In viaggio a tempo indeterminato/340: estate in autostop

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Se c'è una cosa che mai avrei pensato di fare nella mia vita, è viaggiare in autostop.
Mi ha sempre parecchio spaventato, vuoi per tutte quelle paure del tipo "e se si ferma un serial killer?" che sono il risultato di molti film polizieschi americani combinati con una manciata di news tragiche.
Fatto sta che prima del 2018 non mi sarei mai immaginata di tirar fuori il pollice e salire sulla macchina, o sul camion, di sconosciuti.
Che poi non è nemmeno vero che si tira fuori il pollice. 
In molti Paesi se fai quel gesto o viene interpretato come un ok e la gente ti saluta dalla macchina, oppure viene preso male perché significa letteralmente "vai a quel paese". Diciamo che in entrambi i casi non è l'effetto che si spera di ottenere.
In Indonesia, ad esempio, il modo migliore di fare autostop è sventolare la mano cercando di far rallentare le auto. Rigorosamente la mano destra perché la sinistra, come anche in altre parti del mondo, è la mano per le "faccende sporche" e non viene vista benissimo.

L'autostop nel mio immaginario è sempre stato legato agli hippie degli anni '70. Persone con lunghe trecce bionde e abiti multicolore che giravano scalzi il mondo.
Lo so, anche questa una visione un po' da film, ma non avevo molti riferimenti concreti.
Prima del 2018, infatti, non avevo mai incontrato nessuno che viaggiasse in autostop.
Ma passando da un ostello all'altro e incontrando persone provenienti da ogni Paese, finalmente sono riuscita a incontrare qualcuno che usava questo metodo per girare il mondo.
Si trattava di una ragazza spagnola con una grinta e un'energia che credo di aver visto raramente in una sola persona.
"Ho viaggiato in tutto il Sud America e in tutta l'Africa in autostop. Un'avventura bellissima perché conosci tanta bella gente." Successe sei anni fa, ma ricordo chiaramente di aver pensato che quella ragazza fosse folle e coraggiosissima allo stesso tempo.
Mi mise la pulce all'orecchio, o meglio, mi aprì gli occhi su una realtà che non avevo mai valutato.
Passarono gli anni e, a parte qualche sporadico passaggio nel bel mezzo del nulla quando gli autobus non passano, l'occasione di viaggiare in autostop non ci si è mai davvero presentata.
Fino al 2022 quando ci siamo buttati in quella che, a posteriori, si è rivelata una delle esperienze più belle della vita: l'autostop in Iran.
Due mesi affidandoci solo alla generosità e ospitalità di sconosciuti.
Più prendevamo passaggi, più l'immagine che nella mia testa era legata all'autostop, cambiava forma e dimensione.
La paura, ad esempio.
Prima di provare questa esperienza pensavo che gli unici a fermarsi per darti un passaggio fossero malintenzionati.
Poi un giorno, mentre aspettavamo a lato della strada in una calda mattinata iraniana, ho avuto un'illuminazione.
Ma quante probabilità ci sono che proprio in questo momento, su questa strada anonima, proprio in questa direzione, passi un poco di buono? Beh direi bassissime. 
La maggior parte delle persone, per quanto i telegiornali cerchino di convincerci del contrario, sono buone e oneste.
Ma poi, se abbiamo paura noi che volontariamente stamattina ci siamo messi qui a chiedere un passaggio, cosa dovrebbe pensare chi ci passa casualmente davanti e ci vede? Non dovrebbe essere lui/lei a temere di ospitare a bordo della sua macchina due sconosciuti?
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Oltre a questo aspetto, l'altro "caldo" è la questione denaro. Mi sono accorta che fare autostop non è tanto una questione di budget.
Spesso è una scelta "logistica" perché magari i mezzi pubblici non sono affidabili o proprio non esistono. A volte è legata alla volontà di fare un'esperienza diversa e più a contatto con la gente che vive in quel luogo. E solo in ultimo è legata a una questione di budget.
Perché fare autostop non vuol dire prendere un "taxi gratis", è qualcosa di completamente diverso. Implica fiducia reciproca, ora di attesa sotto il sole, condivisione di un pezzo di viaggio.
L'esempio emblematico sono i camionisti. Sono loro i più propensi a dare passaggi perché comunque quel percorso lo farebbero soli. L'autostoppista diventa un compagno, un modo per alleggerire le ore di viaggio, per sentirsi meno soli su strade che si perdono nel nulla.
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Tutta questa introduzione per dire che la nostra esperienza in autostop a Sulawesi è un mezzo fallimento.
Non si ferma nessuno.
O meglio, si fermano solo macchine già pienissime che vogliono farsi una foto con noi. Oppure taxi condivisi.
In genere su questa seconda opzione cediamo miseramente al quarto o quinto tentativo. Inutile impuntarsi per il puro senso di avventura, meglio cercare di valutare razionalmente la situazione e capire che l'autostop non in tutti i Paesi funziona allo stesso modo.
Una cosa è certa, se stessimo partecipando a una gara di autostop, qui a Sulawesi probabilmente ci classificheremmo nelle ultime posizioni.
Sì perché un'altra scoperta interessantissima che ho fatto è che esistono delle vere e proprie competizioni.
Tutti i concorrenti partono dalla stessa città e devono raggiungere ogni giorno una meta diversa spostandosi soltanto in autostop.
In base alla posizione di arrivo si accumulano punti e alla tappa finale si scopre chi è il vincitore.
Sono gare che si tengono ogni anno in Europa e c'è n'è proprio una che parte le ultime due settimane di Agosto. Potrebbe essere una buona idea provare per chi magari vuole fare una vacanza alternativa questa estate.
Angela (e Paolo)
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