Calolzio, omicidio in stazione: la Corte 'lima' la condanna, 19 anni la pena finale
La Giustizia si è espressa: nel tardo pomeriggio odierno la Corte d'Assise di Como ha condannato Haruna Guebre a 19 anni di reclusione - contro i 26 chiesti del pubblico ministero - ritenendolo responsabile dell'omicidio volontario di Malcom Mazou Darga, il 23enne cresciuto a Airuno ma originario – come l'imputato – del Burkina Faso, raggiunto da alcune coltellate – una arrivata a toccargli il cuore – alla stazione ferroviaria di Calolzio lo scorso 29 agosto e spirato poi poco dopo l'arrivo all'ospedale di Lecco.
Ha giocato di lima la Corte, presieduta dal dottor Carlo Cecchetti: oltre alla seminfermità - attestata dal perito nominato dal Tribunale - ha riconosciuto all'imputato anche le generiche, facendo decadere altresì la contestata aggravante dei futili motivi.
Il verdetto è stato pronunciato nel tardo pomeriggio, dopo una giornata interamente dedicata a questa causa.
“NON VOLEVO UCCIDERE”
L'udienza odierna – la quarta dall'apertura di un processo celebrato dunque molto velocemente, condensando le sedute tra il 25 giugno e, appunto, quest'oggi – si è aperta con le spontanee dichiarazioni dell'imputato. “Non volevo uccidere” ha asserito il 25enne, prendendo la parola per la seconda volta dinnanzi alla Corte, dopo aver rinunciato, la settimana scorsa, a rendere esame e dunque a rispondere alle domande della parti.
Dando lettura di un testo preconfezionato, Guebre ha ribadito velocemente la propria versione dei fatti, sostenendo come la sua reazione violenta sia stata una risposta alla provocazione della vittima che avrebbe “nominato invano” sua madre.
Negata anche la volontà - ipotizzata dalla parte civile introducendo una testimone che ha portato in Aula un “sentito dire” secondo il quale conoscenti dell'imputato avevano, nell'immediatezza dell'omicidio, attivato una colletta consentire la fuga dello stesso – di far perdere le propri tracce, aggiungendo di essere stato sorpreso dagli uomini della Squadra Mobile in uscita dall'abitazione della fidanzata, lasciata per recarsi dal medico di base e ottenere dei calmanti che avrebbe voluto prendere, per tranquillizzarsi, prima di recarsi in Questura.
Una ricostruzione a cui non hanno creduto ne' la titolare della pubblica accusa, ne' il legale di parte civile, con quest'ultima, in rappresentanza dei genitori e delle sorelle della vittima, che ha giudicato tardivo anche il (presunto) pentimento del 25enne che, in coda alle proprie dichiarazioni ha aggiunto “vorrei non fosse mai successo”, in relazione all'uccisione del Mazou. “Ogni giorno prego per Darga e la sua famiglia. Spero un giorno riescano a perdonarmi, anche se io non riesco a perdonare me stesso”.
LA REQUISITORIA DEL PM
Ha rimesso in fila tutti i passaggi investigativi, nel rassegnare le proprie conclusioni, la dottoressa Chiara Di Francesco, PM di turno il giorno dell'omicidio, arrivata personalmente sulla banchina della stazione di Calolzio a poca distanza temporale dal fattaccio al centro del procedimento e “testimone oculare” dunque, tanto del sangue presente in gran quantità in stazione tanto delle meticolose ricerche dell'arma del delitto compiute dalla Polizia, senza riuscire a recuperare (ne' sul posto ne' altrove) il coltello utilizzato per colpire ripetutamente Darga, sotto gli occhi impietosi delle telecamere di sicurezza che, di fatto, riprendono tutta la scena, cristallizzando, a detta del sostituto procuratore, l'accaduto, dall'arrivo di Guebre fino al suo allontanamento a colpi già inferti alla controparte.
Essenziali poi, oltre ai filmati, anche le dichiarazioni del collega con cui l'imputato si trovava, presentatosi spontaneamente in Questura, qualche ora dopo l'omicidio, aiutando gli inquirenti non solo a dare un nome all'assassino, ma anche a dare una chiave interpretativa al diverbio scoppiato tra lo stesso e Darga, introducendo la richiesta di una sigaretta da parte di quest'ultimo quale elemento scatenante del botta e risposta andato animandosi tra i due, fino alle coltellate, inferte a detta del testimone con un “Opinel” del manico giallo, come quello immortalato in una foto trovata poi dal perito nominato dalla titolare della pubblica accusa nel cellulare dell'imputato.
“Oggi ci dice “io non volevo uccidere”. Io non ritengo che questa affermazione sia vera” ha aggiunto ancora la dottoressa Di Francesco, passando a “motivare” il perché della contestazione dell'omicidio volontario e dunque la sussistenza della volontà di cagionare la morte, sulla base tanto degli esiti dell'autopsia tanto della condotta post fatto. Citate così le sei ferite da taglio riscontrare dal medico legale, due da difesa, due arrivate in profondità, una all'altezza dell'arteria femorale, l'altra con movimento della lama dal basso verso l'altro, dalla zona addominale al cuore.
“Ritengo che anche un bambino delle scuole elementari sia a conoscenza che un colpo al petto sia pericoloso in quanto centro vitale del nostro corpo. Quando si colpisce al petto non si vuole soltanto ledere”.
Ritenuta dunque corretta la qualificazione giuridica, la PM ha ritenuto non concedibili – anche per il comportamento tenuto dall'imputato – le attenuanti generiche, allineandosi pur con qualche perplessità alla consulenza psichiatrica che ha riconosciuto un vizio di mente, da controbilanciare però, nel calcolo finale della pena, con la contestata aggravante – quella dei futili motivi – per il magistrato assolutamente sussistente, soprattutto alla luce del fatto che scandagliando i rapporti tra assassino e vittima – che evidentemente si conoscevano, come ricostruito attraverso i testimoni introdotti durante l'istruttoria – non sono emersi altri possibili movimenti.
Da qui i 26 anni di reclusione chiesti a chiusura del cerchio.
LA PARTE CIVILE
Sulla conoscenza tra i due – di fatto quasi negata da Guebre nelle sue parole - ha insistito anche l'avvocato Samantha Sacchetti, chiamata a concludere anche in rappresentanza del collega Antonio Caminiti, quali legali della famiglia Darga.
Nel suo appassionato monologo la toga monzese ha cercato in primis di “riabilitare” la vittima, etichettando come reati bagatellari quelli che punteggiano il suo casellario giudiziario, a confronto della gravità delle accuse oggetto di questo procedimento, descrivendo altresì – attraverso le dichiarazioni rese della madre in Aula - Mazou come tranquillo negli istanti precedenti il suo omicidio, per screditare così la tesi della provocazione.
Sulla scia della ricostruzione del PM, anche l'avvocato Sacchetti si è detta convinta del fatto che il 25enne abbia colpito “assumendosi il rischio che la morte sarebbe potuta sopraggiungere, con alta probabilità”, bollando come un insulto all'intelligenza delle parti alcune dichiarazioni rese da Guebre, nonché le sue spiegazioni come tardive, volte “a impietosire questa corte”. “Ha cercato di vittimizzarsi da solo” ha altresì aggiunto, con riferimento anche a quanto raccontato dal burkinabé allo psichiatra che lo ha visitato, con l'elaborato depositato dal professionista ritenuto poi dalla parte civile “superficiale, incompleto e contraddittorio”, perché basato su una mera osservazione di poche ore in carcere senza prendere in considerazioni precedenti relazioni (che non ci sono) e senza sottoporre l'imputato a test per dare un riscontro scientifico alle conclusioni; perché del disturbo esplosivo intermittente evidenziato da Molteni non vi è “riprova” in precedenti denunce essendo di fatto incensurato, tranne per un porto d'arma; perché la sequenza immortalata dalle telecamere esclude il “raptus”, con Guebre che litiga, apre lo zaino, prende il coltello, se lo infila in tasca dei pantaloni, prosegue a discutere e solo poi riprende la lama e colpisce, più volte.
LA DIFESA
Si sono divisi i compiti i legali dell'imputato, quando è stato il loro turno. Fredda e analitica, Ilaria Guglielmana, ha snocciolato, anche in punto di diritto, le ragioni per le quali la difesa è arrivata poi a chiedere la derubricazione da omicidio volontario a preterintenzionale, ritenendo credibile quel “non volevo uccidere” sostenuto dall'assistito, così come sussistente la provocazione, con Darga andato a toccare dunque un nervo scoperto di Guebre, innescando la sua reazione fuori controllo, frutto di quel vizio di mente in riferimento al quale è stata chiesta la disapplicazione dell'aggravante in quanto “incompatibile secondo giurisprudenza”.
Più teatrale, Marilena Guglielmana, secondo la quale in questa vicenda ci sono due morti, non uno.
“Quello che purtroppo non c'è più e quello che è vivo, ma è morto dentro. Non è vero come vorrebbe far credere la parte civile che il pentimento non è sincero” ha altresì aggiunto, raccontando anche delle lacrime versate in carcere dal 25enne, per poi ricostruirne il vissuto difficile. Nato in Burkina, portato in Italia a 12 anni dal padre, lasciando l'amata mamma (mai più rivista), non sarebbe stato seguito nella sua crescita, manifestando già a scuola – come detto da una insegnante sentita durante il processo – scatti d'ira che avrebbero – a detta del legale – meritato le attenzioni del padre, mentre a una “diagnosi” si è arrivati solo con la perizia psichiatrica che, tra l'altro, è andata a confermare le conclusioni anche del consulente di parte, escusso in apertura dell'istruttoria.
“Vogliamo credere agli psichiatri o no?” la domanda posta dunque della penalista lecchese, tornata anche a evidenziare non solo le “fragilità” del suo cliente, ma anch quelle della vittima, descritta – fisicamente – come ben più massiccia di Guebre, a giustificazione anche del movimento dal basso verso l'alto del coltello, significativo per la pubblica accusa della volontà di uccidere.
IL COMMENTO
"Siamo partite da una imputazione per omicidio volontario con l'aggravante dei futili motivi che ci ha precluso la possibilità di chiedere il rito abbreviato - come da recente normativa - e con un ergastolo già in tasca, vista la gravità degli accadimenti, immortalati dalle tante telecamere presenti alla stazione di Calolzio, presidiata, tra l'altro, nel momento dell'accoltellamento dalla Polizia. A fronte dei 26 anni chiesti poi dal PM, possiamo dirci, per ora abbastanza soddisfatte della sentenza odierna" il commento dei difensori Ilaria e Marilena Guglielmana. "Attendiamo però le motivazioni della sentenza".
Un milione di euro il risarcimento complessivamente stabilito in favore dei genitori e delle due sorelle della vittima.
Ha giocato di lima la Corte, presieduta dal dottor Carlo Cecchetti: oltre alla seminfermità - attestata dal perito nominato dal Tribunale - ha riconosciuto all'imputato anche le generiche, facendo decadere altresì la contestata aggravante dei futili motivi.
Il verdetto è stato pronunciato nel tardo pomeriggio, dopo una giornata interamente dedicata a questa causa.
“NON VOLEVO UCCIDERE”
L'udienza odierna – la quarta dall'apertura di un processo celebrato dunque molto velocemente, condensando le sedute tra il 25 giugno e, appunto, quest'oggi – si è aperta con le spontanee dichiarazioni dell'imputato. “Non volevo uccidere” ha asserito il 25enne, prendendo la parola per la seconda volta dinnanzi alla Corte, dopo aver rinunciato, la settimana scorsa, a rendere esame e dunque a rispondere alle domande della parti.
Dando lettura di un testo preconfezionato, Guebre ha ribadito velocemente la propria versione dei fatti, sostenendo come la sua reazione violenta sia stata una risposta alla provocazione della vittima che avrebbe “nominato invano” sua madre.
Negata anche la volontà - ipotizzata dalla parte civile introducendo una testimone che ha portato in Aula un “sentito dire” secondo il quale conoscenti dell'imputato avevano, nell'immediatezza dell'omicidio, attivato una colletta consentire la fuga dello stesso – di far perdere le propri tracce, aggiungendo di essere stato sorpreso dagli uomini della Squadra Mobile in uscita dall'abitazione della fidanzata, lasciata per recarsi dal medico di base e ottenere dei calmanti che avrebbe voluto prendere, per tranquillizzarsi, prima di recarsi in Questura.
Una ricostruzione a cui non hanno creduto ne' la titolare della pubblica accusa, ne' il legale di parte civile, con quest'ultima, in rappresentanza dei genitori e delle sorelle della vittima, che ha giudicato tardivo anche il (presunto) pentimento del 25enne che, in coda alle proprie dichiarazioni ha aggiunto “vorrei non fosse mai successo”, in relazione all'uccisione del Mazou. “Ogni giorno prego per Darga e la sua famiglia. Spero un giorno riescano a perdonarmi, anche se io non riesco a perdonare me stesso”.
LA REQUISITORIA DEL PM
Ha rimesso in fila tutti i passaggi investigativi, nel rassegnare le proprie conclusioni, la dottoressa Chiara Di Francesco, PM di turno il giorno dell'omicidio, arrivata personalmente sulla banchina della stazione di Calolzio a poca distanza temporale dal fattaccio al centro del procedimento e “testimone oculare” dunque, tanto del sangue presente in gran quantità in stazione tanto delle meticolose ricerche dell'arma del delitto compiute dalla Polizia, senza riuscire a recuperare (ne' sul posto ne' altrove) il coltello utilizzato per colpire ripetutamente Darga, sotto gli occhi impietosi delle telecamere di sicurezza che, di fatto, riprendono tutta la scena, cristallizzando, a detta del sostituto procuratore, l'accaduto, dall'arrivo di Guebre fino al suo allontanamento a colpi già inferti alla controparte.
Essenziali poi, oltre ai filmati, anche le dichiarazioni del collega con cui l'imputato si trovava, presentatosi spontaneamente in Questura, qualche ora dopo l'omicidio, aiutando gli inquirenti non solo a dare un nome all'assassino, ma anche a dare una chiave interpretativa al diverbio scoppiato tra lo stesso e Darga, introducendo la richiesta di una sigaretta da parte di quest'ultimo quale elemento scatenante del botta e risposta andato animandosi tra i due, fino alle coltellate, inferte a detta del testimone con un “Opinel” del manico giallo, come quello immortalato in una foto trovata poi dal perito nominato dalla titolare della pubblica accusa nel cellulare dell'imputato.
“Oggi ci dice “io non volevo uccidere”. Io non ritengo che questa affermazione sia vera” ha aggiunto ancora la dottoressa Di Francesco, passando a “motivare” il perché della contestazione dell'omicidio volontario e dunque la sussistenza della volontà di cagionare la morte, sulla base tanto degli esiti dell'autopsia tanto della condotta post fatto. Citate così le sei ferite da taglio riscontrare dal medico legale, due da difesa, due arrivate in profondità, una all'altezza dell'arteria femorale, l'altra con movimento della lama dal basso verso l'altro, dalla zona addominale al cuore.
“Ritengo che anche un bambino delle scuole elementari sia a conoscenza che un colpo al petto sia pericoloso in quanto centro vitale del nostro corpo. Quando si colpisce al petto non si vuole soltanto ledere”.
Ritenuta dunque corretta la qualificazione giuridica, la PM ha ritenuto non concedibili – anche per il comportamento tenuto dall'imputato – le attenuanti generiche, allineandosi pur con qualche perplessità alla consulenza psichiatrica che ha riconosciuto un vizio di mente, da controbilanciare però, nel calcolo finale della pena, con la contestata aggravante – quella dei futili motivi – per il magistrato assolutamente sussistente, soprattutto alla luce del fatto che scandagliando i rapporti tra assassino e vittima – che evidentemente si conoscevano, come ricostruito attraverso i testimoni introdotti durante l'istruttoria – non sono emersi altri possibili movimenti.
Da qui i 26 anni di reclusione chiesti a chiusura del cerchio.
LA PARTE CIVILE
Sulla conoscenza tra i due – di fatto quasi negata da Guebre nelle sue parole - ha insistito anche l'avvocato Samantha Sacchetti, chiamata a concludere anche in rappresentanza del collega Antonio Caminiti, quali legali della famiglia Darga.
Nel suo appassionato monologo la toga monzese ha cercato in primis di “riabilitare” la vittima, etichettando come reati bagatellari quelli che punteggiano il suo casellario giudiziario, a confronto della gravità delle accuse oggetto di questo procedimento, descrivendo altresì – attraverso le dichiarazioni rese della madre in Aula - Mazou come tranquillo negli istanti precedenti il suo omicidio, per screditare così la tesi della provocazione.
Sulla scia della ricostruzione del PM, anche l'avvocato Sacchetti si è detta convinta del fatto che il 25enne abbia colpito “assumendosi il rischio che la morte sarebbe potuta sopraggiungere, con alta probabilità”, bollando come un insulto all'intelligenza delle parti alcune dichiarazioni rese da Guebre, nonché le sue spiegazioni come tardive, volte “a impietosire questa corte”. “Ha cercato di vittimizzarsi da solo” ha altresì aggiunto, con riferimento anche a quanto raccontato dal burkinabé allo psichiatra che lo ha visitato, con l'elaborato depositato dal professionista ritenuto poi dalla parte civile “superficiale, incompleto e contraddittorio”, perché basato su una mera osservazione di poche ore in carcere senza prendere in considerazioni precedenti relazioni (che non ci sono) e senza sottoporre l'imputato a test per dare un riscontro scientifico alle conclusioni; perché del disturbo esplosivo intermittente evidenziato da Molteni non vi è “riprova” in precedenti denunce essendo di fatto incensurato, tranne per un porto d'arma; perché la sequenza immortalata dalle telecamere esclude il “raptus”, con Guebre che litiga, apre lo zaino, prende il coltello, se lo infila in tasca dei pantaloni, prosegue a discutere e solo poi riprende la lama e colpisce, più volte.
LA DIFESA
Si sono divisi i compiti i legali dell'imputato, quando è stato il loro turno. Fredda e analitica, Ilaria Guglielmana, ha snocciolato, anche in punto di diritto, le ragioni per le quali la difesa è arrivata poi a chiedere la derubricazione da omicidio volontario a preterintenzionale, ritenendo credibile quel “non volevo uccidere” sostenuto dall'assistito, così come sussistente la provocazione, con Darga andato a toccare dunque un nervo scoperto di Guebre, innescando la sua reazione fuori controllo, frutto di quel vizio di mente in riferimento al quale è stata chiesta la disapplicazione dell'aggravante in quanto “incompatibile secondo giurisprudenza”.
Più teatrale, Marilena Guglielmana, secondo la quale in questa vicenda ci sono due morti, non uno.
“Quello che purtroppo non c'è più e quello che è vivo, ma è morto dentro. Non è vero come vorrebbe far credere la parte civile che il pentimento non è sincero” ha altresì aggiunto, raccontando anche delle lacrime versate in carcere dal 25enne, per poi ricostruirne il vissuto difficile. Nato in Burkina, portato in Italia a 12 anni dal padre, lasciando l'amata mamma (mai più rivista), non sarebbe stato seguito nella sua crescita, manifestando già a scuola – come detto da una insegnante sentita durante il processo – scatti d'ira che avrebbero – a detta del legale – meritato le attenzioni del padre, mentre a una “diagnosi” si è arrivati solo con la perizia psichiatrica che, tra l'altro, è andata a confermare le conclusioni anche del consulente di parte, escusso in apertura dell'istruttoria.
“Vogliamo credere agli psichiatri o no?” la domanda posta dunque della penalista lecchese, tornata anche a evidenziare non solo le “fragilità” del suo cliente, ma anch quelle della vittima, descritta – fisicamente – come ben più massiccia di Guebre, a giustificazione anche del movimento dal basso verso l'alto del coltello, significativo per la pubblica accusa della volontà di uccidere.
IL COMMENTO
"Siamo partite da una imputazione per omicidio volontario con l'aggravante dei futili motivi che ci ha precluso la possibilità di chiedere il rito abbreviato - come da recente normativa - e con un ergastolo già in tasca, vista la gravità degli accadimenti, immortalati dalle tante telecamere presenti alla stazione di Calolzio, presidiata, tra l'altro, nel momento dell'accoltellamento dalla Polizia. A fronte dei 26 anni chiesti poi dal PM, possiamo dirci, per ora abbastanza soddisfatte della sentenza odierna" il commento dei difensori Ilaria e Marilena Guglielmana. "Attendiamo però le motivazioni della sentenza".
Un milione di euro il risarcimento complessivamente stabilito in favore dei genitori e delle due sorelle della vittima.
A.M.