In viaggio a tempo indeterminato/323: che inaspettato shock varcare la frontiera tra Cina e Laos
Varcare la frontiera tra Cina e Laos è stato un'inaspettato shock.
Come se in quei pochi metri che dividono i due Paesi, passasse una linea spazio temporale più che una linea immaginaria chiamata confine.
La Cina ci saluta da dietro i suoi sportelli di un blu grigio sobrio, con le ufficiali in divisa perfettamente stirata e uno sguardo tra il severo e lo scrupoloso.
Aprono il mio passaporto, scorrono meticolosamente le pagine ma, a differenza di quando siamo entrati, non sono alla ricerca del mio passato e di tutti quei timbri sul passaporto che all'inizio contavo ma che poi ho smesso di notare.
L'unico obiettivo ora è trovare il timbro di entrata cinese apposto esattamente 15 giorni e qualche ora fa.
Una volta individuato, con un impercettibile movimento del capo, l'ufficiale mi scruta per qualche millisecondo e poi bam bam, timbro di uscita e via.
Lasciamo ufficialmente la Cina in un caldo pomeriggio, ancora frastornati da tutto quello che abbiamo vissuto.
Nella mia testa immagini confuse di templi, bandierine tibetane e lanterne, un'infinità di lanterne rosse, così tante da trasformarsi quasi in un'ossessione, un incubo.
"È andata bene, nessuna domanda." chiacchieriamo io e Paolo mentre percorriamo i metri che dividono la frontiera cinese da quella laotiana.
La strada è sterrata e una polvere rossastra si alza dal fondo mossa dai camion in fila che lentamente si muovono in direzione opposta alla nostra.
Davanti a noi, un edificio ricoperto di color oro che misteriosamente sopravvive a tutte quelle nuvole di terra.
Un telo sdrucito a fare da tettoia e si entra in un nuovo edificio, la frontiera del Laos.
La coda di persone in attesa è lunghissima e mi chiedo da dove siano venuti tutti, dato che dal lato cinese eravamo solo una manciata di persone.
È in quel preciso istante che inizio a rendermi conto che qualcosa è successo, forse si è guastato o forse si è immobilizzato a un'epoca diversa da quella in cui mi trovavo giusto qualche minuto prima.
La fila, prima disciplinata da transenne, diventa selvaggia più ci avviciniamo agli sportelli degli ufficiali.
Il Laos ci dà il benvenuto da dietro degli sportelli di legno segnato da tempo e ammaccature, con gli ufficiali in divisa verde perfettamente stirata ma leggermente impolverata. Lo sguardo è sempre serio, come i colleghi del Paese precedente, ma meno severo e più affaticato.
Più ci avviciniamo più la calca si fa soffocante. Un mare che cerca di infilarsi in due cannucce.
Quando arriva il mio momento di mostrare il passaporto sono così sudata e impolverata da chiedermi se davvero la Cina sia stata reale o solo il frutto di un pisolino prolungato sotto il sole di mezzogiorno.
Controllo rapido alle pagine di questo quadernino magico che apre le porte di moltissime frontiere, e poi il verdetto: manca un documento da compilare. L'ufficiale mi allunga una striscia di carta con campi da riempire. Mi fa segno di farlo proprio lì, bloccando tutto quel flusso di persone che non vuole fare altro che entrare in Laos.
Sento una leggerissima pressione provenire dagli sguardi di chi non ce la fa più a stare dentro quell'ufficio. La pressione è tale che per un attimo non ricordo nemmeno il mio nome e cognome.
Compilo più rapidamente che posso e Paolo accanto a me fa lo stesso. 3 minuti, ci metto al massimo 3 minuti. Poi passo il foglietto all'ufficiale che, senza nemmeno leggerlo, lo accantona in cima a una pila di altri pezzetti di carta simili al mio.
Bam Bam timbro di entrata in Laos.
"Welcome" mi dice accennando un mezzo sorriso.
Una stranissima tassa da pagare viene riscossa da altri due ufficiali sorridenti in piedi dietro un tavolo. 10.000 kip a testa, 0,30€. Un cartello blu scolorito appeso al muro ne attesta la legittimità.
"Ma dove caspiterina siamo finiti?"
"Oh per dincibacco, tutti quei cantieri di palazzi in costruzione sembrano essere abbandonati."
"Acciderbolina, forse oltre ad aver cambiato Paese abbiamo anche cambiato epoca."
Sono state queste le prime frasi che ci siamo scambiati io e Paolo muovendo i primi passi in Laos.
Per dovere di cronaca, devo ammettere di aver "leggermente" ammorbidito i toni per rendere fruibile da chiunque questo scritto.
Diciamo che la nostra disquisizione era decisamente più colorita e si è ulteriormente caricata durante le ore di viaggio schiacciati su un minivan che sfrecciava su una strada piena di buche. Per poi acuirsi notevolmente durante le due ore abbondanti di ricerca di una stanza disponibile nella cittadina più vicina.
È solo quando ho sentito l'acqua calda della doccia lavare via un po' della polvere accumulata sulla pelle e nei capelli, che ho realizzato dove ci trovavamo realmente.
Thailandia: Bangkok.
Vietnam: Halong Bay.
Cambogia: Angkor Wat.
E il Laos? Il Laos richiede uno sforzo in più rispetto ai Paesi che lo circondano per richiamare alla mente qualcosa di conosciuto.
Per anni è rimasto chiuso al turismo. Una meta poco gettonata che doveva competere con i rinomati vicini di casa.
Oggi la situazione è diversa e moltissimi scelgono di visitare il Laos, il ché è sicuramente un bene per l'economia del Paese, tra i più poveri in questa zona di mondo.
Poco si sa di questo Laos, soprattutto della sua storia più recente.
Anche in questo caso è stato messo "in ombra" dai vicini di casa.
Si parla, per esempio, di "Guerra del Vietnam" ma il Paese più bombardato in quel conflitto terribile fu proprio il Laos. In queste terre passava quello che era chiamato l'Ho Chi Minh Trail". Una serie di sentieri per lo più nella giungla, che permettevano ai Viet Minh del nord del Vietnam di far arrivare le provviste e le munizioni ai combattenti nel sud del Paese.
Quando gli americani scoprirono l'esistenza di questo intricato labirinto di sentieri, iniziarono bombardamenti a tappeto.
E ancora oggi il Laos paga le conseguenze di quegli anni, non solo dal punto di vista della lenta ripresa economica, ma anche con un numero ancora alto di incidenti causati da ordigni inesplosi risalenti a quel periodo.
Entrare in Laos dalla Cina è stato un gigantesco salto indietro e non solo nel tempo.
Ma al tempo stesso è stata anche una gigantesca spinta ad andare più a fondo e capire che quello che vediamo oggi, la polvere, le buche, le capanne e tutto il resto sono il risultato di quello che è successo ieri.
Cinquant'anni non sono bastati per cicatrizzare l'enorme ferita lasciata dalla guerra e chissà quanti ne dovranno ancora passare prima che tutto si sistemi davvero.
Dovrebbero fare un viaggio in questi Paesi tutti coloro che oggi sostengono che la guerra sia un modo valido per sistemare le cose. Che poi come si può pensare di sistemare qualcosa, distruggendo tutto?