"Porta anche la trenta". Quando Dante e i suoi amici facevano le liste delle ragazze di Firenze
È notizia di questi giorni che alcuni studenti di quinta liceo del “prestigioso liceo Visconti” di Roma (così la stampa si perita di aggettivarlo. Pensa te se invece era una scuola da stronzi!) hanno affisso in aula un elenco delle loro conquiste, con i nomi delle ragazze con le quali si sarebbero intrattenuti in modo più o meno intimo.
“Quelle che se semo fatte”, si direbbe in romanesco. Una specie di bacheca di trofei.
Giusto il risentimento delle giovani messe alla berlina, delle loro compagne, dell’istituzione tutta.
“Un atto sessista gravissimo”, ha detto nientemeno che una deputata, per la quale “l’episodio non può essere ridotto ad una semplice goliardata”.
Qualche giorno fa, su queste stesse colonne, intervenivo con un contributo sulla questione dantesca che ha suscitato vivace discussione qui e sui social. Si partiva dal caso di una scuola media di Treviso: giusto o no leggere la “Divina Commedia” alle scuole medie? Cosa fare con gli studenti di religione musulmana che se ne sentissero offesi? E con gli italiani?
Torno a tirare in ballo Dante – lo faccio in modo provocatorio, sono sicuro che i miei lettori coglieranno - perché a rigor di logica uno dei primi a prodursi in tali liste goliardiche fu probabilmente lui. Che con gli amici Lapo Gianni e Guido Cavalcanti vuole organizzare un bel giretto in barca – vero o presunto – e non loro tre soli, ma anche monna Vanna (Giovanna), monna Lagia (Alagia) e “quella ch’è sul numer de le trenta”. Perché i tre stilnovisti avevano redatto la loro brava lista delle sessanta donne più belle di Firenze (per inciso: Beatrice era la numero nove, non perché fosse racchia ma per tutto il portato di numerologia simbolica che il nove nascondeva), hanno organizzato il casting per “Miss Firenze 1290” (il sonetto è sicuramente anteriore alla “Vita Nova”, il nostro Dante avrà avuto al massimo venticinque anni, perciò), hanno stilato la loro compiaciuta hit-parade. Chi ha studiato – e si presume che i goliardi del liceo Visconti lo abbiano fatto – sa che questo sonetto riprende il genere provenzale del “plazer”, dell’utopia vagheggiata, di un piacere sognato. A leggere le agenzie parrebbe invece che la lista dei diciottenni studenti romani sia la presa d’atto di un piacere ottenuto.
Dal XIII al XXI secolo la pazienza del corteggiamento poetico è stata soppiantata dalla boria della conquista pratica.
Tolto questo mutamento di paradigma, del quale chiunque conosca la purezza e il fascino dell’amore si deve rammaricare, non è che questi moderni emuli di Dante abbiano fatto qualcosa di così diverso da quello che il sacro vate della nostra letteratura aveva già compiuto.
Che si fa? Smettiamo di insegnare Dante anche al liceo e non se ne parla più? È drammatico rendersi conto che tutta la nostra letteratura, da quella più alta a quella più greve, ha una matrice sessista (tre quarti dei poemi cavallereschi ruotano attorno a una fantomatica “rosa” da cogliere, e persino il Bembo ha sonetti di una carnalità spiazzante). Di più: ha una matrice maschilista. I nostri studenti vengono educati – persino senza volerlo – a questo. Occorre rendersene conto, e ripartire da qui.
“Quelle che se semo fatte”, si direbbe in romanesco. Una specie di bacheca di trofei.
Giusto il risentimento delle giovani messe alla berlina, delle loro compagne, dell’istituzione tutta.
“Un atto sessista gravissimo”, ha detto nientemeno che una deputata, per la quale “l’episodio non può essere ridotto ad una semplice goliardata”.
Qualche giorno fa, su queste stesse colonne, intervenivo con un contributo sulla questione dantesca che ha suscitato vivace discussione qui e sui social. Si partiva dal caso di una scuola media di Treviso: giusto o no leggere la “Divina Commedia” alle scuole medie? Cosa fare con gli studenti di religione musulmana che se ne sentissero offesi? E con gli italiani?
Torno a tirare in ballo Dante – lo faccio in modo provocatorio, sono sicuro che i miei lettori coglieranno - perché a rigor di logica uno dei primi a prodursi in tali liste goliardiche fu probabilmente lui. Che con gli amici Lapo Gianni e Guido Cavalcanti vuole organizzare un bel giretto in barca – vero o presunto – e non loro tre soli, ma anche monna Vanna (Giovanna), monna Lagia (Alagia) e “quella ch’è sul numer de le trenta”. Perché i tre stilnovisti avevano redatto la loro brava lista delle sessanta donne più belle di Firenze (per inciso: Beatrice era la numero nove, non perché fosse racchia ma per tutto il portato di numerologia simbolica che il nove nascondeva), hanno organizzato il casting per “Miss Firenze 1290” (il sonetto è sicuramente anteriore alla “Vita Nova”, il nostro Dante avrà avuto al massimo venticinque anni, perciò), hanno stilato la loro compiaciuta hit-parade. Chi ha studiato – e si presume che i goliardi del liceo Visconti lo abbiano fatto – sa che questo sonetto riprende il genere provenzale del “plazer”, dell’utopia vagheggiata, di un piacere sognato. A leggere le agenzie parrebbe invece che la lista dei diciottenni studenti romani sia la presa d’atto di un piacere ottenuto.
Dal XIII al XXI secolo la pazienza del corteggiamento poetico è stata soppiantata dalla boria della conquista pratica.
Tolto questo mutamento di paradigma, del quale chiunque conosca la purezza e il fascino dell’amore si deve rammaricare, non è che questi moderni emuli di Dante abbiano fatto qualcosa di così diverso da quello che il sacro vate della nostra letteratura aveva già compiuto.
Che si fa? Smettiamo di insegnare Dante anche al liceo e non se ne parla più? È drammatico rendersi conto che tutta la nostra letteratura, da quella più alta a quella più greve, ha una matrice sessista (tre quarti dei poemi cavallereschi ruotano attorno a una fantomatica “rosa” da cogliere, e persino il Bembo ha sonetti di una carnalità spiazzante). Di più: ha una matrice maschilista. I nostri studenti vengono educati – persino senza volerlo – a questo. Occorre rendersene conto, e ripartire da qui.
Stefano Motta