In viaggio a tempo indeterminato/325: il Giappone era il futuro...

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Esiste un'isola in mezzo all'Oceano Pacifico con palazzi imperiali, migliaia di templi, treni velocissimi e città densamente popolate.
Il suo nome significa "origine del sole" e i suoi abitanti festeggiano per il fiorire delle piante o l'arrossarsi delle foglie.
È un'isola strana quella di cui parlo. Madre Natura l'ha voluta traballante e delicata, l'uomo l'ha resa nostalgicamente moderna e iconica.
Ed è proprio per questo suo fascino che oggi siamo tornati qui ad esplorarla. È la nostra seconda volta in questo Paese, ma stavolta abbiamo piani completamente diversi.
Questa striscia di terra leggendaria si chiama Giappone.

Sbarcare in Giappone per me è come fare un salto negli anni 90 quando dovevi guardare due puntate di Holly e Benji per capire se la palla sarebbe entrata in porta e Cristina D'Avena si vestiva da Licia pur non essendo asiatica.
Il Giappone in quegli anni era, nella mia mente, un luogo lontano dove moderne tecnologie producevano cartoni animati, videogiochi e grattacieli con insegne luminose.
Dove la gente scriveva usando un alfabeto arzigogolato e si mangiavano triangolini di riso avvolti in alghe verde scuro.
Era il futuro.
Credo siano queste tre parole a descrivere la sensazione che ho provato mentre me ne stavo seduta sul sedile riscaldato del treno che dall'aeroporto ci portava in centro a Osaka.
Il Giappone era il futuro, poi è come se si fosse cristallizzato.
E questa cosa a me affascina tantissimo.
Un futuro che sa di passato è un ossimoro che potrebbe essere tranquillamente letto in un romanzo di fantascienza o in un manga, per restare in tema.
Qui invece lo vivi e lo respiri in ogni via, tassista con i guanti bianchi, insegna illuminata e ristorante di ramen.
Il Giappone è uno di quei pochi Paesi al mondo in cui ti sembra di essere già stato anche se è la prima volta che ci metti piede.
Ti aspetti tutto il pacchetto completo di straniamento e familiarità, e non resti deluso.
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Sono passati 5 anni dall'ultima volta che siamo stati in queste terre e l'idea di tornarci ci è venuta un po' per caso, un po' per scelta.
Paolo era sicuramente il più convinto dei due e la cosa inizialmente ha stupito anche me.
È come se sentisse che avevamo ancora un conto in sospeso con questa parte di mondo che l'ultima volta avevamo salutato con un inchino pieno di rispetto ma vuoto di sentimenti.
Cinque anni fa il Giappone non era in linea con quello che cercavamo. Eravamo affamati di sensazioni forti, di dialoghi profondi con sconosciuti, di rapporti diretti senza schemi da seguire. Non avevamo la testa per immergerci in una società che ai nostri occhi appariva seguire una linea dritta e precisa. Avevamo bisogno di perderci nel caos e nel frastuono per smarrire il nostro equilibrio e trovarne uno nuovo. Così il mese in Giappone era stato una lotta contro i mulini a vento per cercare qualcosa che non sembrava esserci.
E quando ce ne siamo andati mi ricordo di aver pensato che non fossimo "persone da Giappone".
Poi sono arrivate altre esperienze, altri viaggi, altri incontri. Noi abbiamo trovato il nostro modo di vivere in un equilibrio precario che spaventa ma esalta. E ci siamo sentiti pronti per tornare in Giappone, con la consapevolezza che stavolta tutto sarebbe stato diverso e con la speranza di riuscire a vedere un'altra faccia di quest'isola.
Ma come fare per abbattere quel muro fatto di consuetudini e gentilezze forzate e sbirciare nel Giappone meno perfetto?

L'idea ci è venuta leggendo un romanzo che da mesi avevamo scaricato nell'app dei libri sul telefono.
Un pomeriggio piovoso, mentre vivevamo ancora in minivan, più per noia che per altro, avevo iniziato a leggerlo.
"Autostop con Buddha" il titolo del libro.
Non sapevo nemmeno parlasse del Giappone quando l'ho iniziato ma per qualche inspiegabile motivo mi ha appassionata.
Per farla breve, narra dell'esperienza di un ragazzo canadese che insegna inglese in Giappone e che decide di percorrere tutto il Paese da sud a nord in autostop per inseguire l'hanami, cioè la fioritura dei ciliegi.
A colpirmi particolarmente è un passaggio in cui l'autore parla della differenza tra il Giappone delle città, più occidentalizzato, e il Giappone rurale e più legato alle tradizioni.
"Se mai torneremo in Giappone, dovremo lasciar perdere le città e buttarci nelle campagne." Dico a Paolo dopo aver letto quelle frasi.
Butto lì quelle parole pensando che non avranno peso, ma come spesso accade certi pensieri non se ne vanno, si trasformano, cambiano e poi diventano concreti.
Quindi eccoci in Giappone, a bordo di uno scooter che sembra un personaggio dei cartoni animati, con una tenda come casa e un obiettivo nuovo: riusciremo a scoprire l'altra faccia di questo Paese?
Per saperlo ci vorrà tempo, sicuramente più dei due episodi che servivano per vedere che Benji alla fine riusciva a parare la palla.
Angela (e Paolo)
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