SCAFFALE LECCHESE/209: Francesca Manzoni, una vita breve ma che lasciò il segno
Poco sanno i lecchesi della poetessa Francesca Manzoni, per quanto immortalata dalla toponomastica cittadina: le è infatti intitolata una breve ma popolosa via a fondo cieco nel rione di San Giovanni. Per la precisione San Giovanni alla Castagna, secondo l’antica denominazione. E dove qualche traccia pur rimane: per esempio, la casa di famiglia sulla collina di Cereda dove morì a soli 33 anni e la chiesa parrocchiale nella quale fu sepolta accanto al padre morto pochi anni prima. Angelo Rusconi, musicologo - e in sovrappiù abitante a San Giovanni dove presiede la storica banda del quartiere -, ci dice che negli ultimi tempi si sta assistendo a un risveglio di attenzione nei confronti della vita e dell’opera della letterata lecchese. Una riscoperta. Però, va detto, si resta pur sempre nella ristretta cerchia degli studiosi. Del resto si tratta di una figura di solito confinata in poche righe di saggi specialistici e solo i cultori del Settecento lombardo ne hanno davvero contezza. La stessa sua opera è praticamente scomparsa. Sopravviveva una tragedia che ne consacrò la memoria: introvabile nelle biblioteche, può essere reperita attraverso alcuni archivi digitali disponibili in internet. Anche se recenti ricerche qualche sorpresa l’hanno riservata.
Nella sua guida del lago di Como, pubblicata nel 1877, il bellanese Antonio Balbiani collocava Francesca Manzoni tra le glorie di Barzio: « Dotata di maschile memoria, dotta in greco, latino, francese, spagnuolo, geometria e giurisprudenza, autrice di un dramma per musica e d’una tragedia fra le altre che può ancora esser letta dopo quelle dell’immortale Astigiano (Vittorio Alfieri, ndr), ascritta a varie accademie, moglie a Luigi Giusti veneziano e letterato in allora di qualche grido, madre d’un figlio che coprì luminose cariche e fu gentil poeta; Cesare Alfonso Manzoni, padre della poetessa, che ebbe nome fra i giuristi, difendendo le ragioni territoriali della sua patria contro alcune pretensioni dei lecchesi».
I natali barziesi, accreditati dallo storico valsassinese Giuseppe Arrigoni, non sono assodati; altri opterebbero per una nascita milanese. Del resto, all’epoca, andava così: le famiglie nobili e borghesi si dividevano tra diversi domicili secondo stagioni e necessità. E Francesca Manzoni – stando all’Arrigoni - «soleva passar l’inverno a Milano e le altre stagioni a Barzio ed alla sua villa di Cereda presso Lecco». E ciò poteva indurre in confusione.
Naturalmente, le radici barziesi, evocano legami con Alessandro Manzoni. Già nel 1875, il “risorgimentale” Felice Venosta (“Il Manzoni. L’amico della famiglia”) scriveva: «Il padre di Alessandro non era certamente uomo dotto, anzi vuolsi poco colto; ma nei Manzoni, famiglia originaria dal territorio di Lecco e della Valsassina, si hanno persone di lettere. Possiamo citare la poetessa Francesca (…) socia di più Accademie, la quale fu autrice di parecchie tragedie sacre». Però, proprio Alessandro – ci ricorda lo stesso Venosta – in una lettera a Carlo Morbio scriveva d’avere con Francesca «in comune soltanto il cognome». Il fatto è che Alessandro «non sapeva di appartenere alla stessa famiglia di Francesca»: così, scrive Felice Milani, autore di un saggio pubblicato sul “Bollettino della Società Pavese di Storia Patria” e ripreso dai nostri “Archivi di Lecco” (il numero 3 del 2000) dal quale peraltro attingiamo gran parte delle informazioni biografiche.
Milani si appoggia a Cesare Arieti (curatore dell’opera omnia manzoniana pubblicata da Mondadori), il quale «riporta uno specchietto genealogico che attesta la comune discendenza di Pietro (il padre dello scrittore, ndr) e di Francesca da un Giacomo Manzoni, morto intorno al 1606» Per quel che può significare. Cioè, nulla. Tanto più che, sappiamo, a Pietro Manzoni, lo scrittore deve il cognome e non il sangue. Se poi questo sia davvero garanza nel tramandare virtù (o vizi), non sappiamo.
Comunque Francesca Manzoni si avvicinò fin da giovanissima alla letteratura classica, frequentando poi gli ambienti letterari milanesi, partecipando all’attività delle accademie allora in voga. Erano i tempi dell’Arcadia con la nostra poetessa che scelse lo pseudonimo di Fenicia Lampeatica. Non è un caso, che il filosofo francese Charles De Brosses di passaggio alla Biblioteca Ambrosiana nel luglio 1739 scrisse in una lettera: «Trovai strano di vedere una donna lavorare in mezzo a un mucchio di libri latini: è la signora Manzoni, che ha il titolo di poetessa dell’imperatrice».
All’epoca aveva già pubblicato la tragedia “L’Ester”, stampata a Verona nel 1733 con una dedica all’imperatrice Elisabetta Cristina sposa di Carlo VI d’Asburgo. Le frequentazioni accademiche la portarono a incontrare Luigi Giusti, letterato veneziano che aveva lasciato la laguna forse per difficoltà economiche ed era venuto a stare a Milano nel 1734. La leggenda vuole che l’idillio sarebbe nato nel palazzo di Malgrate del canonico Giuseppe Candido Agudio, frequentato e quotato cenobio culturale. Il canonico, inoltre, commissionò al pittore Benigno Bossi i ritratti di diversi “accademici” tra i quali appunto Francesca Manzoni: oggi è l’unico ritratto che conosciamo della poetessa ed è conservato alla Pinacoteca Ambrosiana.
Francesca e Luigi si sarebbero sposati nel 1741. Evidentemente, però, il destino aveva altri progetti: nel 1742, Francesca diede alla luce quel Pietro Paolo ricordato da Balbiani quale “gentil poeta”; nel 1743, la secondogenita Angiola, ma il parto fu seguito da una serie di complicazioni che in pochi giorni portarono la madre alla morte, nella casa di Cereda: era il 28 giugno, dunque di questi giorni poco meno di trecento anni fa. I registri parrocchiali di San Giovanni (alcune pagine dei quali sono state pubblicate nel 2022 a cura di Giampiero Grasso e Renato Spreafico nel libro “Il tempo ritrovato”) riportano che la nobile signora Francesca Manzoni «non meno pia che assai celebre per il suo ingegno e sapere in maniera anche poetica, è morta di febbre neutra. (…) Fu seppellita il giorno seguente con l’intervento di vari sacerdoti e con il concorso grande di popolo in questa Chiesa parrocchiale davanti all’altare della Beatissima Vergine Addolorata come ella stessa lasciò di fare». Peraltro «senza che una modesta lapide additi il luogo in cui giacciono le ossa di così ragguardevole donna» avrebbe osservato un critico ottocentesco. Un visitatore ignaro, infatti, ancora oggi non si accorgerebbe di nulla.
Per il marito fu un duro colpo. Il Dizionario biografico della Treccani ci dice che «la morte della giovane sposa mutò radicalmente la sua esistenza: addoloratissimo si fece consacrare sacerdote». Dopo di che, «nell’agosto 1745 divenne segretario del ministro plenipotenziario della Lombardia austriaca». Se ne andò infine a Vienna, portandosi tutte le carte di famiglia, comprese quelle riguardanti la consorte. Morì nel 1766 e «per lo stato malandato delle sue finanze i funerali avvennero a spese di Maria Teresa, che pure non gli aveva risparmiato alcune critiche, imputando alle sue innovazioni il malcontento delle popolazioni lombarde».
La morte prematura è probabilmente causa dell’oblio in cui l’opera di Francesca Manzoni è finita. Fosse vissuta più a lungo, avrebbe lasciato tracce più profonde, chissà. Resta comunque il fatto che la considerazione di cui godette all’epoca nel mondo intellettuale fu notevole. Almeno nell’ambito milanese. Nella prima metà del Settecento, non era sorte comune per una donna. Oltre a un’indubbia apertura mentale paterna, dobbiamo immaginare una giovane Francesca consapevole delle proprie doti e dal carattere determinato. Quello stesso suo progetto, straordinariamente immenso, di una storia delle donne erudite qualcosa pur suggerisce. Pur non volendo necessariamente ritenerla una precorritrice di istanze emancipatorie o addirittura una protofemminista.A ricordarla rimane soprattutto quella tragedia in cinque atti dedicata al personaggio biblico di Ester, la fanciulla ebrea finita nell’harem del re babilonese durante l’esilio del proprio popolo. Non ne raccontiamo le vicende. Così come, non avendone le competenze, non setacciamo il testo della tragedia. E’ però necessario sottolinearne la robustezza intellettuale. E’ argomento che l’autrice ha approfondito con acribia, come ella stessa spiega in una lunga introduzione: se al testo biblico «io attenuta mi fossi, e non avessi voluto della profana storia qualche circostanza introdurvi, più agevole sariami stato la mia composizione formare». E quindi approfondimenti, confronti tra diverse fonti e interpretazioni. Con le difficoltà dell’epoca. Se si pensa che sullo stesso argomento si era cimentato anche il grande drammaturgo francese Jean Racine: la sua “Ester” venne rappresentata per la prima volta nel 1689.Eppure, quasi mezzo secolo dopo e cioè nel 1733, Francesca Manzoni scriverà d’esserne al corrente ma di non conoscere l’opera: «Benché io veduta non abbia, ottima cosa suppongo». Inoltre, si rendeva conto che la tragedia fosse cimento particolare per una studiosa ancora ventiduenne: «Gli si parrà, non ha dubbio, cosa nuova, ed insolita, e per cui anzi che no, taccia venir debbami imposta di sconsigliata, e soverchiamente ardita, ch’io di sì poca esperienza dotata, e di quello studio non per anco adorna, che si richiede, abbia l’animo mio rivolto alla tragica Poesia, che per giudizi dei dotti uomini fu mai sempre il più sublime, e difficile componimento riputata».
«Sempre su argomento biblico – scrive ancora Milani – la Manzoni scrisse alcune “azioni sacre” per musica, da cantarsi nella cappella dell’imperatore Carlo VI, stampate a Vienna tra il 1734 e il 1738. A Milano pubblicò una “Vita” di Suor Giovanna Eustachia della Croce; premise due canti alla vita del cappuccino Visconti. (…) Poesia italiane e latine della Manzoni compaiono in moltissime raccolte. Studiò la geometria e la filosofia; mise insieme materiali per stendere una “Storia universale di tutte le donne erudite d’ogni secolo e d’ogni nazione”; scrisse dissertazioni italiane e latine su vari argomenti di erudizione. Si accingeva a tradurre in italiano tutto Euripide» e scrisse anche poesie in dialetto milanese. Ritrovate a Rovereto, ormai più di vent’anni fa proprio da Felice Milani. Che spiega: cinque sonetti (di cui tre autografi) e altrettanti componimenti più lunghi nei quali «l’autrice assume la maschera di “Baltraminna”, desunta dalle commedie milanesi di Carlo Maria Maggi, trasformandola da personaggio popolare, emblema della poesia milanese, in emblema della donna letterata. Potremmo definirli “baltraminate” secondo l’indicazione della stessa Manzoni».
Milani ha pure curato la voce su Francesca Manzoni in quell’imponente opera che è “La letteratura dialettale milanese” uscita per l’editore Salerno nel 2022 con la curatela di Silvia Morgana: due tomi molto specialistici per complessive 1500 pagine. Si parte da Bonvesin de la Riva per arrivare a Enzo Jannacci. Oltre ottanta autori, tra i quali c’è una sola presenza femminile: appunto Francesca Manzoni. Una riscoperta, già. E sotto una luce nuova.
Nella sua guida del lago di Como, pubblicata nel 1877, il bellanese Antonio Balbiani collocava Francesca Manzoni tra le glorie di Barzio: « Dotata di maschile memoria, dotta in greco, latino, francese, spagnuolo, geometria e giurisprudenza, autrice di un dramma per musica e d’una tragedia fra le altre che può ancora esser letta dopo quelle dell’immortale Astigiano (Vittorio Alfieri, ndr), ascritta a varie accademie, moglie a Luigi Giusti veneziano e letterato in allora di qualche grido, madre d’un figlio che coprì luminose cariche e fu gentil poeta; Cesare Alfonso Manzoni, padre della poetessa, che ebbe nome fra i giuristi, difendendo le ragioni territoriali della sua patria contro alcune pretensioni dei lecchesi».
I natali barziesi, accreditati dallo storico valsassinese Giuseppe Arrigoni, non sono assodati; altri opterebbero per una nascita milanese. Del resto, all’epoca, andava così: le famiglie nobili e borghesi si dividevano tra diversi domicili secondo stagioni e necessità. E Francesca Manzoni – stando all’Arrigoni - «soleva passar l’inverno a Milano e le altre stagioni a Barzio ed alla sua villa di Cereda presso Lecco». E ciò poteva indurre in confusione.
Naturalmente, le radici barziesi, evocano legami con Alessandro Manzoni. Già nel 1875, il “risorgimentale” Felice Venosta (“Il Manzoni. L’amico della famiglia”) scriveva: «Il padre di Alessandro non era certamente uomo dotto, anzi vuolsi poco colto; ma nei Manzoni, famiglia originaria dal territorio di Lecco e della Valsassina, si hanno persone di lettere. Possiamo citare la poetessa Francesca (…) socia di più Accademie, la quale fu autrice di parecchie tragedie sacre». Però, proprio Alessandro – ci ricorda lo stesso Venosta – in una lettera a Carlo Morbio scriveva d’avere con Francesca «in comune soltanto il cognome». Il fatto è che Alessandro «non sapeva di appartenere alla stessa famiglia di Francesca»: così, scrive Felice Milani, autore di un saggio pubblicato sul “Bollettino della Società Pavese di Storia Patria” e ripreso dai nostri “Archivi di Lecco” (il numero 3 del 2000) dal quale peraltro attingiamo gran parte delle informazioni biografiche.
Milani si appoggia a Cesare Arieti (curatore dell’opera omnia manzoniana pubblicata da Mondadori), il quale «riporta uno specchietto genealogico che attesta la comune discendenza di Pietro (il padre dello scrittore, ndr) e di Francesca da un Giacomo Manzoni, morto intorno al 1606» Per quel che può significare. Cioè, nulla. Tanto più che, sappiamo, a Pietro Manzoni, lo scrittore deve il cognome e non il sangue. Se poi questo sia davvero garanza nel tramandare virtù (o vizi), non sappiamo.
Comunque Francesca Manzoni si avvicinò fin da giovanissima alla letteratura classica, frequentando poi gli ambienti letterari milanesi, partecipando all’attività delle accademie allora in voga. Erano i tempi dell’Arcadia con la nostra poetessa che scelse lo pseudonimo di Fenicia Lampeatica. Non è un caso, che il filosofo francese Charles De Brosses di passaggio alla Biblioteca Ambrosiana nel luglio 1739 scrisse in una lettera: «Trovai strano di vedere una donna lavorare in mezzo a un mucchio di libri latini: è la signora Manzoni, che ha il titolo di poetessa dell’imperatrice».
All’epoca aveva già pubblicato la tragedia “L’Ester”, stampata a Verona nel 1733 con una dedica all’imperatrice Elisabetta Cristina sposa di Carlo VI d’Asburgo. Le frequentazioni accademiche la portarono a incontrare Luigi Giusti, letterato veneziano che aveva lasciato la laguna forse per difficoltà economiche ed era venuto a stare a Milano nel 1734. La leggenda vuole che l’idillio sarebbe nato nel palazzo di Malgrate del canonico Giuseppe Candido Agudio, frequentato e quotato cenobio culturale. Il canonico, inoltre, commissionò al pittore Benigno Bossi i ritratti di diversi “accademici” tra i quali appunto Francesca Manzoni: oggi è l’unico ritratto che conosciamo della poetessa ed è conservato alla Pinacoteca Ambrosiana.
Francesca e Luigi si sarebbero sposati nel 1741. Evidentemente, però, il destino aveva altri progetti: nel 1742, Francesca diede alla luce quel Pietro Paolo ricordato da Balbiani quale “gentil poeta”; nel 1743, la secondogenita Angiola, ma il parto fu seguito da una serie di complicazioni che in pochi giorni portarono la madre alla morte, nella casa di Cereda: era il 28 giugno, dunque di questi giorni poco meno di trecento anni fa. I registri parrocchiali di San Giovanni (alcune pagine dei quali sono state pubblicate nel 2022 a cura di Giampiero Grasso e Renato Spreafico nel libro “Il tempo ritrovato”) riportano che la nobile signora Francesca Manzoni «non meno pia che assai celebre per il suo ingegno e sapere in maniera anche poetica, è morta di febbre neutra. (…) Fu seppellita il giorno seguente con l’intervento di vari sacerdoti e con il concorso grande di popolo in questa Chiesa parrocchiale davanti all’altare della Beatissima Vergine Addolorata come ella stessa lasciò di fare». Peraltro «senza che una modesta lapide additi il luogo in cui giacciono le ossa di così ragguardevole donna» avrebbe osservato un critico ottocentesco. Un visitatore ignaro, infatti, ancora oggi non si accorgerebbe di nulla.
Per il marito fu un duro colpo. Il Dizionario biografico della Treccani ci dice che «la morte della giovane sposa mutò radicalmente la sua esistenza: addoloratissimo si fece consacrare sacerdote». Dopo di che, «nell’agosto 1745 divenne segretario del ministro plenipotenziario della Lombardia austriaca». Se ne andò infine a Vienna, portandosi tutte le carte di famiglia, comprese quelle riguardanti la consorte. Morì nel 1766 e «per lo stato malandato delle sue finanze i funerali avvennero a spese di Maria Teresa, che pure non gli aveva risparmiato alcune critiche, imputando alle sue innovazioni il malcontento delle popolazioni lombarde».
La morte prematura è probabilmente causa dell’oblio in cui l’opera di Francesca Manzoni è finita. Fosse vissuta più a lungo, avrebbe lasciato tracce più profonde, chissà. Resta comunque il fatto che la considerazione di cui godette all’epoca nel mondo intellettuale fu notevole. Almeno nell’ambito milanese. Nella prima metà del Settecento, non era sorte comune per una donna. Oltre a un’indubbia apertura mentale paterna, dobbiamo immaginare una giovane Francesca consapevole delle proprie doti e dal carattere determinato. Quello stesso suo progetto, straordinariamente immenso, di una storia delle donne erudite qualcosa pur suggerisce. Pur non volendo necessariamente ritenerla una precorritrice di istanze emancipatorie o addirittura una protofemminista.A ricordarla rimane soprattutto quella tragedia in cinque atti dedicata al personaggio biblico di Ester, la fanciulla ebrea finita nell’harem del re babilonese durante l’esilio del proprio popolo. Non ne raccontiamo le vicende. Così come, non avendone le competenze, non setacciamo il testo della tragedia. E’ però necessario sottolinearne la robustezza intellettuale. E’ argomento che l’autrice ha approfondito con acribia, come ella stessa spiega in una lunga introduzione: se al testo biblico «io attenuta mi fossi, e non avessi voluto della profana storia qualche circostanza introdurvi, più agevole sariami stato la mia composizione formare». E quindi approfondimenti, confronti tra diverse fonti e interpretazioni. Con le difficoltà dell’epoca. Se si pensa che sullo stesso argomento si era cimentato anche il grande drammaturgo francese Jean Racine: la sua “Ester” venne rappresentata per la prima volta nel 1689.Eppure, quasi mezzo secolo dopo e cioè nel 1733, Francesca Manzoni scriverà d’esserne al corrente ma di non conoscere l’opera: «Benché io veduta non abbia, ottima cosa suppongo». Inoltre, si rendeva conto che la tragedia fosse cimento particolare per una studiosa ancora ventiduenne: «Gli si parrà, non ha dubbio, cosa nuova, ed insolita, e per cui anzi che no, taccia venir debbami imposta di sconsigliata, e soverchiamente ardita, ch’io di sì poca esperienza dotata, e di quello studio non per anco adorna, che si richiede, abbia l’animo mio rivolto alla tragica Poesia, che per giudizi dei dotti uomini fu mai sempre il più sublime, e difficile componimento riputata».
«Sempre su argomento biblico – scrive ancora Milani – la Manzoni scrisse alcune “azioni sacre” per musica, da cantarsi nella cappella dell’imperatore Carlo VI, stampate a Vienna tra il 1734 e il 1738. A Milano pubblicò una “Vita” di Suor Giovanna Eustachia della Croce; premise due canti alla vita del cappuccino Visconti. (…) Poesia italiane e latine della Manzoni compaiono in moltissime raccolte. Studiò la geometria e la filosofia; mise insieme materiali per stendere una “Storia universale di tutte le donne erudite d’ogni secolo e d’ogni nazione”; scrisse dissertazioni italiane e latine su vari argomenti di erudizione. Si accingeva a tradurre in italiano tutto Euripide» e scrisse anche poesie in dialetto milanese. Ritrovate a Rovereto, ormai più di vent’anni fa proprio da Felice Milani. Che spiega: cinque sonetti (di cui tre autografi) e altrettanti componimenti più lunghi nei quali «l’autrice assume la maschera di “Baltraminna”, desunta dalle commedie milanesi di Carlo Maria Maggi, trasformandola da personaggio popolare, emblema della poesia milanese, in emblema della donna letterata. Potremmo definirli “baltraminate” secondo l’indicazione della stessa Manzoni».
Milani ha pure curato la voce su Francesca Manzoni in quell’imponente opera che è “La letteratura dialettale milanese” uscita per l’editore Salerno nel 2022 con la curatela di Silvia Morgana: due tomi molto specialistici per complessive 1500 pagine. Si parte da Bonvesin de la Riva per arrivare a Enzo Jannacci. Oltre ottanta autori, tra i quali c’è una sola presenza femminile: appunto Francesca Manzoni. Una riscoperta, già. E sotto una luce nuova.
Dario Cercek