SCAFFALE LECCHESE/177: la guerra a Gaza e il ricordo di Vik, nel libro di mamma Egidia
“Restiamo umani” era la “firma” di Vittorio Arrigoni agli articoli per il quotidiano “Il manifesto” durante l’operazione “Piombo fuso”: una ventina di giorni tra il dicembre 2008 e il gennaio 2009, un massiccio attacco di Israele su Gaza con il fine di disarticolare le roccaforti di Hamas.
Arrigoni, operatore volontario proprio a Gaza, in quei giorni fu l’unico corrispondente sul campo. Quegli articoli diventarono un libro (appunto “Restiamo umani”) edito dallo stesso “Manifesto” nel 2009.
Due anni dopo – nell’aprile 2011 – Arrigoni sarebbe stato rapito e assassinato. Aveva 36 anni: originario di Bulciago, da una decina d’anni andava avanti e indietro dalla Palestina come operatore umanitario ma anche come attivista politico.
Nel 2013, quelle sue corrispondenze da Gaza sarebbero diventate un film, un “reading movie” com’è stato definito dal regista Fulvio Renzi: si tratta infatti della lettura integrale dei 19 capitoli del libro da parte di altrettante personalità internazionali impegnate sul fronte dei diritti umani.
Ora il vulcano palestinese è nuovamente in eruzione per la terrificante ed efferata carneficina antiebraica di Hamas e la susseguente terribile e indiscriminata vendetta israeliana su Gaza con l’operazione “Spade di ferro”, ben più tragica di “Piombo fuso”. E il “restiamo umani” di Vittorio Arrigoni torna a riecheggiare: «Io non credo nei confini, nelle barriere, nelle bandiere, credo che apparteniamo tutti indipendentemente dalle latitudini e dalle longitudini alla stessa famiglia che è la famiglia umana».La riflessione campeggia sul sito internet della Fondazione Vittorio Arrigoni. Promossa dai famigliari (la madre Egidia Beretta e la sorella Alessandra, essendo il papà Ettore morto pochi mesi dopo il figlio, nel dicembre 2011), la fondazione porta il soprannome che accompagnava Vittorio: “Vik Utopia”, soprannome che dà anche il titolo a un documentario realizzato nel 2012 dalla giornalista Anna Maria Selini e trasmesso su Rai 3.
In quello stesso 2012 usciva (dall’editore “Baldini & Castoldi”) anche il libro scritto in prima persona da mamma Egidia per raccontare la vita del figlio, alternando i momenti pubblici a quelli privati, i ricordi personali alle lettere, le riflessioni alle cronache.Naturalmente, una mamma comincia dall’inizio, dal grembo. E in questo caso dalle proprie letture durante la gravidanza: «Libri su libri e, chissà, forse anche da questo è scaturito quel suo grande amore per la lettura e la parola scritta. Ricordo in particolare un libro, “La Storia” di Elsa Morante. A posteriore mi sono chiesta più volte se la vicenda di Useppe e della sua mamma, narrata in quelle pagine, non sia arrivata, attraverso me, al piccolo cuore di mio figlio, nutrendolo con quel grande amore condiviso».
E’ anche inevitabile, quando si rimettono in fila i ricordi di una vita, soprattutto all’indomani di una morte in circostanze tragiche, che certi passaggi siano visti quasi come presagi. Così, si rileggono con occhi diversi anche i “pensierini” di un bambino, i temi delle elementari, San Francesco e il lupo, Martin Luther King, e successivamente l’incontro con Helder Camara e l’Operazione Mato Grosso. Va detto che lo stesso ambiente famigliare era fecondo: papà e mamma mandavano avanti assieme una piccola impresa artigiana, ma gli orizzonti andavano oltre la “bottega”. C’era anche l’impegno sociale e politico: mamma Egidia è stata anche sindaca di Bulciago per due mandati, papà Ettore consigliere comunale.
I presagi, l’ambiente, certo. Ma l’adolescenza è stata poi quella di molti altri giovanissimi: la scuola con risultati «senza infamia e senza lode», i giochi con il Nintendo, le scorrazzate in bicicletta con gli amici, i film di Fantozzi, l’amore per gli animali, i libri, il calcio: «Era un appassionato di calcio, un tifoso sfegatato della Juventus. (…) Quando c’erano le partite si bardava tutto, preparava patatine fritte, popcorn e una birra e si metteva sul divano col suo papà. Io ero relegata in cucina con il cagnetto Teo perché diceva che portavamo...».
Seguirono altre missioni: in Congo coi Beati Costruttori di Pace e nei campi profughi in Libano. E altri viaggi in Palestina, alcuni organizzati in piena autonomia, Nel 2007 il progetto di raggiungere Gaza via mare.
Negli anni, l’impegno nei confronti della popolazione palestinese è andato crescendo. Per molti, Vittorio Arrigoni diventò un punto di riferimento. Con ciò che significa. Si espone sempre di più, non evita le polemiche sui giornali (mamma Egidia ricorda tra le altre quelle con Roberto Saviano). Dopo qualche tempo, ormai Israele lo ritenva una persona sgradita: «Finì tra i “target” degli ultrà filoisraeliani. Su un sito internet americano, collegato all’ala più oltranzista dei coloni, compariva la sua foto in cima alla lista degli obiettivi da eliminare».
Fino ai giorni dell’operazione Piombo Fuso. «Nel settembre del 2009 – ricorda Beretta – Vittorio uscì dalla Striscia dal valico di Rafah. Nel frattempo, i suoi reportage da Gaza erano diventati un libro (…) tradottto in diverse lingue e le sue parole si diffusero in tutto il mondo.
Da Gaza non tornò subito a casa. Si fermò per un periodo al Cairo, ci disse che sentiva il bisogno di purificarsi, di ritornare con cautela e gradualità nel mondo “normale”. Il suo editore tedesco lo invitò alla Fiera del libro di Francoforte e lui accettò. Per me fu una decisione inaspettata e dolorosa che non compresi del tutto. Capivo la sosta al Cairo, meno questo timore di riaccostarsi alla famiglia, agli affetti. Forse non si sentiva ancora pronto, forse temeva i nostri sguardi, forse preferiva non togliersi la corazza che ormai indossava da così tanto tempo e che si sarebbe sbriciolata al nostro primo incontro»
La sua presenza a Gaza cominciò a a essere scomoda anche a qualche autorità palestinese non meglio precisata, in quell’intricato groviglio di poteri e contropoteri, interessi economici e politici, differenti fini delle varie organizzazioni sul campo: l’Autorità nazionale, Hamas, la Jihad, i propugnatori del progetto di due Stati e gli antisionisti . Una situazione in cui un utopista solitario come Vik, un utopista senza bandiere, un europeo troppo coinvolto non poteva che essere considerato un elemento di disturbo
L’anno cruciale fu il 2011. Si aprì con il tumore diagnosticato a papà Ettore.
«Il giorno del ricovero, Vik gli scrisse da Gaza: «Caro padre, in questi istanti difficili vorrei non fossimo distanti e che tu sentissi quanto palpita il cuore di un figlio. (…) Tutta la nostra famiglia non è mai stata unita come in questa giornata. (…) Per tutta l’esistenza ti sei prodigato nel fare del bene, ora questo bene ti ritorna indietro, devi andarne fiero. In un lontano passato ci abbiamo messo del tempo per rispettarci e onorarci, trovare le migliori vie per volerci bene nelle nostre convergenze e divergenze. Quello che non ti ho mai detto è che per me, tuo figlio, tu, mio padre, sei sempre stato un modello da seguire per onestà, umiltà e generosità»
«Venne aprile – scrive Egidia Beretta - Vittorio progettava il ritorno, non stava bene, soprattutto desiderava riabbracciarci e passare del tempo con il suo papà. La sera del 14 ci precipitò in un girone infernale. Vittorio rapito, Vittorio ferito, Vittorio ucciso. Abbracciati, piangevamo increduli. Alessandra davanti al televisore ci raccontava, Le telefonate da Gaza. (…) Il mattino presto la casa si riempì. Io agivo come un automa, salutavo, ringraziavo, ma non vedevo le persone, Vennero i sindaci, il prefetto, il maresciallo e un’infinità di amici. Davanti al mio cancello erano assiepati i giornalisti e le tv. Mi fu consigliato di scendere e parlare con loro. Non me la sentivo, ma la mia coscienza me lo impose: devi tirar fuori tutta la forza e il coraggio che hai, devi parlare di Vittorio che è morto e di raccontare lui, vivo. Ne uscì quell’intervista che ogni tanto riguardo e che so farebbe dire a Vittorio: “Brava mamma, sono anch’io orgoglioso di te”».Vittorio fu rapito e ucciso da un gruppo dell’area jahidista, ma sulle circostanze della vicenda non si è fatta mai chiarezza: ne tratta diffusamente un altro libro di Annamaria Selini (“Vittorio Arrigoni. Ritratto di un utopista”, editore Castelvecchi, 2019) nel quale si parla di processo farsa a Gaza e di successivi sviluppi oscuri oltre a un’inchiesta italiana finita in archivio. Alla verità, del resto, non era nemmeno interessato il governo italiano, allora guidato da Silvio Berlusconi, per il quale era ingombrante la stessa salma di Arrigoni visto che fu rimpatriata lungo itinerari fortunosi e senza alcun aiuto da parte dell’ambasciata italiana al Cairo e che nessun rappresentante dello Stato italiano andò a ricevere all’aeroporto, com’è invece consuetudine in questi casi.
Arrigoni, operatore volontario proprio a Gaza, in quei giorni fu l’unico corrispondente sul campo. Quegli articoli diventarono un libro (appunto “Restiamo umani”) edito dallo stesso “Manifesto” nel 2009.
Due anni dopo – nell’aprile 2011 – Arrigoni sarebbe stato rapito e assassinato. Aveva 36 anni: originario di Bulciago, da una decina d’anni andava avanti e indietro dalla Palestina come operatore umanitario ma anche come attivista politico.
Nel 2013, quelle sue corrispondenze da Gaza sarebbero diventate un film, un “reading movie” com’è stato definito dal regista Fulvio Renzi: si tratta infatti della lettura integrale dei 19 capitoli del libro da parte di altrettante personalità internazionali impegnate sul fronte dei diritti umani.
Ora il vulcano palestinese è nuovamente in eruzione per la terrificante ed efferata carneficina antiebraica di Hamas e la susseguente terribile e indiscriminata vendetta israeliana su Gaza con l’operazione “Spade di ferro”, ben più tragica di “Piombo fuso”. E il “restiamo umani” di Vittorio Arrigoni torna a riecheggiare: «Io non credo nei confini, nelle barriere, nelle bandiere, credo che apparteniamo tutti indipendentemente dalle latitudini e dalle longitudini alla stessa famiglia che è la famiglia umana».La riflessione campeggia sul sito internet della Fondazione Vittorio Arrigoni. Promossa dai famigliari (la madre Egidia Beretta e la sorella Alessandra, essendo il papà Ettore morto pochi mesi dopo il figlio, nel dicembre 2011), la fondazione porta il soprannome che accompagnava Vittorio: “Vik Utopia”, soprannome che dà anche il titolo a un documentario realizzato nel 2012 dalla giornalista Anna Maria Selini e trasmesso su Rai 3.
In quello stesso 2012 usciva (dall’editore “Baldini & Castoldi”) anche il libro scritto in prima persona da mamma Egidia per raccontare la vita del figlio, alternando i momenti pubblici a quelli privati, i ricordi personali alle lettere, le riflessioni alle cronache.Naturalmente, una mamma comincia dall’inizio, dal grembo. E in questo caso dalle proprie letture durante la gravidanza: «Libri su libri e, chissà, forse anche da questo è scaturito quel suo grande amore per la lettura e la parola scritta. Ricordo in particolare un libro, “La Storia” di Elsa Morante. A posteriore mi sono chiesta più volte se la vicenda di Useppe e della sua mamma, narrata in quelle pagine, non sia arrivata, attraverso me, al piccolo cuore di mio figlio, nutrendolo con quel grande amore condiviso».
E’ anche inevitabile, quando si rimettono in fila i ricordi di una vita, soprattutto all’indomani di una morte in circostanze tragiche, che certi passaggi siano visti quasi come presagi. Così, si rileggono con occhi diversi anche i “pensierini” di un bambino, i temi delle elementari, San Francesco e il lupo, Martin Luther King, e successivamente l’incontro con Helder Camara e l’Operazione Mato Grosso. Va detto che lo stesso ambiente famigliare era fecondo: papà e mamma mandavano avanti assieme una piccola impresa artigiana, ma gli orizzonti andavano oltre la “bottega”. C’era anche l’impegno sociale e politico: mamma Egidia è stata anche sindaca di Bulciago per due mandati, papà Ettore consigliere comunale.
I presagi, l’ambiente, certo. Ma l’adolescenza è stata poi quella di molti altri giovanissimi: la scuola con risultati «senza infamia e senza lode», i giochi con il Nintendo, le scorrazzate in bicicletta con gli amici, i film di Fantozzi, l’amore per gli animali, i libri, il calcio: «Era un appassionato di calcio, un tifoso sfegatato della Juventus. (…) Quando c’erano le partite si bardava tutto, preparava patatine fritte, popcorn e una birra e si metteva sul divano col suo papà. Io ero relegata in cucina con il cagnetto Teo perché diceva che portavamo...».
Dopo gli studi e il diploma da ragioniere, Vittorio entrò nell’azienda di famiglia, non un ruolo apicale, ma un lavoro da autista. E comunque «un mondo che gli andava stretto»
Nel 1995, il primo viaggio in Perù con l’Operazione Mato Grosso in un piccolo villaggio andino (scrivendo sul diario: «Oggi, 29 novembre, imbarco a Linate: destinazione evasione realtà, scoperta verità»), poi un periodo di volontariato in Croazia raggiunta sulla “Ritmo” del nonno, «una vecchia automobile ferma da tempo che dovemmo sistemare prima di farle affrontare quell’insolito viaggio». E quindi, il Belgio, la Romania, il Togo… E nel 2002 l’incontro con la Palestina: «Varcò la Porta di Damasco e rimase folgorato da Gerusalemme. Le prime e-mail che ci spedì e le prime telefonate ci restituivano un Vittorio pieno di sconcerto per ciò a cui assisteva ogni giorno. Non si capacitava del fatto che nella stessa città, così multiculturale e con le tre religioni monoteiste riunite, si potesse praticare la segregazione di una parte della popolazione. (…) Vittorio si trovò subito in sintonia con i palestinesi, così come era successo con tutti gli altri popoli che aveva conosciuto. I palestinesi appartenevano alla sua famiglia umana e il legame con loro divenne subito un legame naturale, forte, di fratellanza. Con quegli uomini e quelle donne trovò un’affinità particolare, una sensibilità comune».Ed è il contesto in cui si formò “Vik Utopia”: le prime attività di volontariato con i ragazzini arabi a Gerusalemme e poi a Nablus con la Mezzaluna Rossa per prestare servizio sulle ambulanze accompagnando anche «i feriti in ospedale dopo gli attacchi dell’artiglieria israeliana»Seguirono altre missioni: in Congo coi Beati Costruttori di Pace e nei campi profughi in Libano. E altri viaggi in Palestina, alcuni organizzati in piena autonomia, Nel 2007 il progetto di raggiungere Gaza via mare.
Negli anni, l’impegno nei confronti della popolazione palestinese è andato crescendo. Per molti, Vittorio Arrigoni diventò un punto di riferimento. Con ciò che significa. Si espone sempre di più, non evita le polemiche sui giornali (mamma Egidia ricorda tra le altre quelle con Roberto Saviano). Dopo qualche tempo, ormai Israele lo ritenva una persona sgradita: «Finì tra i “target” degli ultrà filoisraeliani. Su un sito internet americano, collegato all’ala più oltranzista dei coloni, compariva la sua foto in cima alla lista degli obiettivi da eliminare».
Fino ai giorni dell’operazione Piombo Fuso. «Nel settembre del 2009 – ricorda Beretta – Vittorio uscì dalla Striscia dal valico di Rafah. Nel frattempo, i suoi reportage da Gaza erano diventati un libro (…) tradottto in diverse lingue e le sue parole si diffusero in tutto il mondo.
Da Gaza non tornò subito a casa. Si fermò per un periodo al Cairo, ci disse che sentiva il bisogno di purificarsi, di ritornare con cautela e gradualità nel mondo “normale”. Il suo editore tedesco lo invitò alla Fiera del libro di Francoforte e lui accettò. Per me fu una decisione inaspettata e dolorosa che non compresi del tutto. Capivo la sosta al Cairo, meno questo timore di riaccostarsi alla famiglia, agli affetti. Forse non si sentiva ancora pronto, forse temeva i nostri sguardi, forse preferiva non togliersi la corazza che ormai indossava da così tanto tempo e che si sarebbe sbriciolata al nostro primo incontro»
La sua presenza a Gaza cominciò a a essere scomoda anche a qualche autorità palestinese non meglio precisata, in quell’intricato groviglio di poteri e contropoteri, interessi economici e politici, differenti fini delle varie organizzazioni sul campo: l’Autorità nazionale, Hamas, la Jihad, i propugnatori del progetto di due Stati e gli antisionisti . Una situazione in cui un utopista solitario come Vik, un utopista senza bandiere, un europeo troppo coinvolto non poteva che essere considerato un elemento di disturbo
L’anno cruciale fu il 2011. Si aprì con il tumore diagnosticato a papà Ettore.
«Il giorno del ricovero, Vik gli scrisse da Gaza: «Caro padre, in questi istanti difficili vorrei non fossimo distanti e che tu sentissi quanto palpita il cuore di un figlio. (…) Tutta la nostra famiglia non è mai stata unita come in questa giornata. (…) Per tutta l’esistenza ti sei prodigato nel fare del bene, ora questo bene ti ritorna indietro, devi andarne fiero. In un lontano passato ci abbiamo messo del tempo per rispettarci e onorarci, trovare le migliori vie per volerci bene nelle nostre convergenze e divergenze. Quello che non ti ho mai detto è che per me, tuo figlio, tu, mio padre, sei sempre stato un modello da seguire per onestà, umiltà e generosità»
«Venne aprile – scrive Egidia Beretta - Vittorio progettava il ritorno, non stava bene, soprattutto desiderava riabbracciarci e passare del tempo con il suo papà. La sera del 14 ci precipitò in un girone infernale. Vittorio rapito, Vittorio ferito, Vittorio ucciso. Abbracciati, piangevamo increduli. Alessandra davanti al televisore ci raccontava, Le telefonate da Gaza. (…) Il mattino presto la casa si riempì. Io agivo come un automa, salutavo, ringraziavo, ma non vedevo le persone, Vennero i sindaci, il prefetto, il maresciallo e un’infinità di amici. Davanti al mio cancello erano assiepati i giornalisti e le tv. Mi fu consigliato di scendere e parlare con loro. Non me la sentivo, ma la mia coscienza me lo impose: devi tirar fuori tutta la forza e il coraggio che hai, devi parlare di Vittorio che è morto e di raccontare lui, vivo. Ne uscì quell’intervista che ogni tanto riguardo e che so farebbe dire a Vittorio: “Brava mamma, sono anch’io orgoglioso di te”».Vittorio fu rapito e ucciso da un gruppo dell’area jahidista, ma sulle circostanze della vicenda non si è fatta mai chiarezza: ne tratta diffusamente un altro libro di Annamaria Selini (“Vittorio Arrigoni. Ritratto di un utopista”, editore Castelvecchi, 2019) nel quale si parla di processo farsa a Gaza e di successivi sviluppi oscuri oltre a un’inchiesta italiana finita in archivio. Alla verità, del resto, non era nemmeno interessato il governo italiano, allora guidato da Silvio Berlusconi, per il quale era ingombrante la stessa salma di Arrigoni visto che fu rimpatriata lungo itinerari fortunosi e senza alcun aiuto da parte dell’ambasciata italiana al Cairo e che nessun rappresentante dello Stato italiano andò a ricevere all’aeroporto, com’è invece consuetudine in questi casi.
Dario Cercek