Lecco: cimeli con contenuto emozionale, nuovo allestimento per il museo del CAI
Riallestita la sala-museo del Cai a Palazzo delle Paure accanto all’Osservatorio sulla montagna inaugurato nel 2016. Il nuovo assetto, promosso nell’ambito delle celebrazioni dei 150 anni della fondazione del Cai lecchese, è stato presentato in un incontro al quale sono intervenuti gli assessori comunali Simona Piazza e Giovanni Cattaneo, la consulente del Sistema museale lecchese Barbara Cattaneo, la presidente del Cai lecchese Adriana Baruffini, l’architetto Alessandro Dubini che, con Marta Cassin, ha curato la riorganizzazione dell’esposizione, lo storico dell’alpinismo Alberto Benini e il presidente regionale del Cai Emilio Aldeghi.
Ancora, è una piccola esposizione che tenta di offrire suggestioni ai visitatori, ma nel contempo consente di sognare, di pensare in grande, di ipotizzare un museo più ambizioso. Lo ha detto, per esempio, l’assessore Giovanni Cattaneo («Vorrei fosse l’inizio di un percorso, vorrei che si possano abbinare altri spazi e altre iniziative»), ripreso da Benini che addirittura guarda all’aostano Forte di Bard. Del resto, nonostante l’alpinismo lecchese sia stato protagonista nel mondo e abbia una tradizione straordinaria e pagine immortali da ricordare, imprese epocali, passaggi storici, ancora la città non è stata in grado di andare oltre una dimensione provinciale. Con responsabilità che non sono solo degli enti pubblici. Proprio Aldeghi, che è presidente regionale ma che è lecchese, ha ricordato il fallimento di un’iniziativa che qualche anno fa era stata avviata per far collaborare tutte le associazioni alpinistiche cittadine per un progetto unitario quale che fosse. Lui non l’ha detto, ma coloro che conoscono questa città nei suoi pregi e nei suoi difetti, sanno come certe iniziative naufraghino semplicemente per gelosie, campanilismi, bandierine.
Da parte sua Aldeghi ha auspicato la ripresa di quel confronto che possa dare frutti, così che il museo della montagna non sia solo espressione del Cai.
Il riallestimento del museo ha visto la selezione di alcuni dei tanti “cimeli” (scarponi, chiodi, zaini, moschettoni, piccozze) che nel corso del tempo alpinisti o loro famigliari hanno donato al Cai lecchese e che – come ha sottolineato Baruffini – hanno un non indifferente contenuto emozionale. Ogni cimelio evoca ambienti e personaggi raccontati nei pannelli accompagnatori. A cominciare da quello iniziale che racconta gli albori dell’alpinismo lecchese, affiancato dai ritratti dei capostipiti della sezione cittadina del Club alpino: l’abate Antonio Stoppani, il primo presidente Giovanni Pozzi, l’ingegner Giuseppe Ongania e il professor Mario Cermenati. Poi, una serie di altri suggerimenti lungo un percorso che va dall’alpinismo su roccia a quello su ghiaccio, sottolineando le imprese dei lecchesi nel mondo e soffermarsi infine sul Soccorso alpino.
Da parte sua, Benini preferisce parlare di museo dell’arrampicata più che di museo della montagna, arrampicata su roccia e su ghiaccio, ipotizzando un futuro in cui l’evoluzione tecnica possa anche essere spiegata a livello “esperienziale”: «Gli oggetti esposti – ha inoltre detto – possono essere per un arrampicatore un richiamo alla giovinezza, per chi è avanti con l’età una specie di “te se regordet” e naturalmente il consueto meravigliarsi di come facevano i nostri nonni con certe attrezzature. Ma quegli stessi oggetti possono dire a chi non arrampica come la storia del progresso tecnico sia la storia dell’alpinismo. Finita l’esplorazione in orizzontale del mondo, l’uomo si è inventata quella verticale. Ricordo circa quarant’anni quando a Lecco tenne una conferenza lo scalatore francese Jean Marc Boivin che arrampicava con ramponi speciali e piccozze arcuate. Dieci anni prima, i “ragni” erano saliti sul Cerro Torre con un metodo empirico geniale, ma dal punto di vista tecnico con attrezzature ancora rudimentali. Non per caso, successivamente, una spedizione americana ripeté in tre giorni la via che i “ragni” avevano percorso in due mesi».
L’architetto Dubini ha poi spiegato le linee guida per il nuovo allestimento «contestualizzando gli oggetti, collegandoli a un ambiente e a una persona, legandoli assieme gli uni con gli altri affinché fossero storie semplici e comprensibili da tutti».
Infine, Aldeghi ha voluto ribadire come il vero grande museo di Lecco siano le nostre montagne ma che vanno “tradotte” affinché siano apprezzate da tutti, superando «la visione turistica» e quindi pensando la montagna «senza infrastrutture che attirano turisti ma non la raccontano».
A chiudere l’incontro, la visita al museo guidata da Paolo Corti.
Ancora, è una piccola esposizione che tenta di offrire suggestioni ai visitatori, ma nel contempo consente di sognare, di pensare in grande, di ipotizzare un museo più ambizioso. Lo ha detto, per esempio, l’assessore Giovanni Cattaneo («Vorrei fosse l’inizio di un percorso, vorrei che si possano abbinare altri spazi e altre iniziative»), ripreso da Benini che addirittura guarda all’aostano Forte di Bard. Del resto, nonostante l’alpinismo lecchese sia stato protagonista nel mondo e abbia una tradizione straordinaria e pagine immortali da ricordare, imprese epocali, passaggi storici, ancora la città non è stata in grado di andare oltre una dimensione provinciale. Con responsabilità che non sono solo degli enti pubblici. Proprio Aldeghi, che è presidente regionale ma che è lecchese, ha ricordato il fallimento di un’iniziativa che qualche anno fa era stata avviata per far collaborare tutte le associazioni alpinistiche cittadine per un progetto unitario quale che fosse. Lui non l’ha detto, ma coloro che conoscono questa città nei suoi pregi e nei suoi difetti, sanno come certe iniziative naufraghino semplicemente per gelosie, campanilismi, bandierine.
Da parte sua Aldeghi ha auspicato la ripresa di quel confronto che possa dare frutti, così che il museo della montagna non sia solo espressione del Cai.
Il riallestimento del museo ha visto la selezione di alcuni dei tanti “cimeli” (scarponi, chiodi, zaini, moschettoni, piccozze) che nel corso del tempo alpinisti o loro famigliari hanno donato al Cai lecchese e che – come ha sottolineato Baruffini – hanno un non indifferente contenuto emozionale. Ogni cimelio evoca ambienti e personaggi raccontati nei pannelli accompagnatori. A cominciare da quello iniziale che racconta gli albori dell’alpinismo lecchese, affiancato dai ritratti dei capostipiti della sezione cittadina del Club alpino: l’abate Antonio Stoppani, il primo presidente Giovanni Pozzi, l’ingegner Giuseppe Ongania e il professor Mario Cermenati. Poi, una serie di altri suggerimenti lungo un percorso che va dall’alpinismo su roccia a quello su ghiaccio, sottolineando le imprese dei lecchesi nel mondo e soffermarsi infine sul Soccorso alpino.
Inaugurando la nuova esposizione, la presidente Baruffini ha ripercorso le tappe che hanno portato a oggi, partendo dal primo museo del Cai allestito alla Torre Viscontea poi trasferito a Palazzo delle paure, quando nel 2016 il Comune decise autonomamente di aprire l’Osservatorio sulla montagna articolato in una serie di postazioni multimediali. Baruffini ha voluto ricordare i principali promotori del museo: Peppino Ciresa, Annibale Rota, Giuliano Maresi, Beppe Ferrario, Pino Comi.
Da parte sua, Benini preferisce parlare di museo dell’arrampicata più che di museo della montagna, arrampicata su roccia e su ghiaccio, ipotizzando un futuro in cui l’evoluzione tecnica possa anche essere spiegata a livello “esperienziale”: «Gli oggetti esposti – ha inoltre detto – possono essere per un arrampicatore un richiamo alla giovinezza, per chi è avanti con l’età una specie di “te se regordet” e naturalmente il consueto meravigliarsi di come facevano i nostri nonni con certe attrezzature. Ma quegli stessi oggetti possono dire a chi non arrampica come la storia del progresso tecnico sia la storia dell’alpinismo. Finita l’esplorazione in orizzontale del mondo, l’uomo si è inventata quella verticale. Ricordo circa quarant’anni quando a Lecco tenne una conferenza lo scalatore francese Jean Marc Boivin che arrampicava con ramponi speciali e piccozze arcuate. Dieci anni prima, i “ragni” erano saliti sul Cerro Torre con un metodo empirico geniale, ma dal punto di vista tecnico con attrezzature ancora rudimentali. Non per caso, successivamente, una spedizione americana ripeté in tre giorni la via che i “ragni” avevano percorso in due mesi».
L’architetto Dubini ha poi spiegato le linee guida per il nuovo allestimento «contestualizzando gli oggetti, collegandoli a un ambiente e a una persona, legandoli assieme gli uni con gli altri affinché fossero storie semplici e comprensibili da tutti».
Infine, Aldeghi ha voluto ribadire come il vero grande museo di Lecco siano le nostre montagne ma che vanno “tradotte” affinché siano apprezzate da tutti, superando «la visione turistica» e quindi pensando la montagna «senza infrastrutture che attirano turisti ma non la raccontano».
D.C.