Bonacina: il racconto di due papà, uno israeliano e uno palestinese, Testimoni di Pace, contro le Guerre

Che cosa viene alla mente quando si parla di Oasi di Pace? Le Oasi sono tipicamente quelle zone vivibili in mezzo a un territorio ostile, desertico. E se la zona inospitale fosse stata resa tale dalla guerra, allora le Oasi sarebbero luoghi in cui la Pace si è fatta spazio e ha dato vita a luoghi abitabili, sebbene sempre così rari. 

Oasi di Pace è anche un progetto proposto nel lecchese dalla Parrocchia di Bonacina ogni primo del mese, si protrae da oltre 50 appuntamenti, sulla scia del 1° di gennaio che è la Giornata mondiale della Pace. 
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Don Marco Tenderini sottolinea che è un momento aperto a diversi credo e a persone non credenti, poiché il cuore di questi momenti è il portare la pace, tramite le parole e i simboli. “Cerchiamo di sostituire i segni del potere con il potere dei segni” dice il sacerdote raccontando la storia dell’Ulivo di Romena (Toscana) e mostrando Colomba e Bandiera della Pace. Questo è un “momento di ascolto per vivere la pace nelle relazioni. Qui tra di noi, ma anche nelle relazioni tra i popoli e gli Stati”. 
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L’Oasi di pace di venerdì 2 agosto è stata dedicata al conflitto Israelo-Palestinese.
Nelle tragiche vicende che affliggono quella Terra, dall’instaurazione dello Stato di Israele, il dolore e la non-conoscenza sono sembrati essere gli unici motori di azione dei due popoli, ma per fortuna (o per scelta), basta stare in ascolto per sentire l’umanità che emerge anche di fronte alle parole che compongono il binomio Giustizia-Vendetta, che è sembrato - gli stessi protagonisti raccontano - composto da due sinonimi per molto tempo. 
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Due papà, due bambine uccise. Come si sono incontrati? 
Un papà che perde sua figlia. Che non avrebbe mai potuto pensare di essere proprio lui, la sera di un giorno in cui c’è stato un attentato in centro città  a finire in un obitorio a guardare il corpicino di Smadar su una tavola di metallo, chi sceglie di diventare?

Un papà che perde la sua bambina, dopo anni di vita sotto occupazione, dopo un anno di prigione per aver solo sventolato la bandiera palestinese, che non avrebbe mai potuto pensare che a distanza di pochi metri, un soldato diciottenne israeliano potesse sparare a sua figlia, Abir, alla nuca, e rimanere impunito davanti a quattordici testimoni, come sceglie di reagire?

Nel corso della serata, le risposte sono arrivate nei racconti di Rami Elhanan, israeliano, e Bassam Aramin, palestinese, due uomini che nel dolore si sono conosciuti e hanno scelto, insieme, di diventare Testimoni di Pace. Le loro parole sono state intramezzate con i canti del gruppo Fermenti di Pace.
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Le storie
Sono tanto diverse, in origine, le storie dei due papà.

Da una parta una vita tranquilla, il più possibile lontana dall’esercito, al netto della leva obbligatoria e la questione palestinese lasciata sullo sfondo, al netto di qualche battutaccia: “Servirà pur qualcuno che ripari i frigoriferi di sabato, no?” 

Dall’altra una vita agitata, irrequieta, di resistenza in mezzo all’occupazione israeliana in atto e un diffuso senso di vendetta per i torti subiti. Una vita di ristrettezza, di permessi per le cose più banali come coltivare la terra, ore e ore di attesa sotto il sole cocenti per controlli di documenti e umiliazione da parte dei soldati. 
Ma poi nella tragedia, l’umanità ha vinto. 
 
Rami Elhanan, isrealiano, “ebreo e orgoglioso della sua cultura” ha iniziato a chiedersi che cosa avesse portato un ragazzo a farsi esplodere vicino a una bambina di 14 anni, in nome di quale libertà, spinto da chi. “Dal suo governo oppure spinto dal mio governo?”.
Una serie di eventi lo hanno portato ad un evento di Parents Circle (un gruppo di genitori in lutto che desidera impegnarsi per portare la pace fra Israeliani e Palestinesi). Lì ha visto una donna vestita di nero con i tipici abiti arabi e ha pensato: “Potrebbe essere la madre di un attentatore”, e invece ha visto che aveva stretta al petto la foto della sua bambina ammazzata. E davanti a tanto dolore e odio, ha fatto spazio alla comprensione e di quel vuoto ne ha fatto ragione di vita per combattere la legge del “Ne uccidi uno dei miei, ne uccido dieci dei tuoi”.

Bassam Aramin, palestinese, pensava con superficialità e distacco all’olocausto dicendo “Sì ammazzateli, 8-9 milioni”, ma quando ha visto un documentario sulla Shoa proprio mentre era in prigione perché aveva difeso la propria esistenza, si chiese: “Ma perché non reagiscono? Nudi, spogliati della loro parola, della loro dignità, perché stanno in fila in silenzio mentre stanno per essere ammazzati?!”.
Bassan, che si descrive come un uomo forte, ha raccontato la notte successiva in cella: “Pensando a quelle immagini, mi sono girato al muro, messo sul volto il lenzuolo e tremavo”.
Tremare di paura, di vergogna, di dolore. Cosa ha toccato questi due padri nel profondo?

“A Parents Circle ci siamo conosciuti e ci siamo riconosciuti uguali nel dolore. […] Ci siamo detti che l’anno in cui Smadar è stata uccisa è stato lo stesso anno in cui Abir è nata”. Lì si sono promessi che del loro dolore avrebbero fatto una potenza e si sarebbero resi Testimoni di Pace. Perché vivere nella memoria degli altri, significa non lasciarli e lasciarsi morire. 
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La Chiesetta di S. Egidio
Oasi è anche un luogo isolato, lontano dal caos e dalle cose veloci. Pertanto, la scelta della location dove si è tenuto l’incontro non è stata casuale: la Chiesetta di San Egidio ha ospitato l’Oasi di Pace di venerdì 2 agosto, per parlare, o meglio ascoltare, discorsi sull’identità, sulla terra e sulla abitazione , sulle scelte: erano presenti 57 donne e 19 uomini. 
Lo spazio attorno alla Chiesetta di San Egidio è stato raccolto, pacifico, silenzioso.
Senza dimenticare che, tra il 1915 e il 1916, quei prati ospitarono un campo di concentramento per prigionieri austro-ungarici e slavi della Prima Guerra Mondiale. Gli abitanti erano soliti visitare i detenuti, offrendo loro cibo e conforto, rendendo così il luogo un simbolo di cura e solidarietà...
Martina Bonacina
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