SCAFFALE LECCHESE/215: la storia dei fratelli Torri-Tarelli
Il 13 agosto 1824 – dunque, duecento anni fa tondi – nasceva a Onno Giovanni Torri-Tarelli. Sarebbe morto a 24 anni il 4 maggio1848, sorpreso da una tempesta sul lago mentre con tre compagni trasportava armi destinate a Milano per l’insurrezione antiaustriaca. Cessato il temporale - è il racconto di Aristide e Fortunato Gilardi - «la notte a poco a poco era calata colle sue ombre pacate» e mentre «le campane di Lecco, cui rispondevano con accorata mestizia, quelle di Malgrate, suonavano l’Ave Maria», i quattro giovanissimi fratelli di Giovanni, il più grande 16 anni e il più piccolo 8, «raccolti attorno al desolato focolare domestico, giuravano in cuor loro, in quel momento, di raccogliere la bandiera dalle gelide mani del morto, di continuarne le opere, di ereditarne lo spirito. Quello spirito d’indomito ardore patriottico che undici anni dopo, nel 1859, mostravano tutti e quattro in linea sui campi insanguinati delle più gloriose battaglie, strenuamente pugnando per la più alta delle umane idealità: la Patria».
Tra fratelli e sorelle, i Torri-Tarelli erano complessivamente in tredici, ma sono cinque le glorie locali: oltre a Giovanni, vi furono Carlo, Tommaso, Giuseppe, Battista. Nell’epigrafe che accompagna il bassorilievo posto sulla casa di famiglia del lungolago lecchese, il poeta chiavennasco Giovanni Bertacchi li accomuna ad altri più celebrati fratelli-eroi risorgimentali: i Cairoli e i Bronzetti. Curiosamente, però, il Comune di Lecco ha intitolato al solo Carlo la via sulla quale si affaccia il palazzo. Avrebbe poi rimediato nel 1961dedicando a tutti e cinque i fratelli una scuola elementare, quella di Chiuso.
Ancora oggi, per conoscere la storia dei Torri-Tarelli ci si affida a un libro uscito nel 1930 dalla tipografia dei Fratelli Grassi a opera appunto di Aristide (1902-1967) e Fortunato Gilardi (1903-1952), fratelli anch’essi e attratti dal giornalismo, come ci informa il Dizionario storico illustrato di Lecco: «Con minore frequenza Fortunato, con maggiore Aristide si dedicarono a rievocazioni locali, collaborando al mensile “All’ombra del Resegone”, all’Italia di Milano e all’Ordine di Como. Si deve alla loro collaborazione la biografia dei fratelli Torri-Tarelli e una molteplicità di studi che riguardano gli alberghi, le imbarcazioni, Pescarenico, Maggianico».
Nel 2011, in occasione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, i Comuni di Oliveto Lario, Lecco e Malgrate hanno promosso una ristampa anastatica del libro sui Torri-Tarelli, accompagnata da un accurato lavoro redazionale di Elisabetta Rurali che ha consentito anche di correggere alcuni errori contenuti del racconto dei fratelli Gilardi: per esempio la data di nascita di Giovanni che i Gilardi collocavano nel 1826. Racconto indubbiamente celebrativo, il loro: lo stile è più che alato. Fin dalle prime righe della prefazione affidata all’avvocato Giuseppe Muttoni (solo omonimo del maestro di Cortabbio di cui abbiamo parlato domenica scorsa): «Mentre m’accingo a stendere l’esordio alle belle pagine (…) parmi di sorprendere me stesso nell’atto di sollevare il velo dispiegato sovra la lapide che ricorda tanta luce di gloria. Nel mio gesto riverente la mano ha un linguaggio di orazione, mentre, rapido, davanti agli occhi passa lo splendore della porpora di fuoco e sangue e, nell’aria, risuonano clamori di trombe, echi di vecchie canzoni ed inni di campane fedeli, dicenti al cielo le glorie degli Eroi di nostra terra».
Il clima del 1930 favoriva del resto enfasi e ampollosità patriottiche. E se i nostri autori si prendono anche qualche licenza e danno per certi taluni dettagli pur non avendone contezza, la ricerca è comunque meticolosa.
Si parte dal 19 settembre 1818 quando «Carlo Torre (il nome originale di Torre venne, via via, trasformandosi in Torri a cui, per legato di uno zio, morto senza eredi diretti, fu aggiunto quello di Tarelli) e Giuseppa Dell’Oro – nati l’uno a Onno e l’altra a Valmadrera – salito l’altare della nostra chiesa di Lecco, fondevano le loro giovinezza in un’unica vita» e la cui esistenza sarebbe stata circondata da «una mirabile corona di bimbi». I due sposi, ovviamente, avevano «una sola intensissima cura ed un solo ideale tenacemente perseguivano: educare i figli perché fossero degni e validi e pronti per adoprarsi a riscattare la Patria ed a renderla Una, Libera e Indipendente».
Vero è che il padre, pur non essendo propriamente un rivoluzionario, non nascondeva certo i propri orientamenti antiasburgici entrando in conflitto con le autorità per aver rifiutato taluni incarichi. Però – si nota - «scoppiata che fu l’insurrezione a Milano, il padre dei Torri-Tarelli, sapendoli fervidamente conquistati alla causa degli insorti, da Lecco, dove risiedevano, li condusse a Onno per sottrarli a incomposti e folli tentativi giovanili – era il cuore paterno e non certo l’animo fervido di amor patriottico che consigliava così! – i quali, più che giovare, avrebbero nuociuto al santo scopo che gli italiani si prefiggevano». In quanto alla madre «è stata, come tutte le Madri degli Eroi del Risorgimento, la fiamma luminosa e quieta, che, silenziosamente ha rischiarato e additato l’aspro e glorioso cammino ai figli».
E veniamo ai nostri figli-eroi, i cui destini sono annodati l’uno con l’altro, le strade spesso si dividono per poi riunirsi tra Lecco, Onno, gli studi universitari a Pavia, i campi di battaglia delle guerre d’indipendenza, tra i quali Solferino e le spedizioni garibaldine. Con informazioni abbondanti per alcuni e scarse per altri.
Per il primogenito Giovanni, nato nel 1824, gli autori vanno un po’ di fantasia, considerato che l’episodio della morta durante la tempesta «è l’unico che conosciamo e di cui abbiamo commoventi accenni. E dunque: «Pomeriggio di maggio dolce e pacato. (…) Giovanni Torri-Tarelli sapeva che nei giorni antecedenti le giornate fatidiche del nostro riscatto, in certe riposte buche della Rocca di Malgrate, erano stata nascoste copiose quantità di armi e di fucile per farle, occorrendo, scintillare al bel sole d’Italia. (…) In quei giorni di maggio, un’ordinanza del Comitato d’insurrezione ingiungeva a chiunque possedesse armi di recarle al palazzo del Comune e di offrirle a valide mani che validamente le avrebbero impugnate. Il Torri-Tarelli s’imbarco con gli amici fidati e dilettissimi Ferdinando Fondra, Battista Polti e Francesco Chiappini (…) per recarsi alla Rocca e raccogliere le armi che Lecco avrebbe offerto a Milano. Il tragitto da Lecco a Malgrate, felicemente si era compiuto: raccolte le armi ed imbarcatele, i quattro amici, in fretta, si avviarono verso Lecco per poter ripetere l’operazione prima che scendesse la notte. Ma il cielo – fattosi improvvisamente minaccioso e cupo – indicava, se non imminente, prossima la burrasca. (…) La tempesta sopraggiunse con vertiginosa rapidità e scoppiò fulminea col cieco furore della natura adirata. (…) La piccola barca, investita da un fragoroso nimbo di pioggia, sollevata e percossa da furiosi colpi di vento, era sbattuta qua e là dalle onde tumultuose. (…) Fu un attimo. (…) Pochi pescatori balzarono in una vecchia barcaccia e corsero al salvataggio dei naufraghi (…) ma solo due, purtroppo, riuscirono a trarre in salvo: il Fondra e il Polti. Giovanni Torri-Tarelli e Francesco Chiappini, inghiottiti dai gorghi del lago, erano scomparsi per sempre».
Carlo, nato nel 1832 «è figura di prima grandezza: quella che tutti i familiari sovrasta per la sovrana magnanimità, per l’indomito coraggio, per l’assoluta e completa dedicazione alla causa italiana». Pare che nel 1848, sedicenne, scappò da Onno col fratello maggiore Giovanni per partecipare ai moti milanesi. Ma fu il 1959 «l’anno memorando che vide la superba grandezza degli italiani». Carlo aveva 27 anni, era sposato e padre di un figlio, ma superando «tutto questo intricato groviglio di sentimenti» andò a combattere per l’indipendenza a Montebello, Palestro, Magenta. Restò ferito e trascorse un lungo periodo in ospedale, ma «quando lascerà la clinica lo troveremo fra i Mille, entusiasta ed eroico come sempre. (…) Doveva essere certamente fra i più attivi e fattivi organizzatori». Da Genova scrisse al padre raccomandandosi per la moglie e il figlio «acciocché, morendo io, vogliate essere così prodighi verso di loro come siete con tutti gli altri di casa. (…) Se la fortuna mi darà di poter campare (ciò che è impossibile) non mancherò di rendervene avvisato» Seguì Garibaldi per tutta la campagna e negli sviluppi successivi. Fu con Garibaldi anche all’Aspromonte che non fu «il solo dolore» che lo angosciò: i Gilardi, pur non entrando nei dettagli, ci parlano infatti di «una incresciosa vicenda coniugale che mise a prova la salda fierezza del suo carattere». Passata la temperie risorgimentale, nel 1870 emigrò in Argentina dove «cercò subito di avere un’occupazione presso il consolato d’Italia, sicuro di potere, da quel posto, veder meglio le condizioni dei nostri connazionali e di potere, da lì, prestar loro un maggiore e più proficuo aiuto». Tornato poi in Italia, si ritirò a Onno dove morì nel 1887.
Tommaso, nato nel 1835, «fece tutta la campagna del 1859 con valorosa e non mai smentita tenacia: organizzò nel ’60 gli arruolamenti e fu, per Lecco, segretario del Comitato di Soccorso dell’impresa garibaldina». Poche, comunque, le notizie su di lui: «Sappiamo che, coi fratelli, Tommaso partecipò a pericolose imprese, ma quali fossero non possiamo precisare». Morì a Mandello nel 1893.
Giuseppe, nato nel 1839, «è un dimenticato» perché «frugando nelle vecchie carte della sua famiglia, investigando le antiche memorie, ben poco si è potuto sapere di lui» senza che ciò possa «offuscarne la nobile figura». Giuseppe «visse solo 21 anni. (…) Avviato al sacerdozio, troncò la carriera ecclesiastica nel 1859 per arruolarsi fra i liberatori della Patria». Ai genitori scrisse: «Io sono partito per arruolarmi nel corpo dei bersaglieri. Non istate a cercarmi perché sono risoluto a morire, a fare un suicidio piuttosto che riedere al tetto natio. La Patria esige sacrifici grandi dai parenti e più saranno grandi i loro meriti in faccia a Dio, quanto più grandi saranno stati i loro sacrifici. (…) Se morrò, morrò da prode, se la vita mi sarà riservata tornerò nel vostro grembo per abbracciarvi». Fu con Carlo tra i Mille che partirono da Quarto e nell’assedio di Palermo restò gravemente ferito a un braccio: ne seguì un’infezione che l’avrebbe portato alla morte pochi mesi dopo, nel settembre 1860.
Infine, Battista. Nato nel 1840, «sapeva essere a un tempo audace e pugnace, misurato e coraggioso». Fu lui che «organizzò e decise, sul finire del ’58, la fuga da Pavia, quando intuì che, per punirli dell’incessante propaganda, la polizia austriaca voleva arrestare i Torri-Tarelli. (…) Messosi d’accordo coi fratelli – saputo che il poliziotto sarebbe arrivati con un treno, il quale subito dopo sarebbe ripartito per Milano – si appiattò, con Giuseppe e Tommaso, in un sicuro nascondiglio proprio nella stazione». Poi, «si confusero, disinvolti fra la folla: s’incontrarono, petto a petto, col commissario: salirono sul vagone da cui lui era sceso». In occasione della spedizione di Mille raggiunse i fratelli Carlo e Giuseppe in Sicilia. Fu poi a Custoza e a Mentana dove venne fatto prigioniero. Per gli anni dell’Italia ormai unita «è nota l’opera svolta nei diversi campi della filantropia e delle amministrazioni cittadine, sono conosciute le sue doti impareggiabili di uomo e di professionista». Riuscì a vedere il nuovo secolo, morendo nel 1901
Tra fratelli e sorelle, i Torri-Tarelli erano complessivamente in tredici, ma sono cinque le glorie locali: oltre a Giovanni, vi furono Carlo, Tommaso, Giuseppe, Battista. Nell’epigrafe che accompagna il bassorilievo posto sulla casa di famiglia del lungolago lecchese, il poeta chiavennasco Giovanni Bertacchi li accomuna ad altri più celebrati fratelli-eroi risorgimentali: i Cairoli e i Bronzetti. Curiosamente, però, il Comune di Lecco ha intitolato al solo Carlo la via sulla quale si affaccia il palazzo. Avrebbe poi rimediato nel 1961dedicando a tutti e cinque i fratelli una scuola elementare, quella di Chiuso.
Ancora oggi, per conoscere la storia dei Torri-Tarelli ci si affida a un libro uscito nel 1930 dalla tipografia dei Fratelli Grassi a opera appunto di Aristide (1902-1967) e Fortunato Gilardi (1903-1952), fratelli anch’essi e attratti dal giornalismo, come ci informa il Dizionario storico illustrato di Lecco: «Con minore frequenza Fortunato, con maggiore Aristide si dedicarono a rievocazioni locali, collaborando al mensile “All’ombra del Resegone”, all’Italia di Milano e all’Ordine di Como. Si deve alla loro collaborazione la biografia dei fratelli Torri-Tarelli e una molteplicità di studi che riguardano gli alberghi, le imbarcazioni, Pescarenico, Maggianico».
Nel 2011, in occasione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, i Comuni di Oliveto Lario, Lecco e Malgrate hanno promosso una ristampa anastatica del libro sui Torri-Tarelli, accompagnata da un accurato lavoro redazionale di Elisabetta Rurali che ha consentito anche di correggere alcuni errori contenuti del racconto dei fratelli Gilardi: per esempio la data di nascita di Giovanni che i Gilardi collocavano nel 1826. Racconto indubbiamente celebrativo, il loro: lo stile è più che alato. Fin dalle prime righe della prefazione affidata all’avvocato Giuseppe Muttoni (solo omonimo del maestro di Cortabbio di cui abbiamo parlato domenica scorsa): «Mentre m’accingo a stendere l’esordio alle belle pagine (…) parmi di sorprendere me stesso nell’atto di sollevare il velo dispiegato sovra la lapide che ricorda tanta luce di gloria. Nel mio gesto riverente la mano ha un linguaggio di orazione, mentre, rapido, davanti agli occhi passa lo splendore della porpora di fuoco e sangue e, nell’aria, risuonano clamori di trombe, echi di vecchie canzoni ed inni di campane fedeli, dicenti al cielo le glorie degli Eroi di nostra terra».
Il clima del 1930 favoriva del resto enfasi e ampollosità patriottiche. E se i nostri autori si prendono anche qualche licenza e danno per certi taluni dettagli pur non avendone contezza, la ricerca è comunque meticolosa.
Si parte dal 19 settembre 1818 quando «Carlo Torre (il nome originale di Torre venne, via via, trasformandosi in Torri a cui, per legato di uno zio, morto senza eredi diretti, fu aggiunto quello di Tarelli) e Giuseppa Dell’Oro – nati l’uno a Onno e l’altra a Valmadrera – salito l’altare della nostra chiesa di Lecco, fondevano le loro giovinezza in un’unica vita» e la cui esistenza sarebbe stata circondata da «una mirabile corona di bimbi». I due sposi, ovviamente, avevano «una sola intensissima cura ed un solo ideale tenacemente perseguivano: educare i figli perché fossero degni e validi e pronti per adoprarsi a riscattare la Patria ed a renderla Una, Libera e Indipendente».
Vero è che il padre, pur non essendo propriamente un rivoluzionario, non nascondeva certo i propri orientamenti antiasburgici entrando in conflitto con le autorità per aver rifiutato taluni incarichi. Però – si nota - «scoppiata che fu l’insurrezione a Milano, il padre dei Torri-Tarelli, sapendoli fervidamente conquistati alla causa degli insorti, da Lecco, dove risiedevano, li condusse a Onno per sottrarli a incomposti e folli tentativi giovanili – era il cuore paterno e non certo l’animo fervido di amor patriottico che consigliava così! – i quali, più che giovare, avrebbero nuociuto al santo scopo che gli italiani si prefiggevano». In quanto alla madre «è stata, come tutte le Madri degli Eroi del Risorgimento, la fiamma luminosa e quieta, che, silenziosamente ha rischiarato e additato l’aspro e glorioso cammino ai figli».
E veniamo ai nostri figli-eroi, i cui destini sono annodati l’uno con l’altro, le strade spesso si dividono per poi riunirsi tra Lecco, Onno, gli studi universitari a Pavia, i campi di battaglia delle guerre d’indipendenza, tra i quali Solferino e le spedizioni garibaldine. Con informazioni abbondanti per alcuni e scarse per altri.
Per il primogenito Giovanni, nato nel 1824, gli autori vanno un po’ di fantasia, considerato che l’episodio della morta durante la tempesta «è l’unico che conosciamo e di cui abbiamo commoventi accenni. E dunque: «Pomeriggio di maggio dolce e pacato. (…) Giovanni Torri-Tarelli sapeva che nei giorni antecedenti le giornate fatidiche del nostro riscatto, in certe riposte buche della Rocca di Malgrate, erano stata nascoste copiose quantità di armi e di fucile per farle, occorrendo, scintillare al bel sole d’Italia. (…) In quei giorni di maggio, un’ordinanza del Comitato d’insurrezione ingiungeva a chiunque possedesse armi di recarle al palazzo del Comune e di offrirle a valide mani che validamente le avrebbero impugnate. Il Torri-Tarelli s’imbarco con gli amici fidati e dilettissimi Ferdinando Fondra, Battista Polti e Francesco Chiappini (…) per recarsi alla Rocca e raccogliere le armi che Lecco avrebbe offerto a Milano. Il tragitto da Lecco a Malgrate, felicemente si era compiuto: raccolte le armi ed imbarcatele, i quattro amici, in fretta, si avviarono verso Lecco per poter ripetere l’operazione prima che scendesse la notte. Ma il cielo – fattosi improvvisamente minaccioso e cupo – indicava, se non imminente, prossima la burrasca. (…) La tempesta sopraggiunse con vertiginosa rapidità e scoppiò fulminea col cieco furore della natura adirata. (…) La piccola barca, investita da un fragoroso nimbo di pioggia, sollevata e percossa da furiosi colpi di vento, era sbattuta qua e là dalle onde tumultuose. (…) Fu un attimo. (…) Pochi pescatori balzarono in una vecchia barcaccia e corsero al salvataggio dei naufraghi (…) ma solo due, purtroppo, riuscirono a trarre in salvo: il Fondra e il Polti. Giovanni Torri-Tarelli e Francesco Chiappini, inghiottiti dai gorghi del lago, erano scomparsi per sempre».
Carlo, nato nel 1832 «è figura di prima grandezza: quella che tutti i familiari sovrasta per la sovrana magnanimità, per l’indomito coraggio, per l’assoluta e completa dedicazione alla causa italiana». Pare che nel 1848, sedicenne, scappò da Onno col fratello maggiore Giovanni per partecipare ai moti milanesi. Ma fu il 1959 «l’anno memorando che vide la superba grandezza degli italiani». Carlo aveva 27 anni, era sposato e padre di un figlio, ma superando «tutto questo intricato groviglio di sentimenti» andò a combattere per l’indipendenza a Montebello, Palestro, Magenta. Restò ferito e trascorse un lungo periodo in ospedale, ma «quando lascerà la clinica lo troveremo fra i Mille, entusiasta ed eroico come sempre. (…) Doveva essere certamente fra i più attivi e fattivi organizzatori». Da Genova scrisse al padre raccomandandosi per la moglie e il figlio «acciocché, morendo io, vogliate essere così prodighi verso di loro come siete con tutti gli altri di casa. (…) Se la fortuna mi darà di poter campare (ciò che è impossibile) non mancherò di rendervene avvisato» Seguì Garibaldi per tutta la campagna e negli sviluppi successivi. Fu con Garibaldi anche all’Aspromonte che non fu «il solo dolore» che lo angosciò: i Gilardi, pur non entrando nei dettagli, ci parlano infatti di «una incresciosa vicenda coniugale che mise a prova la salda fierezza del suo carattere». Passata la temperie risorgimentale, nel 1870 emigrò in Argentina dove «cercò subito di avere un’occupazione presso il consolato d’Italia, sicuro di potere, da quel posto, veder meglio le condizioni dei nostri connazionali e di potere, da lì, prestar loro un maggiore e più proficuo aiuto». Tornato poi in Italia, si ritirò a Onno dove morì nel 1887.
Tommaso, nato nel 1835, «fece tutta la campagna del 1859 con valorosa e non mai smentita tenacia: organizzò nel ’60 gli arruolamenti e fu, per Lecco, segretario del Comitato di Soccorso dell’impresa garibaldina». Poche, comunque, le notizie su di lui: «Sappiamo che, coi fratelli, Tommaso partecipò a pericolose imprese, ma quali fossero non possiamo precisare». Morì a Mandello nel 1893.
Giuseppe, nato nel 1839, «è un dimenticato» perché «frugando nelle vecchie carte della sua famiglia, investigando le antiche memorie, ben poco si è potuto sapere di lui» senza che ciò possa «offuscarne la nobile figura». Giuseppe «visse solo 21 anni. (…) Avviato al sacerdozio, troncò la carriera ecclesiastica nel 1859 per arruolarsi fra i liberatori della Patria». Ai genitori scrisse: «Io sono partito per arruolarmi nel corpo dei bersaglieri. Non istate a cercarmi perché sono risoluto a morire, a fare un suicidio piuttosto che riedere al tetto natio. La Patria esige sacrifici grandi dai parenti e più saranno grandi i loro meriti in faccia a Dio, quanto più grandi saranno stati i loro sacrifici. (…) Se morrò, morrò da prode, se la vita mi sarà riservata tornerò nel vostro grembo per abbracciarvi». Fu con Carlo tra i Mille che partirono da Quarto e nell’assedio di Palermo restò gravemente ferito a un braccio: ne seguì un’infezione che l’avrebbe portato alla morte pochi mesi dopo, nel settembre 1860.
Infine, Battista. Nato nel 1840, «sapeva essere a un tempo audace e pugnace, misurato e coraggioso». Fu lui che «organizzò e decise, sul finire del ’58, la fuga da Pavia, quando intuì che, per punirli dell’incessante propaganda, la polizia austriaca voleva arrestare i Torri-Tarelli. (…) Messosi d’accordo coi fratelli – saputo che il poliziotto sarebbe arrivati con un treno, il quale subito dopo sarebbe ripartito per Milano – si appiattò, con Giuseppe e Tommaso, in un sicuro nascondiglio proprio nella stazione». Poi, «si confusero, disinvolti fra la folla: s’incontrarono, petto a petto, col commissario: salirono sul vagone da cui lui era sceso». In occasione della spedizione di Mille raggiunse i fratelli Carlo e Giuseppe in Sicilia. Fu poi a Custoza e a Mentana dove venne fatto prigioniero. Per gli anni dell’Italia ormai unita «è nota l’opera svolta nei diversi campi della filantropia e delle amministrazioni cittadine, sono conosciute le sue doti impareggiabili di uomo e di professionista». Riuscì a vedere il nuovo secolo, morendo nel 1901
Dario Cercek