Lecco: in Ospedale dialogo sul senso della vita, del dolore e della morte. Con l'esperienza, da paziente, del farmacista Riva

Per cosa ho vissuto fino a oggi? E per cosa vivrò d’ora in poi. Una riflessione sulla malattia e sulla morte: lo spunto è stato dato dalla mostra allestita all’ospedale di lecco e dedicata alla figura di Paolo Takashi Nagai, il medico giapponese nato nel 1908 e morto nel 1951: sopravvissuto alla bomba di Nagasaki per la quale ha perso la moglie e tutto quanto aveva, a sua volta vittima della leucemia, è stato punto di riferimento della ricostruzione e per le attività di assistenza ai malati. La mostra, già visitata da circa 1.500 persone, è aperta oggi per l’ultimo giorno fino alle 17.
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Dunque, «per cosa ho vissuto fino a oggi? E per cosa vivrò d’ora in poi», un interrogativo che è la ricerca del senso della vita che ha accompagnato gli ultimi anni di vita di Nagai, le cui parole sono state spesso citate nell’incontro tenutosi ieri sera in un’aula magna dello stesso ospedale, gremitissima.
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A cercare di rispondere all’interrogativo di Nagai sono stati l’infermiere del reparto di rianimazione Alessandro Negri, l’oncologo Antonio Ardizzoia e Alberto Riva, che i lecchesi conoscono per il suo lavoro di farmacista e che ha raccontato la propria esperienza di paziente oncologico. Moderatore, Gianluca Bezzi.
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Alessandro Negri
«L’anno scorso – ha detto Negri – con mia moglie e altri colleghi ci interrogavamo su quanto succedeva in reparto. C’era un senso di sconforto. Ed è nata l’idea di portare a Lecco la mostra su Nagai, un personaggio che nella sua vita cercava la verità assistendo e curando le persone. Non è una ricetta magica, ma permette di andare oltre il lamento. Se guardo al futuro vedo sempre più sfide e molti ostacoli che non voglio affrontare con il lamento nel cuore. C’è bisogno di appartenere a qualcosa di più grande, che non muore mai. Voglio che quello che faccio in Rianimazione abbia un senso. Affronto sempre più spesso il tema e la realtà della morte e il progredire dei macchinari esaspera la domanda di senso: far vivere più a lungo le persone, portare all’estremo il corpo…». E allora il senso è anche essere solo un gesto: «Quello che nobilita la mia professione è il gesto, per un infermiere è tutto: la capacità di capire in mezzo a tante difficoltà le necessità di un malato e poterlo aiutare. O ridare un aspetto “vero” ai pazienti che è fargli recuperare la propria immagine. Un paziente ricoverato a lungo in Rianimazione dopo un po’ quasi non si riconosce riflesso in uno specchio e nel vetro di finestra. E allora gli si lavano i capelli, la faccia, se è una donna e lo gradisce aiutarla a truccarsi. Così, quelle persone possono riguardarsi e recuperare dignità. E sono gesti che possono anche avere ripercussioni sull’aspetto clinico. L’ospedale è un luogo pazzesco: si vive, si lavora, nascono bambini e si gioisce per quello, muoiono persone e si è tristi. E tutto accade magari nel giro di poco tempo. Perciò bisogna vivere minuto per minuto e così si possono affrontare le diverse situazioni. Portare a Lecco la mostra, coinvolgendo molte persone che si sono messe a disposizioni volontariamente, è stata un’occasione per riscoprire la gratuità intesa come presenza dell’individuo nel suo ambiente senza sfuggire alle domande».
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Antonio Ardizzoia
Anche il dottor Ardizzoia ha preso spunto dalle parole di Nagai, sottolineando alcuni dei temi affrontati dal medico giapponese: la ricerca di un cambiamento; la ricerca di qualcosa di più grande di quel che si ha, più grande della quotidianità; il rapporto tra umanità e scienza. «Le sofferenze – ha continuato il medico - Nagai le ha sperimentate sugli altri e su se stesso e quelle sofferenze danno un significato a molti suoi gesti, la sua malattia gli è stata utile per capire i pazienti. Io sono un oncologo da 35 anni e quando mi incontra molta gente mi guarda storto e fa gli scongiuri. Eppure il mio lavoro mi piace perché unisce due aspetti: quello scientifico e quello umano. Non condivido chi dice che l’esperienza medica sia solo scientifica o solo umanistica. La scienza è importante: i suoi progressi ci hanno dati nuove cure per affrontare il cancro, una parola ancora tabù. Ma il mio lavoro non avrebbe senso se non ci fosse l’aspetto umano. Perché l’oggetto del mio lavoro è l’essere umano soprattutto se soffre per il cancro, con paure reali e a volte ingigantite. Per entrare nel reparto di oncologia c’è una brutta porta tagliafuoco rossa: molti di noi la guardano e non ci fanno caso, altri pensano che è una brutta porta, ma molti malati la vedono come la porta dell’inferno, quando la varcano si chiedono cosa succederà. Il paziente malato di cancro si trova di fronte alla paura di perdere il lavoro, gli affetti, il ruolo sociale, il benessere, tutte le proprie certezze: tutto quello che per anni ha rappresentato il fine della vita perde significato o forse diventano il mezzo per trovare altri fini. E anche quello è un momento di vita, la sofferenza fisica, psichica, umana. Anche la malattia è un tempo della propria vita. Dobbiamo dare tempo agli ammalati, ma questo tempo spetta al singolo: farlo diventare vita, riempirlo di significati. Proprio come Nagai che, durante la guerra cino-giapponese, con altri soldati si sono messi ad allevare bachi da seta… La malattia modifica le persone, fisicamente e moralmente. Ma non modifica la persona umana che resta la stessa, con tutta la sua dignità. Nonostante il cancro, la chemioterapia, gli oncologi. Anzi, proprio questo “nonostante” è la svolta: nonostante la malattia, nonostante le persone che ti stanno attorno. Anche noi oncologi, soprattutto ora che invecchiamo, cominciamo a trasferire su noi stessi quello che vediamo: potremmo essere noi quelle persone e vorremmo essere trattati con dignità».
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Alberto Riva
Da parte sua, Alberto Riva ha ripercorso la sua malattia, un cancro allo stomaco, scoperta durante il confinamento per il covid: «Non è a cuor leggero che parlo, è faticoso. Ero in ospedale, aspettavo l’esito degli esami, ma sapevo già, sono un farmacista. In quei momenti ti senti solo: ho chiamato mia moglie, alcuni amici. Sono andato in un ospedale bergamasco per essere operato, non volevo la chemioterapia, ma mi hanno aperto e richiuso, la chemioterapia era l’unica strada: lì ho capito che la vita stava cambiando. L’oncologo a cui chiesi cosa avrei potuto fare nel frattempo, mi disse: “Hai tempo per sistemare le tue cose”. Mi sono arrabbiato: non puoi dirmi così, l’ho guardato male, lui ha capito. Sono venuto dal dottor Ardizzoia. C’è un punto della vita in cui uno si fida o non si fida. Mi sono fidato: chemioterapia e chemioterapia… Ogni due settimane cinque ore e poi a casa con le varie pompette. Ma Ardizzoia mi ha detto le cose come stavano. E durante la chemio, ho conosciuto un’umanità veramente sofferente. C’era chi ti informava su quello che ti sarebbe successo. I pazienti avevano l’umanità delle persone semplici. E in quei momenti ho vissuto quello che significa essere attaccati alla vita. In modo deciso, sincero, vero. Molti amici sono venuti a trovarmi e nessuno ha lasciato perdere la questione della morte. Magari ci scherzavano. E debbo dire che ho avuto più volte subbi sulla fede. Un giorno, mi sono sfogato con un amico: ma se non fosse vero niente? Lui mi ha risposto che solo per il fatto che noi siamo qui, è vero. E queste cose mi hanno venire in mente alcune parole di don Giussani: “Chi sei tu che colmi il mio cuore della tua assenza? Che riempi tutta la terra della tua assenza?”. Ho capito che nel momento in cui neghi Dio, lo affermi ancora di più. Ho capito che nelle pieghe della nostra anima sporca di peccati, incrostata, c’è sempre la mano di Cristo. Tra i pazienti nasce una solidarietà anche con chi non conosci. Dovremmo fare una fraternità dei malati di cancro. E anche nel mio lavoro di farmacista, adesso tratto le persone in modo diverso».
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D.C.
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