SCAFFALE LECCHESE/175: percorsi di Fede e storia nei cimiteri
Sono questi i giorni dell’anno in cui si va per cimiteri. Che sono «lo specchio, l’archivio il museo di una comunità» come scriveva Tiziana Rota introducendo un libro edito nel 2014 dell’associazione degli “Amici dei musei” e che suggerisce, come recita il titolo, “Percorsi di arte, storia e paesaggio nei cimiteri di Lecco”. Era un momento in cui ai nostri camposanti si guardava non soltanto con un sentimento religioso: si organizzavano visite guidate, era stata stampata una guida per i visitatori, era stata promossa una campagna per salvare quei monumenti tombali di un certo valore a rischio di demolizione e infine si inseriva anche la nostra città in un vero e proprio circuito internazionale con l’adesione all’Associazione di cimiteri storico-monumentali europei. Per qualche tempo, attorno ad alcuni cimiteri lecchesi c’erano stati un movimento e un’attenzione del tutto particolari e oggi forse affievoliti, se si esclude il caso di Laorca per la suggestiva collocazione in quelle antiche grotte circonfuse di leggenda.I “percorsi” tracciati in quel libro da Rota ci accompagnano, oltre che a Laorca, lungo i viali del cimitero monumentale definito «un museo a cielo aperto», in quello di Rancio, sulla tomba dei fratelli garibaldini Ernesto e Giovanni Pozzi ad Acquate. Per arrivare “di là dal ponte”, a Malgrate, dove negli anni Trenta era stato realizzato il sontuoso cimitero monumentale della “grande Lecco”, mai utilizzato e demolito quarant’anni dopo, vicenda quasi incredibile e ormai dimenticata: «Dopo l’unificazione di Lecco con i Comuni vicini, avvenuta nel 1924, era nato questo progetto faraonico per collocare al di fuori degli spazi urbani un unico cimitero. (…) Sino al 1974 il misterioso fantasma, per chi ignaro si imbatteva in quei luoghi, si ergeva maestoso col corpo centrale neogotico, le torri laterali e i muraglioni che recintavano 47.000 metri quadrati con le scalee ad arco, i rettangoli delle tombe, i vialetti pavimentati da piastrelle rosse, i duemila ossari e colombari. Divenuto nel corso dei decenni un protetto poligono per il tiro al piattello, o pascolo per le pecore, mai assunse la funzione per cui era stato creato».
Il cimitero “grande” restò dunque il Monumentale che era stato inaugurato il 6 agosto 1882, «nell’area tra il vecchio cimitero e il torrente Gerenzone, con non poche discussioni per la vicinanza alla città, quasi all’ombra del campanile che avrebbe cominciato a elevarsi l’anno successivo».
Progettato dall’ingegnere Enrico Gattinoni (1848-1907), «tra i massimi esponenti dell’architettura eclettica lecchese», il cimitero «rappresenta un’elegante eccezione nel dominante stile neoclassico dell’architettura cimiteriale». Nel 1901, venne realizzato il grande ingresso, progettato dall’ingegner Luigi Mazzocchi (1844-1925) che «sceglie di non adeguarsi allo stile neogotico ma di proporre un liberty nella sua versione archeologizzante, emergente in quegli anni tra polemiche e scontento».
A cavallo tra Ottocento e Novecento, «in particolare nelle cappelle gentilizie, le sculture vennero commissionate ad artisti già affermati le cui opere arredano le piazze di Lecco e il Cimitero Monumentale di Milano»: Giulio Branca, Ernesto Bazzaro, Francesco Confalonieri, Ettore Cogliati, Michele Vedani… E poi il simbolismo di Angelo Mantegani, Giannino Castiglioni e Francesco Modena. Fino ai tempi più recenti, passando per Giuseppe Mozzanica e Romeo Pedroli, arrivando a Pablo Atchugarry.
Di altro respiro, la tappa al cimitero di Rancio dove il visitatore non può non cogliere una radicata tradizione alpinistica: «Molti di questi alpinisti sono nati a Rancio e qui sono sepolti nel cimitero, in una splendida cornice paesaggistica sulle pendici del S. Martino: di fronte il lago e la città, alle spalle la parete della Medale, spesso riprodotta con rocce dalla forma riconoscibile sulle tombe. Visitare questo cimitero significa ripercorrere storie di vita che da queste pendici hanno preso avvio e che qui hanno trovato il riposo e la memoria»: allora Rota ci accompagna ai sepolcri di Luigi Castagna, Carlo Mauri, Casimiro Ferrari, Antonio Castelnuovo, Duilio Berera. Senza dimenticare altre tombe importanti, la Via Crucis all’ingresso del camposanto e l’adiacente santuario di Santa Maria Gloriosa.
Continuando a risalire il torrente Gerenzone si arriva quindi a Laorca con il cimitero più celebrato per il quale Rota non esita a usare il termine Sacro Monte che avrebbe in realtà altra tradizione. Però, «il complesso monumentale che si è sviluppato attorno alle grotte e all’antica chiesa di San Giovanni ai Morti di Laorca, può certamente essere considerato un patrimonio storico-ambientale unico nel suo genere nel nostro territorio, vero luogo della memoria del vecchio nucleo, ma anche della città».
Nel volumetto “Laorca nel territorio di Lecco” pubblicato nel 1982 su iniziativa del Consiglio di quartiere – organismi di partecipazione ormai cancellati per legge -, lo storico Angelo Borghi scrive: «Famosa in Lombardia è la grotta di Laorca, un tempo considerata delle più belle e ricche di stalattiti, che andarono nel secolo scorso (l’Ottocento, ndr) ad abbellire giardini di Milano. (…) In questo luogo, che diede resti di animali preistorici, abitarono forse i più lontani progenitori; ma sicuramente gli antenati romani hanno lasciato il segno della loro presenza con resti di ceramiche. La grotta venne contornata di suggestive leggende; alcuni pensano vi stesse il Battista; altri racconta che fosse il rifugio di un santo eremita che vi entrava speditamente a cavallo: divenuto lo speco un ritrovo di giovani dissipati, il monte si abbassò un giorno improvvisamente, rendendo buia la caverna e difficile l’accesso».
Di fatto, la piccola chiesa dedicata a San Giovanni a volte indicato come il Battista, altre come Crisostomo, per i lecchesi d’un tempo semplicemente San Giovanni ai Morti, è una delle più antiche della città, sorta forse già nel VII secolo. Mille anni dopo anche Laorca sarebbe stata colpita dalla “peste manzoniana” che – come scrive ancora Borghi - «era stata nel territorio di Lecco maggiormente micidiale che altrove, (…) Il ricordo del flagello e la venerazione per i defunti divenne costante a quei decenni. A Laorca nel 1649 il popolo fece richiesta di costruire una cappella presso la chiesa di San Giovanni, dove dal 1632 si era stabilito un cimitero; vi avrebbe raccolto i poveri resti che riempivano le due sepolture della parrocchiale e che erano dispersiin vari fopponi. E’ l’ossario che man mano raccolse le vittime di tante epidemie.»
Un libro esclusivamente dedicato all’area del cimitero di Laorca è quello scritto da Aloisio Bonfanti per la parrocchia e pubblicato nel 1990: “A centonove passi dalla chiesa di Laorca (Fede e storia intorno alle Grotte)”. Bonfanti ci parla del leggendario eremita: «Un beato Giovanni, santo del posto, l’eremita esemplare, che è vissuto in loco e che è stato sepolto nel piccolo vano che si trova tra la chiesa e la roccia, “l’intoccabile” scurolo. Fu sicuramente un eremita di grande virtù». Spiega Borghi che l’eremita fu «predicatore della fede ai barbari, probabilmente longobardi, stanziatisi nella zona» E proprio sulla tomba sarebbe stata costruita la chiesa: «In seguito, nella tradizione, egli venne confuso con altri Giovanni ben più famosi predicatori, il Battista e il Crisostomo, ai quali man mano mostra di essere dedicata la chiesetta».
Bonfanti registra che, dopo la visita pastorale del 1608, il cardinale Federico Borromeo «fa scrivere al cancelliere al suo seguito: “Si assicura che in una caverna vicina alla chiesa si trovi il corpo di San Giovanni Eremita e che sia grande il concorso di devoti».
In pellegrinaggio alle grotte di Laorca ci si è del resto andati fino agli anni Trenta del Novecento, ma non tanto per il culto dell’eremita, quanto per l’acqua del beato Giobbe che è considerato il patrono dei bachi da seta e ciò ne spiega la venerazione popolare. E poi chissà che il credo popolare non abbia fatto del leggendario eremita e di san Giobbe una sola figura. Comunque la festa si svolgeva l’11 maggio «e il simulacro del Santo patriarca – ricorda Bonfanti – viene esposto dalla fine di aprile fin verso la fine di giugno, cioè durante tutta l’epoca di preparazione e di coltivazione dei bachi da seta e di raccolta dei bozzoli. La festa era frequentatissima da “forestieri”; salivano a prendere acqua alla grotta di San Giovanni; facevano benedire la stessa presso la statua del Beato; ascoltavano la Messa per loro celebrata. L’appuntamento del beato Giobbe, a maggio, era atteso a Laorca perché portava animazione e gente. (…) C’era poi anche il commercio improvvisato dei fogli di carte pet bachi. Erano i giovanissimi, i ragazzi di Laorca, che salivano alle grotte offrendo i fogli che venivano “inzuppati” di acqua, prima della benedizione in chiesa». Una tradizione continuata appunto fino a Novecento ben inoltrato anche se ormai «già in celino negli anni antecedenti la seconda guerra mondiale».
Ancora, c’è però «un’altra acqua alle Grotte di Lorca che è ritenuta miracolosa – ci dice ancora Bonfanti -: esce dalle cavità naturali della montagna e cade da una “arcata” rocciosa nelle vicinanze della chiesetta di San Giovanni ai Morti. E’ raccolta in “calice”, un calice di pietra collocati sull’area del sagrato della chiesetta. La tradizione vuole che l’acqua del calice sia utile a difendere la vista, a conservare una buona vista, e soprattutto, a far sgambettare i piccoli che muovono i primi passi dell’infanzia».
Il cimitero “grande” restò dunque il Monumentale che era stato inaugurato il 6 agosto 1882, «nell’area tra il vecchio cimitero e il torrente Gerenzone, con non poche discussioni per la vicinanza alla città, quasi all’ombra del campanile che avrebbe cominciato a elevarsi l’anno successivo».
Progettato dall’ingegnere Enrico Gattinoni (1848-1907), «tra i massimi esponenti dell’architettura eclettica lecchese», il cimitero «rappresenta un’elegante eccezione nel dominante stile neoclassico dell’architettura cimiteriale». Nel 1901, venne realizzato il grande ingresso, progettato dall’ingegner Luigi Mazzocchi (1844-1925) che «sceglie di non adeguarsi allo stile neogotico ma di proporre un liberty nella sua versione archeologizzante, emergente in quegli anni tra polemiche e scontento».
A cavallo tra Ottocento e Novecento, «in particolare nelle cappelle gentilizie, le sculture vennero commissionate ad artisti già affermati le cui opere arredano le piazze di Lecco e il Cimitero Monumentale di Milano»: Giulio Branca, Ernesto Bazzaro, Francesco Confalonieri, Ettore Cogliati, Michele Vedani… E poi il simbolismo di Angelo Mantegani, Giannino Castiglioni e Francesco Modena. Fino ai tempi più recenti, passando per Giuseppe Mozzanica e Romeo Pedroli, arrivando a Pablo Atchugarry.
E il percorso tra angeli, figure dolenti, pietà, consente di conoscere meglio le forme del culto dei morti così come si sono articolate secondo i vari periodi tra XIX secolo e il secondo millennio. Per esempio, a proposito delle figure femminili. Scrive Rota: «La donna, immagine privilegiata degli scultori, non è mai soggetto di monumenti commemorativi, per definizione riservati ai “grandi uomini” protagonisti, dove compare invece come corollario narrativo o più spesso sotto forma di allegoria: la musa, la patria, le cinque giornate, la madre, la sposa, la storia, ecc. Nei monumenti funerari gli scultori di fine Ottocento e del Novecento possono ancora esaltare il corpo femminile anche al di fuori dell’iconografia religiosa, strettamente vincolata a modelli classici. Le figure angeliche diventano sempre più femminilizzate, le ragazze liberty sinuose e la rappresentazione delle donne contemporanee, realistiche: le dolenti che visitano, vegliano, custodiscono la memoria dei defunti, incuranti degli sguardi, esibiscono la bellezza dei corpi con l’intensità dei sentimenti.»
Di altro respiro, la tappa al cimitero di Rancio dove il visitatore non può non cogliere una radicata tradizione alpinistica: «Molti di questi alpinisti sono nati a Rancio e qui sono sepolti nel cimitero, in una splendida cornice paesaggistica sulle pendici del S. Martino: di fronte il lago e la città, alle spalle la parete della Medale, spesso riprodotta con rocce dalla forma riconoscibile sulle tombe. Visitare questo cimitero significa ripercorrere storie di vita che da queste pendici hanno preso avvio e che qui hanno trovato il riposo e la memoria»: allora Rota ci accompagna ai sepolcri di Luigi Castagna, Carlo Mauri, Casimiro Ferrari, Antonio Castelnuovo, Duilio Berera. Senza dimenticare altre tombe importanti, la Via Crucis all’ingresso del camposanto e l’adiacente santuario di Santa Maria Gloriosa.
Continuando a risalire il torrente Gerenzone si arriva quindi a Laorca con il cimitero più celebrato per il quale Rota non esita a usare il termine Sacro Monte che avrebbe in realtà altra tradizione. Però, «il complesso monumentale che si è sviluppato attorno alle grotte e all’antica chiesa di San Giovanni ai Morti di Laorca, può certamente essere considerato un patrimonio storico-ambientale unico nel suo genere nel nostro territorio, vero luogo della memoria del vecchio nucleo, ma anche della città».
Nel volumetto “Laorca nel territorio di Lecco” pubblicato nel 1982 su iniziativa del Consiglio di quartiere – organismi di partecipazione ormai cancellati per legge -, lo storico Angelo Borghi scrive: «Famosa in Lombardia è la grotta di Laorca, un tempo considerata delle più belle e ricche di stalattiti, che andarono nel secolo scorso (l’Ottocento, ndr) ad abbellire giardini di Milano. (…) In questo luogo, che diede resti di animali preistorici, abitarono forse i più lontani progenitori; ma sicuramente gli antenati romani hanno lasciato il segno della loro presenza con resti di ceramiche. La grotta venne contornata di suggestive leggende; alcuni pensano vi stesse il Battista; altri racconta che fosse il rifugio di un santo eremita che vi entrava speditamente a cavallo: divenuto lo speco un ritrovo di giovani dissipati, il monte si abbassò un giorno improvvisamente, rendendo buia la caverna e difficile l’accesso».
Di fatto, la piccola chiesa dedicata a San Giovanni a volte indicato come il Battista, altre come Crisostomo, per i lecchesi d’un tempo semplicemente San Giovanni ai Morti, è una delle più antiche della città, sorta forse già nel VII secolo. Mille anni dopo anche Laorca sarebbe stata colpita dalla “peste manzoniana” che – come scrive ancora Borghi - «era stata nel territorio di Lecco maggiormente micidiale che altrove, (…) Il ricordo del flagello e la venerazione per i defunti divenne costante a quei decenni. A Laorca nel 1649 il popolo fece richiesta di costruire una cappella presso la chiesa di San Giovanni, dove dal 1632 si era stabilito un cimitero; vi avrebbe raccolto i poveri resti che riempivano le due sepolture della parrocchiale e che erano dispersiin vari fopponi. E’ l’ossario che man mano raccolse le vittime di tante epidemie.»
Un libro esclusivamente dedicato all’area del cimitero di Laorca è quello scritto da Aloisio Bonfanti per la parrocchia e pubblicato nel 1990: “A centonove passi dalla chiesa di Laorca (Fede e storia intorno alle Grotte)”. Bonfanti ci parla del leggendario eremita: «Un beato Giovanni, santo del posto, l’eremita esemplare, che è vissuto in loco e che è stato sepolto nel piccolo vano che si trova tra la chiesa e la roccia, “l’intoccabile” scurolo. Fu sicuramente un eremita di grande virtù». Spiega Borghi che l’eremita fu «predicatore della fede ai barbari, probabilmente longobardi, stanziatisi nella zona» E proprio sulla tomba sarebbe stata costruita la chiesa: «In seguito, nella tradizione, egli venne confuso con altri Giovanni ben più famosi predicatori, il Battista e il Crisostomo, ai quali man mano mostra di essere dedicata la chiesetta».
Bonfanti registra che, dopo la visita pastorale del 1608, il cardinale Federico Borromeo «fa scrivere al cancelliere al suo seguito: “Si assicura che in una caverna vicina alla chiesa si trovi il corpo di San Giovanni Eremita e che sia grande il concorso di devoti».
In pellegrinaggio alle grotte di Laorca ci si è del resto andati fino agli anni Trenta del Novecento, ma non tanto per il culto dell’eremita, quanto per l’acqua del beato Giobbe che è considerato il patrono dei bachi da seta e ciò ne spiega la venerazione popolare. E poi chissà che il credo popolare non abbia fatto del leggendario eremita e di san Giobbe una sola figura. Comunque la festa si svolgeva l’11 maggio «e il simulacro del Santo patriarca – ricorda Bonfanti – viene esposto dalla fine di aprile fin verso la fine di giugno, cioè durante tutta l’epoca di preparazione e di coltivazione dei bachi da seta e di raccolta dei bozzoli. La festa era frequentatissima da “forestieri”; salivano a prendere acqua alla grotta di San Giovanni; facevano benedire la stessa presso la statua del Beato; ascoltavano la Messa per loro celebrata. L’appuntamento del beato Giobbe, a maggio, era atteso a Laorca perché portava animazione e gente. (…) C’era poi anche il commercio improvvisato dei fogli di carte pet bachi. Erano i giovanissimi, i ragazzi di Laorca, che salivano alle grotte offrendo i fogli che venivano “inzuppati” di acqua, prima della benedizione in chiesa». Una tradizione continuata appunto fino a Novecento ben inoltrato anche se ormai «già in celino negli anni antecedenti la seconda guerra mondiale».
Ancora, c’è però «un’altra acqua alle Grotte di Lorca che è ritenuta miracolosa – ci dice ancora Bonfanti -: esce dalle cavità naturali della montagna e cade da una “arcata” rocciosa nelle vicinanze della chiesetta di San Giovanni ai Morti. E’ raccolta in “calice”, un calice di pietra collocati sull’area del sagrato della chiesetta. La tradizione vuole che l’acqua del calice sia utile a difendere la vista, a conservare una buona vista, e soprattutto, a far sgambettare i piccoli che muovono i primi passi dell’infanzia».
Dario Cercek