Lecco: cinema e vino. Sergio Zingarelli racconta papà Italo e il suo capolavoro “Trinità”
È stato Sergio Zingarelli, presidente dell’importante cantina di Chianti Classico “Rocca delle Macìe” e figlio del regista e produttore cinematografico Italo Zingarelli l’ospite della seconda serata del Lecco Film Fest, manifestazione sostenuta da Confindustria Lecco-Sondrio apertasi il 1° luglio e in programma fino alla prossima domenica.
Con don Davide Milani, presidente di Fondazione Ente dello Spettacolo e promotore del festival, e il disegnatore di idee Giacomo Mojoli, Zingarelli ha ripercorso la vita del padre, raccontato il suo successo nel mondo del cinema e la genesi di uno dei suoi più grandi capolavori cinematografici – Lo chiamavano Trinità –, fino ad arrivare al suo innamoramento per il vino. A fare da cornice all’interessante chiacchierata è stato il Chiostro della Canonica.
Il segreto del regista e produttore cinematografico, secondo Giacomo Mojoli, è sempre stato quello di “riuscire a rendere eccezionali le cose normali”, ed è così che, nonostante negli anni ’60 e ’70 fare cinema fosse una grande sfida, Zingarelli è invece riuscito con successo. Questo nonostante la sua vita, come raccontato dal figlio Sergio, non sia stata semplice. “Aveva perso suo padre e suo fratello in giovane età. È cresciuto con sua madre e ha iniziato a praticare boxe” ha detto, ricordando un incontro durante una finale di pesi medio massimi in cui il padre si distrasse un secondo e finì al tappeto. “Da quella volta smise con la boxe, ma poco dopo venne scelto come stunt-man per la sua stazza ed entrò così nel mondo del cinema”. Fu il film “Quo Vadis?” del 1951 di Mervyn LeRoy la prima pellicola in cui comparve Zingarelli.
A poco a poco, facendosi strada, divenne aiutante del direttore di produzione, finché una donna, moglie del presidente di un Centro Culturale Spagnolo non si innamorò di lui e gli concesse di produrre il suo primo film. Dal 1954 iniziò quindi la sua carriera. Da lì al 1969 lavorò complessivamente a 18 lungometraggi, finché poi non ricevette la proposta di realizzarne uno ‘rifiutato’. “Enzo Barboni aveva presentato ‘Lo chiamavano Trinità’ a una cerchia di produttori romani, ma ricevette molti ‘no’. Mio padre invece ha detto subito sì ed è stato il suo film di maggior successo”.
Secondo don Davide Milani, è stato tutto nel fatto che Zingarelli andasse contro il classico cliché del produttore. “Prima ancora di essere produttore, Italo era un uomo che ha attraversato il Novecento e la guerra e ha vissuto la famiglia come faro. Quando c'è una persona che ha vissuto così la vita, è chiaro che escono dei capolavori”. Ma non è stato solo questo. “Ero piccolo quando è uscito il film” ha proseguito il Monsignore riprendendo il titolo della festival: “Signora libertà”. “Ai tempi non c’era il politically correct. La violenza era violenza davvero nei film, c’era la libertà di esprimere. Zingarelli però prende il genere western e lo svuota dal di dentro”. Si passò così dal glorioso western all’italiana di grandi come Sergio Leone, il cosiddetto ‘Spaghetti western’, al ‘Fagioli western’. “Un genere che ci fa ridere, un genere in cui la violenza sparisce e diventa caricatura, ma non un parodia. Trinità è un film serio in cui si parla della vita, di gente che ha fame, di donne, di fratelli che si devono ricongiungere. Ma è un film per famiglie”.
Si deve a “Lo chiamavano Trinità” anche la nascita di un duo destinato a durare per sempre: Bud Spencer e Terence Hill. “Durante la realizzazione del film ci furono anche dei ‘no’ da parte degli attori, ma se ne trovarono due che avevano già lavorato insieme e che vennero trasformati in un’unità con un matrimonio artistico”. Zingarelli fu talmente entusiasta del film che chiese a Enzo Barboni di scrivere anche il sequel. Ne uscì nel 1971 “..continuavano a chiamarlo Trinità”.
L’azienda negli anni è passata nelle mani di Sergio Zingarelli e dei suoi fratelli, che in occasione dei 50 anni dall’uscita di “Lo chiamavano Trinità” hanno voluto celebrare il più grande successo di papà Italo, spentosi nel 2000, con un’edizione limitata di 1970 Magnum Chianti Classico Gran Selezione, creato proprio con le viti proveniente dal primo terreno acquistato da Zingarelli. Al termine della serata, prima della proiezione di “Trinità” presso il Cinema Nuovo Aquilone, a tutto il pubblico è stato offerto un bicchiere del pregiato vino.
Con don Davide Milani, presidente di Fondazione Ente dello Spettacolo e promotore del festival, e il disegnatore di idee Giacomo Mojoli, Zingarelli ha ripercorso la vita del padre, raccontato il suo successo nel mondo del cinema e la genesi di uno dei suoi più grandi capolavori cinematografici – Lo chiamavano Trinità –, fino ad arrivare al suo innamoramento per il vino. A fare da cornice all’interessante chiacchierata è stato il Chiostro della Canonica.
Il segreto del regista e produttore cinematografico, secondo Giacomo Mojoli, è sempre stato quello di “riuscire a rendere eccezionali le cose normali”, ed è così che, nonostante negli anni ’60 e ’70 fare cinema fosse una grande sfida, Zingarelli è invece riuscito con successo. Questo nonostante la sua vita, come raccontato dal figlio Sergio, non sia stata semplice. “Aveva perso suo padre e suo fratello in giovane età. È cresciuto con sua madre e ha iniziato a praticare boxe” ha detto, ricordando un incontro durante una finale di pesi medio massimi in cui il padre si distrasse un secondo e finì al tappeto. “Da quella volta smise con la boxe, ma poco dopo venne scelto come stunt-man per la sua stazza ed entrò così nel mondo del cinema”. Fu il film “Quo Vadis?” del 1951 di Mervyn LeRoy la prima pellicola in cui comparve Zingarelli.
A poco a poco, facendosi strada, divenne aiutante del direttore di produzione, finché una donna, moglie del presidente di un Centro Culturale Spagnolo non si innamorò di lui e gli concesse di produrre il suo primo film. Dal 1954 iniziò quindi la sua carriera. Da lì al 1969 lavorò complessivamente a 18 lungometraggi, finché poi non ricevette la proposta di realizzarne uno ‘rifiutato’. “Enzo Barboni aveva presentato ‘Lo chiamavano Trinità’ a una cerchia di produttori romani, ma ricevette molti ‘no’. Mio padre invece ha detto subito sì ed è stato il suo film di maggior successo”.
Secondo don Davide Milani, è stato tutto nel fatto che Zingarelli andasse contro il classico cliché del produttore. “Prima ancora di essere produttore, Italo era un uomo che ha attraversato il Novecento e la guerra e ha vissuto la famiglia come faro. Quando c'è una persona che ha vissuto così la vita, è chiaro che escono dei capolavori”. Ma non è stato solo questo. “Ero piccolo quando è uscito il film” ha proseguito il Monsignore riprendendo il titolo della festival: “Signora libertà”. “Ai tempi non c’era il politically correct. La violenza era violenza davvero nei film, c’era la libertà di esprimere. Zingarelli però prende il genere western e lo svuota dal di dentro”. Si passò così dal glorioso western all’italiana di grandi come Sergio Leone, il cosiddetto ‘Spaghetti western’, al ‘Fagioli western’. “Un genere che ci fa ridere, un genere in cui la violenza sparisce e diventa caricatura, ma non un parodia. Trinità è un film serio in cui si parla della vita, di gente che ha fame, di donne, di fratelli che si devono ricongiungere. Ma è un film per famiglie”.
Si deve a “Lo chiamavano Trinità” anche la nascita di un duo destinato a durare per sempre: Bud Spencer e Terence Hill. “Durante la realizzazione del film ci furono anche dei ‘no’ da parte degli attori, ma se ne trovarono due che avevano già lavorato insieme e che vennero trasformati in un’unità con un matrimonio artistico”. Zingarelli fu talmente entusiasta del film che chiese a Enzo Barboni di scrivere anche il sequel. Ne uscì nel 1971 “..continuavano a chiamarlo Trinità”.
Il produttore cinematografico continuò a lavorare nel mondo del cinema, ma nel frattempo scoppiò in lui un’altra passione. Quella per il vino. “Nel ’73 andò in Toscana per cercare una fattoria da acquistare” ha raccontato il figlio Sergio. Accadde così che acquistò un borgo del 1300 vicino a Castellina in Chianti. Lo recuperò e diede vita insieme alla moglie a un’azienda vitivinicola: Rocca delle Macìe. “Condurre una cantina importante non è solo poesia, è anche capacità di aver cura del progetto e avere grande visione” ha detto Giacomo Mojoli, spigando che la stessa attenzione ai dettagli che Zingarelli aveva nel fare film, l’ha applicata anche nel progetto vitivinicolo.
L’azienda negli anni è passata nelle mani di Sergio Zingarelli e dei suoi fratelli, che in occasione dei 50 anni dall’uscita di “Lo chiamavano Trinità” hanno voluto celebrare il più grande successo di papà Italo, spentosi nel 2000, con un’edizione limitata di 1970 Magnum Chianti Classico Gran Selezione, creato proprio con le viti proveniente dal primo terreno acquistato da Zingarelli. Al termine della serata, prima della proiezione di “Trinità” presso il Cinema Nuovo Aquilone, a tutto il pubblico è stato offerto un bicchiere del pregiato vino.
E.Ma.