Olginate: ''Questo libro parla di noi''. Luca Rota racconta il fascino delle grandi dighe
“Questo libro non parla solo di dighe e paesaggi. Questo libro parla di noi, della nostra storia”. Nel testo che tiene tra le mani, Luca Rota ci ha messo l’anima. Lo si percepisce da come sfoglia le pagine, da come osserva le meravigliose foto di paesaggi alpini che scorrono sul proiettore dietro di lui. Del resto “Il miracolo delle dighe”, uscito nel 2023 per Fusta Editore, è frutto dell’unione tra due grandi passioni coltivate nel tempo dallo scrittore e blogger lecchese, classe 1971.
“Da piccolo ho trascorso tante estati a Motta, sopra Madesimo e Campodolcino. Passavamo spesso davanti ad uno degli sbarramenti del lago di Montespluga, quello più piccolo. Anche se non capivo a cosa servisse, questo enorme gigantesco muraglione mi faceva una forte impressione” ha raccontato Rota al pubblico presente ieri sera alla presentazione organizzata nella biblioteca civica di Olginate.
“Nel 2019 il rifugio Garibaldi in valle Camonica chiese all’associazione culturale Alpes, con cui collaboro, di realizzare degli eventi che possano trasformare le dighe in grandi palcoscenici. Io ho scritto il concept del progetto ma poi il Covid ha fermato tutto. Tuttavia, nel 2019, osservando degli escursionisti guardare affascinati la diga di Trona in alta val Gerola, mi è venuta l’ispirazione per il libro”. La conferenza di ieri, lo ricordiamo, si collocava nell’ambito della rassegna culturale “Estate di San Martino”, promossa come ogni anno da Comunità Montana Lario Orientale Valle San Martino con l’Ecomuseo Val San Martino, dal Comune, dalla Parrocchia e dalla Pro Loco di Calolziocorte.
In prima fila, non a caso, era presente Carlo Greppi, presidente di Comunità Montana, assieme al padrone di casa Marco Passoni, sindaco di Olginate. Prima di ritrovarsi in biblioteca, i partecipanti hanno potuto visitare in via del tutto eccezionale l’interno della diga di Olginate. “Tale struttura rappresenta un elemento identitario di questo territorio. È un manufatto affascinante e di grande importanza non solo sul piano tecnico: regimenta infatti tutto il lago di Como. Per rendere la diga ancora più efficiente in questo senso, quando fu costruita l’alveo dell’Adda venne allargato di 60 metri così che potesse uscire più acqua” ha spiegato Rota all’inizio della presentazione, prima di concentrarsi sulle grandi dighe alpine, oggetto della sua ricerca.
Si parte da Chiavenna, la comunità in cui fu messa in moto la prima turbina per produrre energia idroelettrica nel 1883, e si spazia lungo tutte le Alpi. In Svizzera, dove la diga della valle di Lei, che “regimenta una massa d’acqua pari a quella regolata da Olginate ma su un estensione nettamente inferiore”, è stata motivo di una lunga contesa geopolitica tra elvetici e italiani, conclusasi con una modifica ai confini. In Austria, dove la diga di Kolnbrein attira ogni anno più di un milione di visitatori. “Alta 200 metri e lunga 600, questa diga ha una storia particolare. Quando si riempi il bacino subito dopo la fine dei lavori, la diga iniziò a scivolare verso valle. Le ispezioni geologiche non avevano individuato uno strato di terreno fragile sito in profondità. Risolsero la questione inserendo alla base un gigantesco cuneo di cemento armato che tiene la diga ferma” ha spiegato Rota.
Tante di queste strutture furono realizzate dall’ingegner Claudio Marcello, “il più grande costruttore di dighe mai esistito in Italia”.
In sala era presente Daniela, figlia di Biagio Zuccoli, “l’ultimo presidente Edison che aveva a cuore più l’ecologia dei territori che la redditività degli impianti” secondo Rota. Del resto, in Italia siamo stati in grado di abbinare grandi capolavori, tra cui Cancano e Pantano d’Avio, a immani tragedie. Nel 2023, lo ricordiamo, ricorrono i sessant’anni dal dramma del Vajont, in cui morirono quasi 2mila persone, e i cent’anni dalla tragedia del Gleno. “Il fatto che il Vajont non sia crollato sotto quelle spinte così forti dimostra quanto quella diga fosse un autentico capolavoro ingegneristico. Purtroppo, l’onda è riuscita a superare l’ostacolo. Il crollo della diga del Gleno, sita in Val di Scalve, fu invece causato da una serie di errori” ha spiegato lo scrittore lecchese. “Il più grave tra questi fu l’aver cambiato in corso d’opera il progetto. Tutti gli studi geologici furono fatti in previsione della prima diga, quella in muratura. Nel 1921, ci si rese conto che in realtà il bacino poteva contenere molta più acqua e si decise di erigere una diga in calcestruzzo molto più grande. Il secondo manufatto fu semplicemente appoggiato sul primo, senza fondamenta”. Il fatto che il calcestruzzo fosse molto più elastico rispetto alla muratura, unito alla scarsa qualità complessiva del materiale, determinò il crollo dell’impalcatura, avvenuto la mattina del primo dicembre 1923. “Quello che doveva essere un simbolo della grandeur ingegneristica dell’Italia fascista si trasformò in un dramma in cui morirono più di 500 persone” ha concluso Rota. Dopo la seconda tragedia, quella del Vajont nel 1963, il percorso di costruzione di nuovi invasi subì un lungo stop. L’ultima diga costruita in Italia fu quella di Chiotas in provincia di Cuneo.
“Oggi si torna a parlare di costruire nuovi invasi. In Svizzera sono già partiti sette nuovi cantieri ma lì producono la metà del proprio fabbisogno energetico attraverso l’idroelettrico. In due siti, in particolare, procederanno ad aumentare l’altezza del muraglione per poter riempire di più l’invaso” ha concluso Luca Rota. “In Italia il dibattito è più indietro. In Trentino e Piemonte alcune proposte hanno incontrato la ferma opposizione delle popolazioni locali. Io penso che sia possibile implementare la produzione di energia idroelettrica prestando al contempo attenzione al territorio e alle montagne”.
Infine, la chiosa, mentre dietro l’autore l’immagine della torbiera di Preda Rossa in Val Masino splendeva in tutta la sua bellezza. “Dobbiamo comprendere non solo la bellezza di questi ambienti ma anche l’importanza dei paesaggi alpini per la nostra storia. Questi territori fanno parte di chi siamo e noi abbiamo il diritto di usufruirne ma anche il sacrosanto dovere di tutelarli”.
“Da piccolo ho trascorso tante estati a Motta, sopra Madesimo e Campodolcino. Passavamo spesso davanti ad uno degli sbarramenti del lago di Montespluga, quello più piccolo. Anche se non capivo a cosa servisse, questo enorme gigantesco muraglione mi faceva una forte impressione” ha raccontato Rota al pubblico presente ieri sera alla presentazione organizzata nella biblioteca civica di Olginate.
“Nel 2019 il rifugio Garibaldi in valle Camonica chiese all’associazione culturale Alpes, con cui collaboro, di realizzare degli eventi che possano trasformare le dighe in grandi palcoscenici. Io ho scritto il concept del progetto ma poi il Covid ha fermato tutto. Tuttavia, nel 2019, osservando degli escursionisti guardare affascinati la diga di Trona in alta val Gerola, mi è venuta l’ispirazione per il libro”. La conferenza di ieri, lo ricordiamo, si collocava nell’ambito della rassegna culturale “Estate di San Martino”, promossa come ogni anno da Comunità Montana Lario Orientale Valle San Martino con l’Ecomuseo Val San Martino, dal Comune, dalla Parrocchia e dalla Pro Loco di Calolziocorte.
In prima fila, non a caso, era presente Carlo Greppi, presidente di Comunità Montana, assieme al padrone di casa Marco Passoni, sindaco di Olginate. Prima di ritrovarsi in biblioteca, i partecipanti hanno potuto visitare in via del tutto eccezionale l’interno della diga di Olginate. “Tale struttura rappresenta un elemento identitario di questo territorio. È un manufatto affascinante e di grande importanza non solo sul piano tecnico: regimenta infatti tutto il lago di Como. Per rendere la diga ancora più efficiente in questo senso, quando fu costruita l’alveo dell’Adda venne allargato di 60 metri così che potesse uscire più acqua” ha spiegato Rota all’inizio della presentazione, prima di concentrarsi sulle grandi dighe alpine, oggetto della sua ricerca.
Si parte da Chiavenna, la comunità in cui fu messa in moto la prima turbina per produrre energia idroelettrica nel 1883, e si spazia lungo tutte le Alpi. In Svizzera, dove la diga della valle di Lei, che “regimenta una massa d’acqua pari a quella regolata da Olginate ma su un estensione nettamente inferiore”, è stata motivo di una lunga contesa geopolitica tra elvetici e italiani, conclusasi con una modifica ai confini. In Austria, dove la diga di Kolnbrein attira ogni anno più di un milione di visitatori. “Alta 200 metri e lunga 600, questa diga ha una storia particolare. Quando si riempi il bacino subito dopo la fine dei lavori, la diga iniziò a scivolare verso valle. Le ispezioni geologiche non avevano individuato uno strato di terreno fragile sito in profondità. Risolsero la questione inserendo alla base un gigantesco cuneo di cemento armato che tiene la diga ferma” ha spiegato Rota.
Tante di queste strutture furono realizzate dall’ingegner Claudio Marcello, “il più grande costruttore di dighe mai esistito in Italia”.
In sala era presente Daniela, figlia di Biagio Zuccoli, “l’ultimo presidente Edison che aveva a cuore più l’ecologia dei territori che la redditività degli impianti” secondo Rota. Del resto, in Italia siamo stati in grado di abbinare grandi capolavori, tra cui Cancano e Pantano d’Avio, a immani tragedie. Nel 2023, lo ricordiamo, ricorrono i sessant’anni dal dramma del Vajont, in cui morirono quasi 2mila persone, e i cent’anni dalla tragedia del Gleno. “Il fatto che il Vajont non sia crollato sotto quelle spinte così forti dimostra quanto quella diga fosse un autentico capolavoro ingegneristico. Purtroppo, l’onda è riuscita a superare l’ostacolo. Il crollo della diga del Gleno, sita in Val di Scalve, fu invece causato da una serie di errori” ha spiegato lo scrittore lecchese. “Il più grave tra questi fu l’aver cambiato in corso d’opera il progetto. Tutti gli studi geologici furono fatti in previsione della prima diga, quella in muratura. Nel 1921, ci si rese conto che in realtà il bacino poteva contenere molta più acqua e si decise di erigere una diga in calcestruzzo molto più grande. Il secondo manufatto fu semplicemente appoggiato sul primo, senza fondamenta”. Il fatto che il calcestruzzo fosse molto più elastico rispetto alla muratura, unito alla scarsa qualità complessiva del materiale, determinò il crollo dell’impalcatura, avvenuto la mattina del primo dicembre 1923. “Quello che doveva essere un simbolo della grandeur ingegneristica dell’Italia fascista si trasformò in un dramma in cui morirono più di 500 persone” ha concluso Rota. Dopo la seconda tragedia, quella del Vajont nel 1963, il percorso di costruzione di nuovi invasi subì un lungo stop. L’ultima diga costruita in Italia fu quella di Chiotas in provincia di Cuneo.
“Oggi si torna a parlare di costruire nuovi invasi. In Svizzera sono già partiti sette nuovi cantieri ma lì producono la metà del proprio fabbisogno energetico attraverso l’idroelettrico. In due siti, in particolare, procederanno ad aumentare l’altezza del muraglione per poter riempire di più l’invaso” ha concluso Luca Rota. “In Italia il dibattito è più indietro. In Trentino e Piemonte alcune proposte hanno incontrato la ferma opposizione delle popolazioni locali. Io penso che sia possibile implementare la produzione di energia idroelettrica prestando al contempo attenzione al territorio e alle montagne”.
Infine, la chiosa, mentre dietro l’autore l’immagine della torbiera di Preda Rossa in Val Masino splendeva in tutta la sua bellezza. “Dobbiamo comprendere non solo la bellezza di questi ambienti ma anche l’importanza dei paesaggi alpini per la nostra storia. Questi territori fanno parte di chi siamo e noi abbiamo il diritto di usufruirne ma anche il sacrosanto dovere di tutelarli”.
A.Bes.