In viaggio a tempo indeterminato/311: abbiamo vissuto un'ora all'inferno
Siamo andati all'inferno.
No, non ci ha insultato nessuno e no, non siamo finiti in un film dell'orrore.
Siamo semplicemente entrati in un tempio buddista. Lo so può sembrare una contraddizione perché nell'immaginario collettivo, mio compreso, i templi sono luoghi di pace, calma e serenità.
Stavolta però è stata una di quelle situazioni in cui i vietnamiti direbbero "Đừng xét đoán người qua bề ngoài". L'ho scritto in vietnamita solo perché tutti questi accenti mi fanno impazzire! Non sapevo nemmeno potessero esistere, eppure...
La traduzione della frase è "non giudicare il libro dalla copertina" e si applica perfettamente all'esperienza che abbiamo vissuto.
Tutto è iniziato quando abbiamo deciso di visitare un tempio nella cittadina di Cam Rahn. Niente di inusuale. Qualche dragone dorato, qualche statua del Buddha sorridente che mi riempie di gioia ogni volta che lo vedo, qualche monaco con la tunica arancione. Un tempio come molti altri in cui abbiamo sbirciato nelle ultime settimane in Vietnam. Forse questo era un pochino più "pacchiano" degli altri, dati i colori sgargianti delle innumerevoli statue, ma nulla che potesse presagire quello che sarebbe successo dopo.
Avevamo appena finito di pranzare con un "com chay" un piatto di riso, verdure e tofu. Spesso i ristoranti vegani si trovano vicino a un tempio. Questo perché, secondo il buddhismo, andrebbe seguita una dieta vegana o vegetariana. I monaci adottano questo tipo di alimentazione, mentre le altre persone possono decidere di farlo soltanto in determinati giorni del calendario lunare.
Con le pance piene e ancora un po' indolenziti dal viaggio in moto (non è vero che dopo un po' il dolore al fondoschiena passa!) gironzolavamo per il giardino del tempio, seguendo code di dragoni e cercando di capire perché ci fossero statue di cerbiatti intenti ad ascoltare gli insegnamenti del Buddha.
Ad un tratto, ci si avvicina un monaco, testa rasata e passo deciso.
"Oh!" dice con un volume di voce più alto del previsto, mentre ci fa cenno di seguirlo.
Cammina veloce e noi, mezzi doloranti, facciamo fatica a stargli dietro. A passo rapido attraversiamo il giardino e passiamo accanto a varie pagode, una più colorata e allegra dell'altra. Ad un tratto il monaco svolta bruscamente a destra e si infila tra le radici di un gigantesco albero.
Lo seguo perché "è un monaco, cosa può andare storto?". Poi lui si ferma e a gesti mi fa capire che dobbiamo entrare in una specie di grotta e che ci servirà una luce quindi meglio accendere la torcia del telefono.
"Ok, grazie!" gli dico, chinando leggermente la testa. Quando rialzo lo sguardo è sparito e io sono circondata da fastidiose zanzare.
La grotta è fin da subito piuttosto buia. Le pareti, il soffitto e persino parte del sentiero sono realizzati con coralli e conchiglie. Ci incamminiamo subito, con la testa bassa per non sbattere contro parti di corallo sporgenti. Mentre facciamo i primi passi incerti tra me e me penso "chissà chi ha costruito questa grotta e perché".
"Si sta freschi qui, bello umido!" mi dice Paolo ridendo.
Siamo allegri, ridiamo e scherziamo sul fatto che i vietnamiti sono evidentemente più bassi e più magri di noi per passare agevolmente lì dentro.
Passano i primi 10 minuti e la grotta si trasforma sempre di più in un claustrofobico labirinto. Non si vede l'uscita, non si vede niente.
Incespichiamo nel buio tra un "mi ricordi perché lo stiamo facendo?" e un "ormai non ci conviene tornare indietro, tra poco sarà finita". L'umore è ancora alto e noi scherziamo e ridiamo per quella situazione bizzarra.
30 minuti dopo la questione cambia. Io inizio ad andare nel panico e mi vengono in mente tutte le cose che potrebbero succederci lì dentro. "Nessuno ci troverà mai qui sotto" sussurro a Paolo che inizia a urlare "Helooooo, anyone there!".
Il silenzio riempie quegli spazi angusti e umidi. Per terra le conchiglie dell'ingresso hanno lasciato il posto al fango e si scivola. L'uscita non si vede e la sensazione è quella che stiamo girando in tondo.
I nervi stanno cedendo e inizio a pensare a quel monaco. Magari odia i turisti stranieri perché gli ricordano gli americani che hanno distrutto il suo Paese nemmeno cinquant'anni fa. Ma no, ma no è un monaco non può odiare così gratuitamente.
Magari ci ha visti sorridere guardando la statua del cerbiatto e ci sta facendo uno scherzo. Se ci sono gli "scherzi da prete" ci saranno anche quelli da monaco.
"C'è una freccia bianca, sarà l'uscita!" mi dice Paolo euforico, interrompendo i miei pensieri deliranti. È davanti a me di qualche metro ma riesco a malapena a vederne l'ombra.
"Menomale, non ce la facevo più".
Seguiamo quella freccia come fosse una stella cometa e noi avessimo nello zainetto oro, incenso e mirra.
Piano piano il tunnel si allarga ma... no, non è l'uscita. Ci ritroviamo in una stanza un pochino più larga con le pareti dipinte di bianco e con alcuni disegni nei colori del rosso e del nero. Non ci mettiamo molto a capire che rappresentano le torture dell'inferno.
Le osservo per qualche istante e vedo gente che urla, fiamme, esseri diabolici. Fa un certo effetto. Non sono tanto le immagini a colpirmi, la realtà fuori da questa umida grotta ora è anche peggio in certe parti del mondo. Quello che più mi fa tremare le gambe è che non ho la benché minima idea di dove ci troviamo. Potremmo essere sotto terra di svariati metri, oppure a pochi passi da dove siamo entrati. Non ho riferimenti, non so quando finirà, non so cosa ci sarà oltre quella stanza.
Sì lo so, forse può sembrare un po' drammatico. Ma la paura dell'ignoto un po' accompagna tutti.
Quello che non sapevo e che poi ho scoperto dopo, è che stavo vivendo l'esperienza esattamente come andava vissuta.
Quel tunnel infatti è chiamato il "sentiero verso l'inferno" o "Diyu".
Si tratta di una specie di purgatorio in cui le anime vengono portate dopo la morte per espiare i peccati commessi quando erano in vita. Sono diciotto i livelli che un'anima deve superare e ad ognuno è presente un tribunale che si occupa di un aspetto diverso dell'espiazione e di punizioni diverse.
La maggior parte delle leggende dicono che i peccatori sono sottoposti a torture raccapriccianti fino alla loro "morte", dopo di che vengono riportati all'inzio e si ricomincia da capo con le torture.
Ho i brividi a pensarci ma sono felice di averlo scoperto solo una volta uscita da quel labirinto.
Un'ora, siamo stati lì dentro un'ora. La testa sempre più bassa per i pipistrelli che volavano vicinissimo a noi e gli occhi sempre più aperti per evitare di avvicinarci troppo ai topi che correvano sulla parete accanto.
Quando ho visto la luce in fondo al tunnel ho smesso di tenere il fiato. L'aria mi sembrava più fresca, le foglie delle palme più verdi e il cielo più grande. Siamo usciti dalla testa di un gigantesco dragone e ho capito che tutto quel percorso l'avevamo fatto lì dentro, nelle viscere di quel lungo serpente dorato.
Ad aspettarci un bellissimo tempio fatto di conchiglie. Non ne avevo mai viste così tante tutte insieme.
Questa esperienza mi ha insegnato molte cose su me stessa e sulle mie paure. Mi ha ricordato che per le cose belle si deve fare fatica ma poi tutto lo sforzo viene ripagato.
E mi ha anche fatto capire che se un monaco ti urla "oh!" non devi mai seguirlo!
No, non ci ha insultato nessuno e no, non siamo finiti in un film dell'orrore.
Siamo semplicemente entrati in un tempio buddista. Lo so può sembrare una contraddizione perché nell'immaginario collettivo, mio compreso, i templi sono luoghi di pace, calma e serenità.
Stavolta però è stata una di quelle situazioni in cui i vietnamiti direbbero "Đừng xét đoán người qua bề ngoài". L'ho scritto in vietnamita solo perché tutti questi accenti mi fanno impazzire! Non sapevo nemmeno potessero esistere, eppure...
La traduzione della frase è "non giudicare il libro dalla copertina" e si applica perfettamente all'esperienza che abbiamo vissuto.
Tutto è iniziato quando abbiamo deciso di visitare un tempio nella cittadina di Cam Rahn. Niente di inusuale. Qualche dragone dorato, qualche statua del Buddha sorridente che mi riempie di gioia ogni volta che lo vedo, qualche monaco con la tunica arancione. Un tempio come molti altri in cui abbiamo sbirciato nelle ultime settimane in Vietnam. Forse questo era un pochino più "pacchiano" degli altri, dati i colori sgargianti delle innumerevoli statue, ma nulla che potesse presagire quello che sarebbe successo dopo.
Avevamo appena finito di pranzare con un "com chay" un piatto di riso, verdure e tofu. Spesso i ristoranti vegani si trovano vicino a un tempio. Questo perché, secondo il buddhismo, andrebbe seguita una dieta vegana o vegetariana. I monaci adottano questo tipo di alimentazione, mentre le altre persone possono decidere di farlo soltanto in determinati giorni del calendario lunare.
Con le pance piene e ancora un po' indolenziti dal viaggio in moto (non è vero che dopo un po' il dolore al fondoschiena passa!) gironzolavamo per il giardino del tempio, seguendo code di dragoni e cercando di capire perché ci fossero statue di cerbiatti intenti ad ascoltare gli insegnamenti del Buddha.
Ad un tratto, ci si avvicina un monaco, testa rasata e passo deciso.
"Oh!" dice con un volume di voce più alto del previsto, mentre ci fa cenno di seguirlo.
Cammina veloce e noi, mezzi doloranti, facciamo fatica a stargli dietro. A passo rapido attraversiamo il giardino e passiamo accanto a varie pagode, una più colorata e allegra dell'altra. Ad un tratto il monaco svolta bruscamente a destra e si infila tra le radici di un gigantesco albero.
Lo seguo perché "è un monaco, cosa può andare storto?". Poi lui si ferma e a gesti mi fa capire che dobbiamo entrare in una specie di grotta e che ci servirà una luce quindi meglio accendere la torcia del telefono.
"Ok, grazie!" gli dico, chinando leggermente la testa. Quando rialzo lo sguardo è sparito e io sono circondata da fastidiose zanzare.
La grotta è fin da subito piuttosto buia. Le pareti, il soffitto e persino parte del sentiero sono realizzati con coralli e conchiglie. Ci incamminiamo subito, con la testa bassa per non sbattere contro parti di corallo sporgenti. Mentre facciamo i primi passi incerti tra me e me penso "chissà chi ha costruito questa grotta e perché".
"Si sta freschi qui, bello umido!" mi dice Paolo ridendo.
Siamo allegri, ridiamo e scherziamo sul fatto che i vietnamiti sono evidentemente più bassi e più magri di noi per passare agevolmente lì dentro.
Passano i primi 10 minuti e la grotta si trasforma sempre di più in un claustrofobico labirinto. Non si vede l'uscita, non si vede niente.
Incespichiamo nel buio tra un "mi ricordi perché lo stiamo facendo?" e un "ormai non ci conviene tornare indietro, tra poco sarà finita". L'umore è ancora alto e noi scherziamo e ridiamo per quella situazione bizzarra.
30 minuti dopo la questione cambia. Io inizio ad andare nel panico e mi vengono in mente tutte le cose che potrebbero succederci lì dentro. "Nessuno ci troverà mai qui sotto" sussurro a Paolo che inizia a urlare "Helooooo, anyone there!".
Il silenzio riempie quegli spazi angusti e umidi. Per terra le conchiglie dell'ingresso hanno lasciato il posto al fango e si scivola. L'uscita non si vede e la sensazione è quella che stiamo girando in tondo.
I nervi stanno cedendo e inizio a pensare a quel monaco. Magari odia i turisti stranieri perché gli ricordano gli americani che hanno distrutto il suo Paese nemmeno cinquant'anni fa. Ma no, ma no è un monaco non può odiare così gratuitamente.
Magari ci ha visti sorridere guardando la statua del cerbiatto e ci sta facendo uno scherzo. Se ci sono gli "scherzi da prete" ci saranno anche quelli da monaco.
"C'è una freccia bianca, sarà l'uscita!" mi dice Paolo euforico, interrompendo i miei pensieri deliranti. È davanti a me di qualche metro ma riesco a malapena a vederne l'ombra.
"Menomale, non ce la facevo più".
Seguiamo quella freccia come fosse una stella cometa e noi avessimo nello zainetto oro, incenso e mirra.
Piano piano il tunnel si allarga ma... no, non è l'uscita. Ci ritroviamo in una stanza un pochino più larga con le pareti dipinte di bianco e con alcuni disegni nei colori del rosso e del nero. Non ci mettiamo molto a capire che rappresentano le torture dell'inferno.
Le osservo per qualche istante e vedo gente che urla, fiamme, esseri diabolici. Fa un certo effetto. Non sono tanto le immagini a colpirmi, la realtà fuori da questa umida grotta ora è anche peggio in certe parti del mondo. Quello che più mi fa tremare le gambe è che non ho la benché minima idea di dove ci troviamo. Potremmo essere sotto terra di svariati metri, oppure a pochi passi da dove siamo entrati. Non ho riferimenti, non so quando finirà, non so cosa ci sarà oltre quella stanza.
Sì lo so, forse può sembrare un po' drammatico. Ma la paura dell'ignoto un po' accompagna tutti.
Quello che non sapevo e che poi ho scoperto dopo, è che stavo vivendo l'esperienza esattamente come andava vissuta.
Quel tunnel infatti è chiamato il "sentiero verso l'inferno" o "Diyu".
Si tratta di una specie di purgatorio in cui le anime vengono portate dopo la morte per espiare i peccati commessi quando erano in vita. Sono diciotto i livelli che un'anima deve superare e ad ognuno è presente un tribunale che si occupa di un aspetto diverso dell'espiazione e di punizioni diverse.
La maggior parte delle leggende dicono che i peccatori sono sottoposti a torture raccapriccianti fino alla loro "morte", dopo di che vengono riportati all'inzio e si ricomincia da capo con le torture.
Ho i brividi a pensarci ma sono felice di averlo scoperto solo una volta uscita da quel labirinto.
Un'ora, siamo stati lì dentro un'ora. La testa sempre più bassa per i pipistrelli che volavano vicinissimo a noi e gli occhi sempre più aperti per evitare di avvicinarci troppo ai topi che correvano sulla parete accanto.
Quando ho visto la luce in fondo al tunnel ho smesso di tenere il fiato. L'aria mi sembrava più fresca, le foglie delle palme più verdi e il cielo più grande. Siamo usciti dalla testa di un gigantesco dragone e ho capito che tutto quel percorso l'avevamo fatto lì dentro, nelle viscere di quel lungo serpente dorato.
Ad aspettarci un bellissimo tempio fatto di conchiglie. Non ne avevo mai viste così tante tutte insieme.
Questa esperienza mi ha insegnato molte cose su me stessa e sulle mie paure. Mi ha ricordato che per le cose belle si deve fare fatica ma poi tutto lo sforzo viene ripagato.
E mi ha anche fatto capire che se un monaco ti urla "oh!" non devi mai seguirlo!
Angela (e Paolo)