regione - con tutte quelle assurde pretese di cambiare, di contestare - oramai è cotta, evaporerà al solleone. Fu sotto caldissimi auspici del genere che la mission impossible da “secondo presidente” arrivò a mio padre Cesare Golfari. La partita, sul concreto, stava messa così: conclusa la fase costituente con l’approvazione dello Statuto, la Lombardia che ora aveva poteri legislativi su nove milioni di abitanti e il 30% del PIL del Paese, in cambio aveva promesso parecchio: un sistema di governo più avanzato, più efficace, più incisivo sul territorio, più attento ai mutamenti sociali, più capace di futuro. Sapeva farlo o erano chiacchiere? Rino, come lo si chiamava fin da bambino, lesse i giornali sotto l’ombrellone: stavamo al mare in Romagna dove era cresciuto fino ai diciott’anni prima di diventare galbiatese e lecchese (o meglio: un comasco critico fino alla Provincia targata Lc).
Chiuse il giornale, salutò la sua MT - cioè la mamma - con la password «Devo andare» e, sudatissimo, partì per Milano. Si rifece vivo dopo quindici giorni, ma la nuova giunta Golfari era fatta: un DC-PSI-PSDI fondato sui capisaldi della “Base”, cioè la corrente democristiana (quella anche di Bassetti) che più di ogni altra aveva spinto per le Regioni e per l’apertura a sinistra.
Ma, in concreto? La risposta, dall’estate del 1974, deve estendersi fino al luglio 1979 perché Cesare Golfari, con diverse e complicate coalizioni, rimase presidente per cinque anni. In estrema sintesi: prima legge urbanistica della Lombardia, primo Piano ospedaliero, primo Piano per il diritto allo studio (451 nuove sezioni di scuola materna, 2.227 aule di scuola elementare, 2.096 aule di scuola media inferiore, 1.146 aule di scuola media superiore, 227 nuove palestre), completa riorganizzazione degli uffici regionali e del personale (acquisto del grattacielo Pirelli), istituzione parchi naturali (Ticino, Groane, Nord-Milano, Colli di Bergamo, Monte Barro), primo assessorato (primo in Italia) all’Ecologia, gestione caso Seveso (a mio giudizio, ma non solo mio, efficace e coraggiosa. Poi conclusa sotto la presidenza di Giuseppe Guzzetti con la “Normativa Seveso” che diventò legge europea), sul finale il primo Piano Regionale di Sviluppo 1979-1981.
Ovviamente abbiamo colorato un po’ il racconto, va sottolineato e ribadito che far politica significa far squadra: i meriti come i demeriti non sono mai di uno solo. Ciò detto, credo di poter sostenere senza tema di smentita che quella Lombardia rimasta orfana di leader a quattro anni, nell’estate mezzo secolo fa non trovò soltanto il suo “secondo presidente”, trovò un numero uno. Alla fine del decennio era cresciuta forte, adulta. Nel 1974 non aveva nemmeno una sede, si riuniva in uffici sparsi per Milano o affittava il palazzo della Provincia. Adesso era un grattacielo di trenta piani, e che grattacielo! Insomma, non era evaporata al solleone. Nonostante il clima.
Sto scrivendo una biografia del papà, tratta dalle tante carte del suo archivio che la famiglia ha conservato dopo la morte, improvvisa, del 26.12.1994 (un altro anniversario, ma più triste). Ha lasciato anche una sorta di diario scritto soprattutto per se stesso (infatti non lo pubblicò) dove bada più alla sincerità dei suoi pensieri e delle sue emozioni che ai formalismi del lessico e della politica. Trascrivo un brano riferito al Piano di sviluppo 1979-81, il primo studio del genere fatto da una regione italiana:
(…) Il governo nazionale è sempre indaffarato in cose che sembrano più importanti perché “centrali”, nella radicata convinzione che ci sono problemi centrali, che sono importanti, e problemi locali o regionali che sono secondari. Che il problema regionale si chiami Stelvio, si chiami raccordo Baviera-Pianura padana, si chiami sfogo dell’Europa sui porti del Tirreno, si chiami riequilibrio territoriale di una regione di nove milioni di persone… nessuno lo rileva, oppure ne parla con distacco in qualche fuggevole occasione romana. Senza tempi, senza soldi, senza impegno, senza voglia. Quello che si riesce a fare spesso dà l’impressione del miracolo. (…) Comunque, faticosamente, sistemiamo tutte le residue pendenze. La discussione più accesa è sul traforo dello Stelvio, sugli ospedali di Brescia e sul sistema aeroportuale, in particolare sul recupero dell’aeroporto di Montichiari. Sono tre problemi in uno: in pratica si tratta di decidere se il riequilibrio della Lombardia si deve fare o no, e, se si fa, immaginare Brescia come città attorno la quale si programmano le grandi direttrici di sviluppo esterne a Milano. Un asse ideale che scende dalla Valtellina a nord e arriva all’Oltrepò pavese passando per Brescia e Cremona proiettandosi verso i porti marittimi. Lo sbocco a mare e Monaco di Baviera sono i due capilinea di un disegno certamente ambizioso ma degno della Lombardia. Il dibattito sul ruolo di Milano, sulla sua presunta decadenza, riemerge in questa discussione (…) ma Milano ha bisogno della Lombardia per continuare ad essere Milano. Anche se è vero che la Lombardia senza Milano non esisterebbe. Il primo decennio della Regione è stato contrassegnato da questo intenso confronto dialettico tra Milano e il resto della Lombardia che in certe occasioni è degradato alle piccole beghe di campanile tra chi stava dentro o fuori l’area metropolitana. In questi casi il rosso e il bianco si confondevano: prevaleva la geografia. Ma al di là di quelle occasioni che davano sfogo ai piccoli interessi di provincia, la sostanza del dibattito è sempre stata di grande interesse regionale e quindi nazionale, se è vero che la Lombardia è la quinta parte dell’Italia. Nove milioni di abitanti, il venti per cento del reddito nazionale, quasi il 30% della produzione industriale, il 35%, addirittura, dell’export.
Stefano Golfari