Lecco: nascita e 'imprese' del Soccorso Alpino, in una serata a più voci
“Dove hai la testa?” era il titolo della serata. A rimarcare ancora una volta l’allarme per una frequentazione della montagna a volte già sconsiderata, non solo imprudente: abbigliamento e attrezzatura inadeguati, impreparazione fisica, approssimazione. Allarme che il Soccorso alpino da tempo va reiterando e che si è fatto ancora più pressante dopo il covid.
La serata – ieri, nell’ambito delle iniziative per celebrare i 150 anni della sezione lecchese del Cai – era proprio dedicata alla storia e all’attività del Soccorso alpino, un’organizzazione fatta ancora di volontari per quanto sempre più professionale dal punto di vista della preparazione.
Molti lecchesi hanno scritto la storia dell’alpinismo e i loro nomi li conosciamo, molti lecchesi si sono messi e si mettono a disposizione per soccorrere chi è in difficoltà per bricchi e sentieri e di loro invece sappiamo poco o nulla. Eppure, in alcuni momenti sono pure stati pionieri e hanno insegnato qualcosa agli altri. Prendete l’esempio di quella che viene chiamata la “barella lecchese” che può essere trasportata da due soli uomini nelle situazioni più impervie, addirittura nel vuoto. Se si chiama “barella lecchese” ci sarà pure un motivo. Anche se i nostri, in verità, la chiamano “ciapin” che è poi il soprannome di Daniele Chiappa, uno di quelli che ha messo piede sulla cima del Cerro Torre cinquanta anni fa, ma che è stato anche il promotore del Soccorso alpino lecchese come lo conosciamo oggi. Scomparso troppo presto – morto nel 2008 a 56 anni -, a lui, ieri sera, il pensiero è andato più volte.
Dopo il saluto del consigliere regionale Giacomo Zamperini che ha sottolineato la necessità di un’educazione dell’andare in montagna, per «evitare che sia considerata come un parco giochi, un parco a tema», la serata – condotta dalla giornalista Sara Sottocornola – è stata brevemente introdotta dal presidente del Soccorso, Marco Anemoli che ha ricordato le ricorrenze (settant’anni dalla nascita del Soccorso alpino nazionale, sessanta di quello regionale e quaranta delle delegazione lariana, nella quale rientra anche la nostra provincia) e sottolineato come in questi anni si sia verificata una grandissima evoluzione che ha aumentato i livelli di specializzazione e quindi la possibilità di intervenire in più situazioni. Nonché il grande supporto offerto derivante dai progressi tecnologici.
Sul palco è stato poi chiamato Luigino Airoldi, un “ragno” di quell’altra impresa che è stato il McKinley in Alaska: oggi ha 93 anni e nel Soccorso alpino ci è stato per cinquanta, fino al compimento dei 70. Airoldi ha ricordato alcuni dei suoi interventi, a cominciare proprio dal McKinley quando hanno impiegato tre giorni a portare giù Jack Canali con i piedi congelati; e poi un soccorso in Svizzera con Riccardo Cassin, due che non conoscevamo: uno era caduto in un crepaccio, «ci sono voluti due giorni e non è che le guardie svizzere ci hanno aiutato…», infine, il rammarico per un intervento inutile sul Monte Bianco per recuperare tre dispersi e i cui corpi non sono stati mai ritrovati».
Erano altri tempi. Li ha rievocati Roberto Chiappa, fratello maggiore di Daniele, dicendo come una volta gli allarmi erano una sorta di passparola che arrivava al bar dove ci si ritrovava e da lì si partiva, andando a cercare di persona o per telefono gli uomini per mettere insieme la squadra. E ricordando appunto l’invenzione della “barella lecchese” e di quella volta che ne diedero dimostrazione proprio lui e il fratello, trasportando a valle come finto ferito un amico in verità non molto tranquillo visto che continuava a ripetere ai due Chiappa di «non fare gli scemi».
Poi c’è stato il disastro aereo di Conca di Crezzo, dove sono 37 tra passeggeri ed equipaggio di un volo partito da Milano e diretto a Colonia. Le ore concitate di quella sera – il 15 ottobre 1987 – sono state rivissute attraverso la lettura – da parte di Sara Anghileri - dei messaggi radio sulle onde dei soccorsi; più che messaggi, un più che preoccupante continuo gracchiare che distolse il “Ciapin” dai giochi con il figlio.
Il centro di coordinamento del Bione è nato proprio quella sera. Sono stati Adelio “Bebo” Fazzini e Giuseppe Orlandi “Calumer” a portarci a quei momenti: «Oltre al disastro aereo ce n’era uno organizzativo. La situazione ci aveva colti impreparati. Quella volta abbiamo preso coscienza che avevamo delle eccellenze in quanto a persone, ma dal punto di vista logistico eravamo sotto terra: c’era una radio dislocata ai vigili del fuoco e basta. Quando siamo arrivati su non sapevamo cosa fare, vedevamo pezzi di persone dappertutto. Camminavi su resti umani, c’erano gli alberi che sembravano avere addobbi natalizi e invece erano brandelli di corpi. Cercavamo sopravvissuti che non c’erano. E se la cosa ha funzionato è perché c’era Daniele Chiappa».
Da quell’esperienza è appunto partito il lavoro che ha portato alla realizzazione del centro di coordinamento del Bione, presidiato ininterrottamente. Massimo Mazzoleni e Luciano Giampà, rispettivamente capi delle “stazioni” di Lecco e del Triangolo lariano, hanno spiegato l’evoluzione avvenuta in questi anni: tutte le squadre sono formate anche dal punto di vista sanitario, lo spettro di interventi si è ampliato: l’alpinismo e la speleologia, ma anche le situazioni di emergenza per cabinovie o seggiovie bloccate, la ricerca di dispersi non solo in montagna, gli interventi di protezione civile. Indicando anche alcune criticità: per esempio, il fatto, che dal momento dell’allarme del 112 a quello dell’allerta al Soccorso alpino passano anche 18 minuti per il rispetto delle procedure: «Stiamo cercando almeno di dimezzare i tempi».
Da parte di Mazzoleni, inoltre, anche una puntura polemica per altri che magari si mettono troppo in mostra: «Noi facciamo sempre i fatti, qualche altro fa le immagini, ma a noi non interessa. Se quello fa le foto, va bene, noi siamo belli lo stesso». Puntura che fa del resto il paio con quella di Fazzini a proposito di Conca di Crezzo, quando gli alpinisti lecchesi recuperarono la scatola nera, c’era chi voleva gliela consegnassimo per farsi bello davanti ai giornalisti. Ma il Daniele gli ha detto no, che lui l’avrebbe consegnata solo al prefetto…».
E di come, naturalmente, l’intervento dell’elicottero che consente tempi ridotti di intervento e di portare i feriti nell’ospedale meglio attrezzato, nel contempo sia un’operazione delicatissima in ogni suo momento.
E’ stato invece Alessandro Spada, della “stazione” di Valsassina e Valvarrone a richiamare l’attenzione sulle cifre dei soccorsi e soprattutto sulla loro natura. Appunto l’allarme sull’incremento delle uscite causate dalla pura imprudenza.
Il Soccorso alpino lecchese è composto da 150 persone, delle quali 20 sono medici o sanitari e 10 guide alpine con un’età media di 45 anni. Adesso ne fanno parte anche 12 donne, assenti fino a non molti anni fa.
I dati del 1923 parlano di 342 persone soccorse in provincia di Lecco, praticamente una al giorno: 120 sono state recuperate illese, 176 ferite e 25 in maniera grave, mentre i deceduti sono 21. Certo – ha detto Spada – il dato dei decessi fa paura, ma il dato più preoccupante sono quelle 120 persone illese. Se erano illese che bisogno c’era del soccorso? Si erano perse, erano sfinite, non erano più in grado di muoversi, Perché impreparate. «E’ qui che dobbiamo lavorare». Del resto, i dati parlano chiaro: in 199 casi sono stati soccorsi escursionisti sui sentieri, 42 gli alpinisti ai quali si aggiungono 11 in arrampicata e 11 in mountain-bike. E poi ci sono 25 tra cacciatori e cercatori di funghi. «E questi – ha chiosato Spada a proposito dei “fungiatt” – sono la categoria peggiore, perché a casa dicono di andare in un posto a poi vanno in un altro, lasciano l’auto da un’altra parte per depistare i concorrenti, sono vestiti di vede per mimetizzarsi…»
«E comunque – la chiusa – ci sono più morti in montagna che sulle strade. Eppure per l’educazione stradale si fanno campagne di sensibilizzazione. Si dovrebbe fare anche per l’andare in montagna. Un particolare significativo: su 100 soccorso, solo 20 sono iscritte al Cai. Significa che la formazione del Cai è ancora fondamentale. Possiamo fare la differenza, dare l’esempio».
La serata – ieri, nell’ambito delle iniziative per celebrare i 150 anni della sezione lecchese del Cai – era proprio dedicata alla storia e all’attività del Soccorso alpino, un’organizzazione fatta ancora di volontari per quanto sempre più professionale dal punto di vista della preparazione.
E delle cui imprese si parla in cronaca come di una presenza naturale, quasi scontata: gli uomini del Soccorso alpino, scriviamo noi giornalisti lasciando nell’ombra nomi e volti di coloro che di questa organizzazione sono la «spina dorsale - com’è stato detto ieri sera – ragazzi sempre disponibili, che si muovono quando c’è da muoversi, a volte anche a vuoto e, poi comunque, il giorno dopo sono pronti a muoversi ancora».
Molti lecchesi hanno scritto la storia dell’alpinismo e i loro nomi li conosciamo, molti lecchesi si sono messi e si mettono a disposizione per soccorrere chi è in difficoltà per bricchi e sentieri e di loro invece sappiamo poco o nulla. Eppure, in alcuni momenti sono pure stati pionieri e hanno insegnato qualcosa agli altri. Prendete l’esempio di quella che viene chiamata la “barella lecchese” che può essere trasportata da due soli uomini nelle situazioni più impervie, addirittura nel vuoto. Se si chiama “barella lecchese” ci sarà pure un motivo. Anche se i nostri, in verità, la chiamano “ciapin” che è poi il soprannome di Daniele Chiappa, uno di quelli che ha messo piede sulla cima del Cerro Torre cinquanta anni fa, ma che è stato anche il promotore del Soccorso alpino lecchese come lo conosciamo oggi. Scomparso troppo presto – morto nel 2008 a 56 anni -, a lui, ieri sera, il pensiero è andato più volte.
Dopo il saluto del consigliere regionale Giacomo Zamperini che ha sottolineato la necessità di un’educazione dell’andare in montagna, per «evitare che sia considerata come un parco giochi, un parco a tema», la serata – condotta dalla giornalista Sara Sottocornola – è stata brevemente introdotta dal presidente del Soccorso, Marco Anemoli che ha ricordato le ricorrenze (settant’anni dalla nascita del Soccorso alpino nazionale, sessanta di quello regionale e quaranta delle delegazione lariana, nella quale rientra anche la nostra provincia) e sottolineato come in questi anni si sia verificata una grandissima evoluzione che ha aumentato i livelli di specializzazione e quindi la possibilità di intervenire in più situazioni. Nonché il grande supporto offerto derivante dai progressi tecnologici.
Sul palco è stato poi chiamato Luigino Airoldi, un “ragno” di quell’altra impresa che è stato il McKinley in Alaska: oggi ha 93 anni e nel Soccorso alpino ci è stato per cinquanta, fino al compimento dei 70. Airoldi ha ricordato alcuni dei suoi interventi, a cominciare proprio dal McKinley quando hanno impiegato tre giorni a portare giù Jack Canali con i piedi congelati; e poi un soccorso in Svizzera con Riccardo Cassin, due che non conoscevamo: uno era caduto in un crepaccio, «ci sono voluti due giorni e non è che le guardie svizzere ci hanno aiutato…», infine, il rammarico per un intervento inutile sul Monte Bianco per recuperare tre dispersi e i cui corpi non sono stati mai ritrovati».
Erano altri tempi. Li ha rievocati Roberto Chiappa, fratello maggiore di Daniele, dicendo come una volta gli allarmi erano una sorta di passparola che arrivava al bar dove ci si ritrovava e da lì si partiva, andando a cercare di persona o per telefono gli uomini per mettere insieme la squadra. E ricordando appunto l’invenzione della “barella lecchese” e di quella volta che ne diedero dimostrazione proprio lui e il fratello, trasportando a valle come finto ferito un amico in verità non molto tranquillo visto che continuava a ripetere ai due Chiappa di «non fare gli scemi».
Poi c’è stato il disastro aereo di Conca di Crezzo, dove sono 37 tra passeggeri ed equipaggio di un volo partito da Milano e diretto a Colonia. Le ore concitate di quella sera – il 15 ottobre 1987 – sono state rivissute attraverso la lettura – da parte di Sara Anghileri - dei messaggi radio sulle onde dei soccorsi; più che messaggi, un più che preoccupante continuo gracchiare che distolse il “Ciapin” dai giochi con il figlio.
Il centro di coordinamento del Bione è nato proprio quella sera. Sono stati Adelio “Bebo” Fazzini e Giuseppe Orlandi “Calumer” a portarci a quei momenti: «Oltre al disastro aereo ce n’era uno organizzativo. La situazione ci aveva colti impreparati. Quella volta abbiamo preso coscienza che avevamo delle eccellenze in quanto a persone, ma dal punto di vista logistico eravamo sotto terra: c’era una radio dislocata ai vigili del fuoco e basta. Quando siamo arrivati su non sapevamo cosa fare, vedevamo pezzi di persone dappertutto. Camminavi su resti umani, c’erano gli alberi che sembravano avere addobbi natalizi e invece erano brandelli di corpi. Cercavamo sopravvissuti che non c’erano. E se la cosa ha funzionato è perché c’era Daniele Chiappa».
Da quell’esperienza è appunto partito il lavoro che ha portato alla realizzazione del centro di coordinamento del Bione, presidiato ininterrottamente. Massimo Mazzoleni e Luciano Giampà, rispettivamente capi delle “stazioni” di Lecco e del Triangolo lariano, hanno spiegato l’evoluzione avvenuta in questi anni: tutte le squadre sono formate anche dal punto di vista sanitario, lo spettro di interventi si è ampliato: l’alpinismo e la speleologia, ma anche le situazioni di emergenza per cabinovie o seggiovie bloccate, la ricerca di dispersi non solo in montagna, gli interventi di protezione civile. Indicando anche alcune criticità: per esempio, il fatto, che dal momento dell’allarme del 112 a quello dell’allerta al Soccorso alpino passano anche 18 minuti per il rispetto delle procedure: «Stiamo cercando almeno di dimezzare i tempi».
Da parte di Mazzoleni, inoltre, anche una puntura polemica per altri che magari si mettono troppo in mostra: «Noi facciamo sempre i fatti, qualche altro fa le immagini, ma a noi non interessa. Se quello fa le foto, va bene, noi siamo belli lo stesso». Puntura che fa del resto il paio con quella di Fazzini a proposito di Conca di Crezzo, quando gli alpinisti lecchesi recuperarono la scatola nera, c’era chi voleva gliela consegnassimo per farsi bello davanti ai giornalisti. Ma il Daniele gli ha detto no, che lui l’avrebbe consegnata solo al prefetto…».
Il medico Mario Milani e il tecnico dell’Elisoccorso Titta Gianola hanno quindi spiegato come un tempo fossero gli alpinisti che diventavano medici e oggi invece sono i medici che diventano alpinisti, chiamati a pensare in maniera differente rispetto all’ospedale tradizionale o a un soccorso per una strada cittadina.
E di come, naturalmente, l’intervento dell’elicottero che consente tempi ridotti di intervento e di portare i feriti nell’ospedale meglio attrezzato, nel contempo sia un’operazione delicatissima in ogni suo momento.
E’ stato invece Alessandro Spada, della “stazione” di Valsassina e Valvarrone a richiamare l’attenzione sulle cifre dei soccorsi e soprattutto sulla loro natura. Appunto l’allarme sull’incremento delle uscite causate dalla pura imprudenza.
Il Soccorso alpino lecchese è composto da 150 persone, delle quali 20 sono medici o sanitari e 10 guide alpine con un’età media di 45 anni. Adesso ne fanno parte anche 12 donne, assenti fino a non molti anni fa.
I dati del 1923 parlano di 342 persone soccorse in provincia di Lecco, praticamente una al giorno: 120 sono state recuperate illese, 176 ferite e 25 in maniera grave, mentre i deceduti sono 21. Certo – ha detto Spada – il dato dei decessi fa paura, ma il dato più preoccupante sono quelle 120 persone illese. Se erano illese che bisogno c’era del soccorso? Si erano perse, erano sfinite, non erano più in grado di muoversi, Perché impreparate. «E’ qui che dobbiamo lavorare». Del resto, i dati parlano chiaro: in 199 casi sono stati soccorsi escursionisti sui sentieri, 42 gli alpinisti ai quali si aggiungono 11 in arrampicata e 11 in mountain-bike. E poi ci sono 25 tra cacciatori e cercatori di funghi. «E questi – ha chiosato Spada a proposito dei “fungiatt” – sono la categoria peggiore, perché a casa dicono di andare in un posto a poi vanno in un altro, lasciano l’auto da un’altra parte per depistare i concorrenti, sono vestiti di vede per mimetizzarsi…»
«E comunque – la chiusa – ci sono più morti in montagna che sulle strade. Eppure per l’educazione stradale si fanno campagne di sensibilizzazione. Si dovrebbe fare anche per l’andare in montagna. Un particolare significativo: su 100 soccorso, solo 20 sono iscritte al Cai. Significa che la formazione del Cai è ancora fondamentale. Possiamo fare la differenza, dare l’esempio».
Dario Cercek