Lecco: il racconto di 'Gnaro', ospite del CAI. Ha salito tutti gli Ottomila senza ossigeno

«Ho ancora molte porte aperte nel mondo. Significa che mi sono comportato bene e questo è quello che conta. Si può fare ciò che si vuole nella vita e nell’alpinismo. L’importante è essere onesti e sinceri». Parole di Silvio “Gnaro” Mondinelli, 65 anni, origini della Val Trompia ma trapiantato ad Alagna, alle falde del Monte Rosa, dove era arrivato per lavorare nella Guardia di finanza e dove ha scoperto la montagna che è poi diventata la sua vita. Dopo Reinhold Messner e Sergio Martini è il terzo italiano ad avere salito tutti i quattordici Ottomila senza ossigeno. Ieri sera è stato ospite del Cai lecchese, nell’ambito delle celebrazioni per i 150 anni della sezione, in un incontro tenutosi alla Casa dell’economia. 
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Silvio "Gnaro" Mondinelli

Dopo la proiezione di un documentario deadicatogli da Sky-Tv, Mondinelli, per tutti "Gnaro", ha raccontato se stesso intervistato dalla giornalista Sara Sottocornola, dopo i saluti della presidente sezionale del Cai Adriana Baruffini e dell’assessore comunale agli eventi Giovanni Cattaneo. E con un pensiero – da parte dello stesso alpinista - per gli amici lecchesi e in particolare per Marco Anghileri, del quale proprio il giorno prima ricorreva il decennale dalla tragica scomparsa sul Monte Bianco, e per Mariolino Conti, disperso dal mese di novembre sulle montagne valtellinesi e che proprio ieri avrebbe compiuto 80 anni.
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Le vette che superano gli ottomila metri, concentrate tra Himalaya e Karakorum in Asia, come detto, sono quattordici: sono stati 33 gli alpinisti che le hanno scalate tutte, ma solo 15 senza ossigeno. Tra loro, appunto, Mondinelli che in vetta a un ottomila in realtà ci è salito complessivamente 21 volte, in un’occasione con l’ossigeno, «e vi assicuro che è come farlo con la bicicletta elettrica».
Si è presentato «come una persona normale, «e se ho fatto quello che ho fatto è perché molti mi hanno aiutato». Tra i molti anche la sua famiglia che ha sofferto per le lunghe assenze anche in momenti importanti come la nascita della figlia o la prima comunione e la cresima dei figli, «perché ero in giro per il mondo. Certo faticavo, ma facevo la bella vita, ma ti fa pensare quando torni a casa e tuo figlio ti dice di smetterla d’andare in giro, che voleva un papà che stesse a casa a giocare con lui». E se ora della moglie parla di ex, «non posso ricordare che anche lei è tra le persone che mi hanno aiutato molto perché certe cose andrebbero fatte da giovani, quando non si hanno fidanzate e famiglia».
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«Quand’ero giovane – ha continuato – i miei mi dicevano che era come avessero un figlio drogato, sempre a preoccuparsi di quello che facevo. Accendevano un cero, il parroco suonava le campane quando arrivavo in vetta, le donnette di chiesa pregavano e forse è servito anche quello. In fondo, io ho visto un mussulmano pregare per un cristiano». Perché in certi momenti fai i conti anche con le disgrazie e la morte: il compagno deceduto durante una spedizione e quelli con le dita congelate e amputate. Ogni volta che succedeva qualcosa ci si prendeva una sbornia che durava due giorni. «Paura della morte? È una ruota, la vita: gira e c’è uno che entra per un altro che esce. In fondo, la paura è utile, la paura è una cosa che hai quando sei comunque preparato e sai che puoi affrontare certe situazioni. È diverso dal terrore: quello ce l’avevo quando andavo a scuola e non avevo studiato: lì, sì, che non ero pronto». Però con l’età, aumenta anche il fardello dei ricordi, delle persone che ormai non ci sono più: «Molti dei miei compagni ormai sono morti. Da quando ho cominciato, nel 1978, ormai sono mancate sessanta delle persone con cui ho arrampicato».
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Con Emilio Aldeghi

E sono perdite che lasciano il segno, visto che la vera grande sfida nell’alpinismo è incontrare i compagni giusti, «proprio come nella vita, è la cosa più difficile». Difficile come «trovare i soldi per partire» che non è solo una battuta, visto che agli esordi della sua carriera gli toccava vendere i fucili: «Vengo da una valle di armaioli. In casa avevo una rastrelliera con dodici fucili. La prima volta, per partire, ne ho venduti due e poi, di volta in volta, tutti gli altri. Così non sono più andato a caccia. Anche se poi mi è anche passata la voglia, quando ad Alagna vedo gli animali arrivare fin quasi a casa. Mio nonno si arrabbiava».
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Con Valerio Annovazzi

«Oggi – ha continuato – è forse più facile. È cambiato tutto, non so se in bene o in male. In tutte le cose c’è il progresso. Forse una volta le cose si facevano per se stessi. Ora arrivano in cima e mettono subito in Instagram e TikTok le foto. Una volta nei rifugi si andava di brodo di gallina e poi si beveva, si cantava, si giocava a morra, adesso ci sono quelli che non staccano gli occhi dall’orologio e dalle mappe, hanno tempi da rispettare e fra un po’ nei rifugi si troverà anche l’aragosta. Ma non è un rimprovero ai giovani. Ce ne sono di fortissimi. Io non provo invidia per nessuno, ma ammirazione per tutti quelli che fanno le cose che io non so fare. Ciascuno fa quello che vuole, ma deve essere onesto e sincero. E il mondo è fatto di gente onesta e disonesta. E anche gli alpinisti sono uomini come tutti».
E nell’alpinismo che cambia, ormai, c’è anche un ruolo sempre più massiccio delle donne. Parlando della spedizione italo-pakistana tutta femminile sul K2, Mondinelli ha raccontato di avere avuto compagne di spedizione, «e se i maschi non fanno gli imbecilli, è bello avere una compagnia di questo tipo. Inoltre, sono forti, fortissime. E molto più testarde di noi».
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Da parte sua Sottocornola ha sottolineato anche altri aspetti di “Gnaro”: il suo prestare soccorso ad altri alpinisti nonostante questo mandasse a monte piani e magari lo stesso arrivo in vetta, le sue iniziative con la onlus “Amici del Monte Rosa” che ha aperto una scuola e un orfanotrofio in Nepal e avviato programmi di adozione a distanza per consentire ai bambini di studiare, «e sarebbe bello che ogni tanto qualcuno di quelli che abbiamo aiutato si ricordasse di noi e ci mandasse una cartolina...».
Adesso, a 65 anni, «non faccio più Ottomila, vado su montagne non troppo alte, in giro con gli amici, con i clienti». Ad andare sugli Ottomila ancora a 66 anni è invece il bergamasco Valerio Annovazzi, camionista e muratore in pensione che ha cominciato tardi a farlo, a 54, e ora ne ha collezionati cinque, nonostante due infarti alle spalle. Ieri sera ha voluto essere presente all’incontro lecchese e conoscere Mondinelli per dirgli che il suo libro (“Sali un Ottomila”) gli è stato prezioso: «Ho cominciato da lì». E “Gnaro” ha voluto chiamarlo sul palco.
Alle fine, il presidente del Cai regionale, il lecchese Emilio Aldeghi, ha regalato a “Gnaro” la maglia dei 150 anni della sezione.
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Dario Cercek
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