SCAFFALE LECCHESE/211: il diario dal carcere di Ernesto Pozzi, garibaldino arrestato un 6 luglio...

Non solo Luciano Manara sepolto a Barzanò. O Giuseppe Sirtori di Monticello al quale era anche dedicata una caserma militare. O, ancora, i fratelli Torri Tarelli di Oliveto ma con una casa anche sul lungolago di Lecco. 
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Ernesto Pozzi
Tra i garibaldini lecchesi ci fu anche Ernesto Pozzi, figura di spicco ma sostanzialmente trascurata. Più celebrato è il fratello minore, quel Giovanni, egli pure garibaldino, che fu tra i fondatori e primo presidente effettivo del Cai lecchese e del quale abbiamo parlato in più occasioni anche in questa rubrica.  
Eppure Ernesto fu personaggio di spessore «e avrebbe meritato quanto meno che fosse raccolta e meglio conosciuta la sua opera» come ebbe a scrivere Aroldo Benini in un articolo “per la biografia dell’avvocato lecchese Ernesto Pozzi” pubblicato nel numero di aprile-giugno 1998 della rivista storica “Archivi di Lecco”.
Nato nel 1843 ad Acquate, Pozzi abbandonò il seminario per seguire Garibaldi nell’impresa dei Mille anche se per la giovane età venne scartato in occasione della primissima epica spedizione per poi arruolarsi tra i rinforzi e in altre successive campagne. Fu repubblicano convinto, quando i repubblicani erano considerati alla stregua di terroristi. E infatti, nel 1869, venne arrestato e incarcerato per quasi tre mesi con l’accusa di congiura contro la monarchia e addirittura di tentato regicidio. Aveva 26 anni ed era già un esponente non defilato di quel movimento della sinistra ottocentesca che aveva partecipato convintamente e in prima fila al Risorgimento rimanendo poi deluso dagli sviluppi politici, dal prevalere di altre mire di casa Savoia e quindi dall’orientamento impresso allo Stato unitario. Visse una giovinezza rivoluzionaria ed errabonda finché, morto Mazzini e quindi non avendo più sbocco alcuno la rivolta, nel 1872 decise di tornare ad Acquate a esercitare la professione di avvocato. 
Non abbandonò comunque la politica: fu consigliere provinciale di Como e si candidò più volte e inutilmente al Parlamento nazionale. Con qualche “cedimento”: «Pur mantenendo fede ai propri principi ideali, mazziniani e garibaldini, della sua giovinezza – leggiamo negli appunti biografici di Benini - negli ultimi anni cercò di essere deputato a qualunque costo, ed anche al prezzo di qualunque alleanza, pur contraddittoria coi suoi antichi principi, tanto da inimicargli alcuni dei suoi fedeli di un tempo, come l’allora giovanissimo futuro deputato di Lecco Mario Cermenati». 
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Le lapidi al cimitero di Acquate
La stessa morte, nel 1904 ad Acquate, fu avvolta in un mistero mai realmente chiarito a proposito di una supposta conversione in extremis a quel cattolicesimo avversato per l’intera vita.
Autore di una quindicina di libri destinati all’oblio, per un periodo diresse il giornale genovese “Il Dovere” di orientamento mazziniano e quindi osservato speciale da parte della polizia sabauda. A cavallo tra il 1869 e il 1870, vi pubblicò a puntate “Un’estate di Sant’Andrea. Diario d’un prigioniero politico” che poi sarebbe uscito in un volume nel 1872 stampato dalla Società cooperativo-tipografica di Lodi.
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La copertina del libro
Racconta il periodo della sua detenzione a Genova, appunto nel carcere di Sant’Andrea, dal 6 luglio al 24 settembre 1869. Con altri garibaldini o ex garibaldini, era accusato di essere parte attiva in un complotto volto a rovesciare la monarchia e a instaurare un governo repubblicano. E «quella cospirazione di regicidio fatta tra tanti individui la valeva un Perù…»: questo il commento di Pozzi proprio nelle memorie del carcere. Venne poi prosciolto e scarcerato: «Alfine - l’incipit dell’“Estate” – mi è concesso a ripigliare l’antica vita consueta! (…) Ho riveduto il mio lago e lo splendido panorama del territorio di Lecco; e la mia amata famigliola, quando posi piede nella antica casa paterna, mi abbracciò affollandomisi attorno gongolante di gioja: Tom, il canbarbone novello dalla faccia intelligente, mi riconobbe dopo sei mesi di assenza e fattosi largo tra le mie sorelle mi saltò al collo e galloriò per mezz’ora, sì che dovetti accarezzarlo un’ultima volta e mandarlo a cuccia per poter rispondere alle mille interrogazioni, che mi tempestavano da ogni lato. Udii nell’elegante teatrino di Lecco il nuovo spartito del Maestro Petrella, attinto dai Promessi Sposi di Manzoni, che colla nascita ed il genio illustrò le mie valli, e ad Acquate, mio paese nativo, incontrai turbe di forastieri in pellegrinaggio alle case di Lucia e di don Abbondio. Potenza dell’arte!»
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Il carcere di S.Andrea
Non è un capolavoro, ma tutto sommato Pozzi ha una buona penna ed è quindi lettura gradevole. Soprattutto, non indulge nella retorica o nel lacrimoso. Anzi, il tono è quasi scanzonato.
«Io non ho punto il ticchio di scrivere delle minute memorie – l’avvertenza dell’autore - o peggio una parodia delle “Mie Prigioni” di Silvio Pellico. Pochi mesi di carcere non si ponno paragonare coi lunghi anni dello Spielberg». Paragone impossibile anche perché a leggere le pagine di Pozzi il soggiorno nella galera genovese assomiglia più a una villeggiatura che a una detenzione. Certo, lui e i suoi compagni sono privati della libertà e in quelle mura sono costretti. E ciò basta a rendere insopportabile la quotidianità. E la stessa convivenza, come sottolinea egli stesso con un’immagina decisamente manzoniana: «Nella continua incertezza e nell’ansia febbrile, in cui ci agitavamo, la vita in S. Andrea rendevasi più sempre pesante ed intollerabile, e venendo a noi medesimi in uggia, quella comune disgrazia principiavamo a beccarci come i galletti, che avvinti in un mazzo per le zampe e col capo in giù porta il buon cliente in dono allo storci-leggi delle campagne».
Però, pur essendo pericolosi cospiratori, sembrano avere una certa libertà di movimento, nonché il denaro per potersi permettere pasti più che decenti e anche momenti di festa: «Bevevano encomiando il barbera, e [un compagno di prigionia] per mancanza di cava-turacciolo, con un deciso colpo della sua mazza troncò il collo di un’altra bottiglia. (…) In quel momento noi sembravamo i padroni delle carceri, e i guardiani i nostri valletti». In effetti, le autorità carcerarie sembrano quasi in soggezione di fronte a quei detenuti “illustri”. In grado anche di mettere in piedi una mezza rivolta («Ci han preso per arlecchini. Non siamo marionette») senza patirne conseguenze.
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Altra immagine del carcere
Per quanto occorra «chiarire quali sevizie usasse contro i patriotti il governo italiano» perché «coi regolamenti alla mano si può benissimo in carcere sbarazzarsi di un individuo, su cui vogliasi sfogare una vendetta». Con tutto che certi custodi «in qualità di segretari domani firmerebbero con tutta disinvoltura la nostra sentenza di morte. Buona gente, del resto, e dispostissima dopodomani a levarci tanto di cappello e a presentarci delle suppliche, se il caso ci balzasse al seggio di ministro!» E del resto ai carabinieri che l’arrestarono, pensò bene di offrire del vino «per mostrare che io non li considerava che ignari e semplici strumenti del potere».
Racconta poi le consuetudini del reclusorio come l’imbiancatura che «fa le veci delle Olimpiadi e la si costuma ogni sei mesi per nettezza e per cancellare i motteggi, gl’improperii, i sarcasmi, le villanie ed i lamenti scritti nel frattempo sul libro dei muri, il perché dicono in gergo: ho visto due, quattro imbiancature, gli è come dire: sono stato all’ombra per uno o due anni». Va peraltro ricordato come all’epoca le Olimpiadi moderne fossero ancora ben lontane dall’essere solo immaginate.
Ci sono poi gli oggetti vietati come le posate (e infatti abbiamo visto che non avevano a disposizione un cava-turaccioli). E poi penne, specchi ma anche taluni svaghi: «Le carte, gli scacchi e tutti gli altri giuochi son proibiti, ma l’ingegno dei carcerati delude tal divieto. Ho visto dei mazzi di carte messi insieme con ritagli di fogli, regolarmente listati, colle figure e coi punti esatti, coloriti con inchiostro, vino e polvere di mattoni. Colla mollica di pane, inzuppata d’acqua e mista a sfregatura d’intonaco delle pareti, si compongono delle statuette, dei busti, dei ritratti, ed altri lavori di meravigliosa pazienza, e consistenti quanto lo stucco».
La cronaca pura e semplice è intercalata da considerazioni politiche: «Garibaldi! Mazzini! Sono due gemme, che splendono purissime in fronte alla libertà! Sono due nomi, che possono formare il vanto non d’un solo popolo, ma del genere umano! Per rinvenire delle figure semplici e maestose come queste, occorre rivolgere lo sguardo ai tempi delle leggende».
Non solo. Ci sono riflessioni sul carcere preventivo: «Oh quegli scienziati senza passione e senza entusiasmo, quei legislatori che lo idearono o che lo reputano necessario, davvero possono menarne pompa come di insigne parto di sano criterio e di filosofica previdenza! O legulei, architettate pure i vostri codici a matematica esattezza, fate pure con tutta pacatezza i vostri calcoli sulla spinta al delitto e sulla controspinta dei vostri articoli minacciosi; i giurisperiti, i barbassori delle università vi acclameranno applaudendo i novelli Soloni o gli emuli di Licurgo, i vostri nomi brilleranno sulle vostre opere, ma che rispondete di fronte alle vittime delle vostre false, ingiuste e stolide speculazioni?».
Sulla giustizia sabauda: si tengono nelle fortezze «dei veterani delle patrie battaglie pel solo delitto di pensare repubblicanamente, di aborrire un re, che… e di odiare per principio di libertà tutte le monarchie! si chiuderà dunque in carcere chiunque confidi ad un amico le proprie aspirazioni ed i propri voti per il popolare benessere!»
Sulla libertà: quella «fittizia, provvisoria, monarchico-costituzionale è una libertà che invece di ingagliardire, instupidisce l’animo, e l’energia morale e fisica non può svilupparsi nella sua pienezza se non nei paesi, dove ognuno può gridare: i miei diritti sono pari a tutti quelli degli altri!»
Sull’istruzione: «In paesi non liberi corre il vezzo di offrire alla gioventù nelle scuole e come modello di sapienza le storie della antichità greca e romana. Con ciò si crede di riversar negli animi l’oblio del presente e la sfiducia di raggiungere l’eroismo e i virili costumi di quei tempi»
Sono già satira le considerazioni sulla religione e la chiesa: «E’ fama che li Bonzi, sacerdoti delle Indie, escano il mattino di città per la campagna, e nella nuda terra coricatisi, rivolgano all’alto la trippa, e in tal postura immobili, lunghi e distesi, stiano tutto il giorno in adorazione del sole: la sera poi tornano contenti come pasque ai loro focolari. E’ certo altresì, che certi frati contemplativi seggono per ore e ore collo sguardo fisso sul proprio ombellico, e in quel non troppo casto raccoglimento sperano scrutare il pensiero di Dio e venirne ispirati: e taluno aggiunge, che di quando in quando dopo lunga osservazione cadano in sacri deliqui o visioni». 
Ce n’è anche per la massoneria che pure ha avuto un suo ruolo nelle lotte risorgimentali e alla quale aderisce qualche compagno di cospirazione. Al quale dice: «Voi siete liberali e volete redimer Roma cacciandone il papa ed i preti. O come va che, mentre intendete abbattere un culto sciocco, ne preparate un altro non più bello? Voi volete dissipare il pregiudizio e la superstizione e perché insegnate al popolo i misteri, l’aristocratica gerarchia e tutta la vana pompa e il soprannaturale dei vostri riti? (…) Chi si ribella a tutti i culti deve ribellarsi anche alla massoneria e rifiutare nuovi dogmi e nuove sette.»
E infine considerazioni sociali e filosofiche: «A me sembrò che la vita sociale assomigli sempre in diversi gradi a quella d’un monastero, e che la vita del selvaggio non la si debba assolutamente sprezzare e condannare, come si costuma da noi che ci appelliamo gente civile, perché, avvezzi alla schiavitù, non ne sentiamo il peso e l’onta. Nell’esercito, nella carriera diplomatica, in quella degli impieghi, del commercio, dappertutto si riannoda una serie di vincoli, che cingono crudelmente le reni dell’uomo. Per me il più felice mortale è colui che possiede una casuccia al villaggio o tra le capanne dei pastori sulle alpi, e che è libero di lanciarsi a suo gusto nei tumulti e tra l’affettato servilismo delle città p di fuggirne i clamori, solitario come il leone del deserto, o come il re degli uccelli, che sfida del suo sguardo il sole». E ancora: «Che indefinibile miscuglio di contraddizioni è mai l’uomo! Io più penso all’avvilimento in cui giace supina la nostra razza, non so in braccio a qual diavolo mi caccerei dal dispetto. Appena potrò raggruzzolare la somma occorrente, voglio recarmi in pellegrinaggio tra le pelli-rosse dell’America per vedere coi miei occhi, se gli è proprio vero quanto di male ne dicono, o se pure è perfidia di stirpe civile, che pretende di educare il mondo a colpi di cannone».
Chapeau!
Dario Cercek
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