'Il teatro è la mia vita': Luca Radaelli presenta a Lecco il suo romanzo familiare
Un romanzo familiare, così recita il sottotitolo di “Il teatro è la mia vita”, il libro che Luca Radaelli – attore e regista lecchese, anima di “Teatro Invito” – ha pubblicato da Cinquesensi e presentato ieri sera nella sala di via Foscolo. La famiglia a cui si fa riferimento è appunto quella di Radaelli, raccontata partendo dai bisnonni. E vabbè, uno pensa, ogni famiglia è un romanzo da raccontare: metti in fila ricordi, racconti, testimonianze. Colori un po’ et voilà.
Però, mica tutti hanno un nonno pianista al casinò di Montecarlo che scappa con una ballerina piantando la moglie sola a crescere un figlioletto. Che, dopo, si presentava come vedova, ruolo più dignitoso da sostenere. Per non parlare dello zio: per annullare il primo matrimonio, ricorrendo alla Sacra Rota, si è avvalso dell’abusata scappatoia delle nozze non consumate, pur in presenza di una figlia. Ma concepita – sentite un po’ - quasi magicamente: per via del seme paterno disperso nella vasca da bagno.
C’è naturalmente da immaginare – ha chiosato Radaelli – che l’argomentazione sia stata accompagnata da generose offerte per i poveri. Tanto per fare un paio un paio di esempi. E come fai – si è chiesta l’editrice Sara Vitali – a lasciare nel cassetto una storia così? Già, come fai? Del resto, l’idea che andasse raccontata ha preso corpo riordinando vecchie carte.
«Alla morte di mia mamma – ha raccontato Radaelli – abbiamo aperto gli armadi: ne sono usciti documenti, certificati, lettere. Ho cominciato a leggere tutto: ne è emerso un mondo che mi sembrava molto appassionante e che si intrecciava anche con la storia d’Italia e d’Europa. Ho capito che poteva derivarne un grande racconto».
Il titolo, “Il teatro è la mia vita”, è più di un gioco. Pur evocando il lavoro dell’autore, fa riferimento in realtà agli anni Dieci del Novecento, quando il nonno materno Giuseppe Milani, diciottenne, fu tra i fondatori della Società dilettanti Filodrammatica di Lecco. Che fu teatro anche dell’amore fra Ambrogio Radaelli, il pianista, e la giovanissima attrice Giuseppina Bonacina, «una colonna della compagnia»: inutile dirlo, i nonni paterni, quelli di Montecarlo. Ecco dunque: «Se non ci fosse stata la Filodrammatica, i miei nonni non si sarebbero incontrati e io non ci sarei».
E comunque è già un intrico di legami destinato a intricarsi ulteriormente nei decenni seguenti, se i pensa che oggi la parentela si estende a 22 prozii, 30 cugini di secondo grado, 26 figli di prozii e 4 figli di un cugino di primo grado più un cugino non riconosciuto. Il racconto passa in rassegna le alterne fortune di una vera e propria dinastia lungo l’arco del Novecento, attraversando le guerre mondiali e il Ventennio fascista, seguendone i destini da una città all’altra, gli amori, certe suggestive coincidenze, i nomi che ritornano e si tramandano, epoche quasi gloriose e altre più prosaiche, rovesci e tristezze e risentimenti, le nascite e le morti, «con i personaggi che entrano ed escono proprio come fossero a teatro».
E, appunto, gli episodi della vasca da bagno e del nonno fuggito con la ballerina. Vicenda della quale va raccontato anche il seguito: «Quando mia nonna, da “vedova”, torna a Lecco e va in Comune per alcuni documenti, chi si trova allo sportello? Lui, il marito. Scappa, non vuole più vederlo. Poi, lui, se ne andrà via nuovamente». Ha spiegato Radaelli: «Mi sono interrogato molto sul fatto che ricostruiamo con la memoria qualcosa che non c’è più e che ci sembra invece ancora più vivo. Proprio come succede a teatro, è il paradosso dell’arte».
Se i pilastri della storia sono i nonni, molta parte è riservata a mamma Marisa e papà Alberto, al loro amore contrastato dalle famiglie. Si scrivevano lettere quasi criptate passando dall’italiano all’inglese al francese per fissare appuntamenti segreti. Lei si firmava “coniglio impaurito” e lui “tigre”, «anche se, andando a scavare, era lei che teneva il timone».
«E leggendo quelle lettere – la confidenza – all’inizio c’è stata anche un po’ di vergogna. Perché scopri i tuoi genitori innamorati e anche amanti e poi ti dici “Vivaddio”… Ma soprattutto ti accorgi concretamente di come i avevano vissuto in gioventù le tue stesse passioni. Tu che magari avevi sempre guardato a tuo padre come a un marziano, un retrogrado, uno completamente inquadrato».
Però, mica tutti hanno un nonno pianista al casinò di Montecarlo che scappa con una ballerina piantando la moglie sola a crescere un figlioletto. Che, dopo, si presentava come vedova, ruolo più dignitoso da sostenere. Per non parlare dello zio: per annullare il primo matrimonio, ricorrendo alla Sacra Rota, si è avvalso dell’abusata scappatoia delle nozze non consumate, pur in presenza di una figlia. Ma concepita – sentite un po’ - quasi magicamente: per via del seme paterno disperso nella vasca da bagno.
C’è naturalmente da immaginare – ha chiosato Radaelli – che l’argomentazione sia stata accompagnata da generose offerte per i poveri. Tanto per fare un paio un paio di esempi. E come fai – si è chiesta l’editrice Sara Vitali – a lasciare nel cassetto una storia così? Già, come fai? Del resto, l’idea che andasse raccontata ha preso corpo riordinando vecchie carte.
«Alla morte di mia mamma – ha raccontato Radaelli – abbiamo aperto gli armadi: ne sono usciti documenti, certificati, lettere. Ho cominciato a leggere tutto: ne è emerso un mondo che mi sembrava molto appassionante e che si intrecciava anche con la storia d’Italia e d’Europa. Ho capito che poteva derivarne un grande racconto».
Il titolo, “Il teatro è la mia vita”, è più di un gioco. Pur evocando il lavoro dell’autore, fa riferimento in realtà agli anni Dieci del Novecento, quando il nonno materno Giuseppe Milani, diciottenne, fu tra i fondatori della Società dilettanti Filodrammatica di Lecco. Che fu teatro anche dell’amore fra Ambrogio Radaelli, il pianista, e la giovanissima attrice Giuseppina Bonacina, «una colonna della compagnia»: inutile dirlo, i nonni paterni, quelli di Montecarlo. Ecco dunque: «Se non ci fosse stata la Filodrammatica, i miei nonni non si sarebbero incontrati e io non ci sarei».
E comunque è già un intrico di legami destinato a intricarsi ulteriormente nei decenni seguenti, se i pensa che oggi la parentela si estende a 22 prozii, 30 cugini di secondo grado, 26 figli di prozii e 4 figli di un cugino di primo grado più un cugino non riconosciuto. Il racconto passa in rassegna le alterne fortune di una vera e propria dinastia lungo l’arco del Novecento, attraversando le guerre mondiali e il Ventennio fascista, seguendone i destini da una città all’altra, gli amori, certe suggestive coincidenze, i nomi che ritornano e si tramandano, epoche quasi gloriose e altre più prosaiche, rovesci e tristezze e risentimenti, le nascite e le morti, «con i personaggi che entrano ed escono proprio come fossero a teatro».
E, appunto, gli episodi della vasca da bagno e del nonno fuggito con la ballerina. Vicenda della quale va raccontato anche il seguito: «Quando mia nonna, da “vedova”, torna a Lecco e va in Comune per alcuni documenti, chi si trova allo sportello? Lui, il marito. Scappa, non vuole più vederlo. Poi, lui, se ne andrà via nuovamente». Ha spiegato Radaelli: «Mi sono interrogato molto sul fatto che ricostruiamo con la memoria qualcosa che non c’è più e che ci sembra invece ancora più vivo. Proprio come succede a teatro, è il paradosso dell’arte».
Se i pilastri della storia sono i nonni, molta parte è riservata a mamma Marisa e papà Alberto, al loro amore contrastato dalle famiglie. Si scrivevano lettere quasi criptate passando dall’italiano all’inglese al francese per fissare appuntamenti segreti. Lei si firmava “coniglio impaurito” e lui “tigre”, «anche se, andando a scavare, era lei che teneva il timone».
«E leggendo quelle lettere – la confidenza – all’inizio c’è stata anche un po’ di vergogna. Perché scopri i tuoi genitori innamorati e anche amanti e poi ti dici “Vivaddio”… Ma soprattutto ti accorgi concretamente di come i avevano vissuto in gioventù le tue stesse passioni. Tu che magari avevi sempre guardato a tuo padre come a un marziano, un retrogrado, uno completamente inquadrato».
D.C.