SCAFFALE LECCHESE/182: il paesaggio di Manzoni descritto cento anni fa da monsignor Polvara

Si va archiviando l’anno 150 dalla morte di Alessandro Manzoni, trascorso senza impeti particolari. Sarà che su “quel ramo del lago” il Manzoni e i suoi “Promessi sposi” sono ormai pietanza talmente quotidiana da non poterne quasi più. Una sorta di piatto tipico da lasciare a turisti e scolaresche alla ricerca di luoghi improbabili e di panorami ormai irriconoscibili. Del resto, già cent’anni fa esatti, anno 1923 e dunque cinquantesimo dalla morte dello scrittore, si paventava l’irrimediabile scomparsa del paesaggio manzoniano nel frattempo già messo a più che dura prova. 
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Monsignor Giuseppe Polvara
Ne scriveva monsignor Giuseppe Polvara (1884-1950), figura che la nostra città si accontenta di ricordare con la strada che gli è intitolata nel rione di Belledo e che invece meriterebbe attenzione maggiore. Fu infatti personaggio di non trascurabile levatura. Nato a Pescarenico, fu un sacerdote ma anche un artista e un architetto: progettò diverse chiese, diresse la rivista “Arte Cristiana” e soprattutto fondò nel 1921 la scuola Beato Angelico, ancora oggi punto di riferimento importante per l’arte cristiana contemporanea.
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Nel maggio 1923, monsignor Polvara dava alle stampe, per la Società “Sfrai”, un’editrice milanese della quale abbiamo perso le tracce, le “Memorie di Alessandro Manzoni e dell’opera sua nel territorio di Lecco”. Si tratta di un volume che ancora ci appare elegante e nel quale il sacerdote lecchese raccolse una serie di immagini per documentare appunto il paesaggio manzoniano prima che il tempo lo cancellasse.
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Scriveva infatti: «L’esser nato a Pescarenico e l’aver avuto la fortuna di conoscere e di amare fin da fanciullo i luoghi scelti come principale scenario dei Promessi Sposi, mi ha fatto ritenere come un obbligo quello di contribuire alla commemorazione manzoniana. A questo proposito sono venuto raccogliendo il materiale illustrativo dei cimeli di A. Manzoni rimasti nel territorio di Lecco e l’altro materiale illustrante i luoghi e le cose rese celebri nel grande Romanzo. Io ho la speranza di non aver compiuto un lavoro inutile, perché purtroppo molti di questi particolari dell’ambiente manzoniano andarono distrutti, alcune volte per le necessità del progresso, altre per incuria o cattiva volontà di chi avrebbe dovuto invece salvarli a ogni costo. Altri ricordi importantissimi rimangono ancora ai dì nostri e si potrebbero a tutto agio conservare, ma io vivo nel continuo timore di vederli presto demoliti o trasformati irreparabilmente. Dio voglia che anche questo mio lavoro serva a far nascere il proposito di salvare in quest’anno commemorativo, tutto quanto ci è rimasto e specialmente la fabbrica del convento di Pescarenico».
Il_campaniletto_di_Pescarenico.jpg (93 KB)Al convento, Polvara era particolarmente legato e vi avrebbe dedicato un proprio studio. Già in questa occasione si era preso la briga di disegnare una mappa del convento così come doveva essere in origine. Nel contempo temeva che nuovi scempi si sarebbero aggiunti a quelli già verificatisi. Smantellato nell’epoca napoleonica, nel 1921 era stato trasformato in fabbrica di chiodi. Del resto Pescarenico con il suo convento è «il luogo più sicuro» del romanzo: «Quando A. Manzoni scriveva i Promessi Sposi diceva che la fabbrica del convento sussisteva ancora. Dopo un secolo, non possiamo dire che il tempo e gli uomini abbiano rispettato quella costruzione, però si può ancora dire che le rovine sono minori di quanto da alcuni si suppone». Polvara denunciava un rustico scomparso interamente, gli interventi al campaniletto triangolare al quale «fu tolta l’armonia architettonica con lo spostamento delle campane che originariamente erano due, una per piano», mentre «la chiesa venne decorata a sproposito circa vent’anni fa, ma già fin d’allora era scomparso l’antico altar maggiore ed era stato demolito il muro che divideva l’altare dal coro» e inoltre «non rimaneva alcuna traccia dell’ancona e del prezioso tabernacolo in ebano (…) mentre la preziosa pala del Cerano era stata appesa ad una parete della chiesa»; però «rimanevano ancora i due antichi altarini di S. Felice e S.Antonio colle buone tele dei due santi e colle armoniose decorazioni settecentesche, che ora furono rimosse per lasciar posto a due insulsi altari di marmo». Rimaneva anche l’altare della Madonna Addolorata che ancora oggi delizia i visitatori: «L’altare è prezioso soprattutto per i quadri dei misteri che lo compongono. Io credo che questo altare sia venuto a Pescarenico ai primi del 1800 dopo la soppressione del convento di Riformati di Castello [dove c’era] un’ancona nella quale “oltre l’immagine della Madre di Dio di rilievo ve ne sono altre molto piccole di cera con meraviglioso artificio lavorate, quali rappresentano sette delli quindici sacri misteri”. Veramente noi nell’altare ne troviamo appena sei di misteri, se escludiamo il quadro centrale colla visita dei Re Maggi che non fa parte dei misteri del Rosario. (…) Ne ho riportato le illustrazioni per il loro pregio ed anche perché le mie argomentazioni potrebbero anche essere smentite da ulteriori ricerche».
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Infine, monsignor Polvara ricordava come nella chiesa di Pescarenico si conservasse «ancora un “Catalogo dei Religiosi e secolari sepolti in questa nostra chiesa”. Come curiosità è interessante il nome di Padre Cristoforo da Barzio, forse quello che, come accenna Antonio Stoppani, destò la simpatia del giovinetto Alessandrino, venuto una sere a Pescarenico per la Benedizione del S.S.Sacramento, e che fors’anche era lontano parente, come ne può far credere la comune origine da Barzio». 
Riprodotta in copia, questa pagina del Catalogo è oggi indicata dalle guide manzoniane con una strizzatina d’occhio…
Le “Memorie” ci descrivono comunque il paesaggio manzoniano dall’inizio. Dallo scorcio della città così com’era ai tempi del Manzoni. O. meglio. Come avrebbe potuto essere. Perché don Polvara dice di essersi dovuto accontentare di un’incisione del 1830, non avendo trovato raffigurazioni precedenti, «però io credo che ci rappresenti un ambiente poco dissimile dall’ambiente antecedente al 1818, perché la viabilità e l’edilizia in quei tempi seguivano un ritmo di svolgimento lentissimi». C’è comunque la ricostruzione della topografia con una mappa del 1800 e l’incanto della conca lecchese ce lo offre un disegno del pittore Carlo Pizzi (1842-1909).
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Si passa poi alla Villa del Caleotto, «località di campagna raggiungibile da una stradicciuola detta del Colombaio» raffigurata in un quadro dello stesso Pizzi.
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In quanto alla visita «della casa al Caleotto, prima che la fabbrica fosse recinta e soffocata dagli stabilimenti, si poteva abbracciare tutto il panorama dei Promessi Sposi». E «nel giardino ancora dominano sempre gli annosi cipressi tanto cari al poeta e dei quali chiedeva ancora conto all’ingegnere Scola negli ultimi anni della sua vita». Così come chiedeva se ancora esistessero «le sue grisaglie, il suo lampadario di Murano, il calamaio colla Samaritana, i suoi mobili». 
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Di quei cipressi, qualcosa dovrebbe essere rimasto, sopravvissuto al violento smembramento del parco negli anni Sessanta del Novecento per la costruzione dell’istituto per ragionieri.
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Ci si sposta poi al Bione dove c’era il famoso paretaio, il roccolo di caccia «che divenne più tardi proprietà di Antonio Stoppani, ma l’antico casotto era stato tolto dall’arch. Boara (Giuseppe Bovara, ndr) amico d’infanzia del Manzoni e conservato in sua memoria».
C’è poi il palazzotto di don Rodrigo con un accenno estetico («L’esterna decorazione a fasce tricolori ne disturba la linea severa») e un altro storico più leggendario che reale («Si vuole che questa casa nei primi del 1800 fosse ritrovo di patrioti e si dice che qualche volta avesse partecipato ai convegni anche il giovane Manzoni».
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Ci sono i paesi dei due promessi, l’enigma della casa di Lucia: le distanze non tornano, «Manzoni non ha voluto copiare veristicamente il territorio». E quello della chiesa: con l’ombra lunga e acuta del campanile proiettata dalla luna sulla piazza della Chiesa: «Né il campanile di Acquate né quello di Olate hanno il cono cestile»; in tutto il territorio, l’unico campanile di quel genere è a Malgrate che non c’entra con il paese dei nostri fidanzati e del loro curato.
La_cappelletta_di_Malgrate.jpg (70 KB)Però, a Malgrate, il Manzoni ci andava per “diporto” e lì può anche avere avuto l’ispirazione per la cappelletta dell’agguato dei bravi a don Abbondio. A proposito del celebre “tabernacolo”, scrive infatti il nostro monsignore: «Ne individuiamo due. Uno di questi è ora completamente scomparso, e forse era quello che meno corrispondeva alla descrizione. L’altro più a sud fu rifatto allo stesso posto, ma ora ne è caduta la pittura». E allora «per dare un’idea di questi tabernacoli, ho creduto di riproporre quello che esiste tuttora a Malgrate colle anime e le fiamme del Purgatorio». Visto che, appunto, «Manzoni giovinetto si recava a diporto a Malgrate e non è improbabile che questa cappelletta gli sia rimasta impressa nelle fantasie».
Dario Cercek
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