SCAFFALE LECCHESE/174: Salvatore Farina, l'amico del Ghislanzoni poi dimenticato
Un gruppo di milanesi che villeggiava nelle atmosfere scapigliate dell’albergo del Davide a Maggianico, una sera del luglio 1881 prese una carrozza alla volta di Pasturo con l’intenzione di salire all’indomani in vetta al Grignone. «I miei compagni erano gente allegra, tutti pensionanti dell’oste di Maggianico. Ci promettevamo a vicenda una ascensione memoranda; il sole ci aveva mostrato la faccia serena; eravamo sani e ben disposti, nulla mancava…ed ecco, giunti appena a Pasturo sull’imbrunire, si annunziò la pioggia scrosciando dirotta. (…) Pioveva a catinelle, si erano aperte tutte le cateratte del cielo. (…) Noi, punto sgomenti, ce ne andammo a riposare sui nostri letti, sapendo che al primo bagliore dell’alba, alle quattro del mattino, il padrone dell’albergo sarebbe venuto in persona a picchiare ai nostri usci. Ma era destinaccio che non dovessimo far la salita della Grigna perché alle quattro del mattino pioveva tal quale come al momento del mostro arrivo. Che fare? Null’altro se non tornare a Maggianico, dove sicuramente eravamo aspettati. (…) Io non tentai mai più la Grigna».
Il racconto della mancata escursione si deve a Salvatore Farina, scrittore prolifico e di un certo successo all’epoca sua, amico di Antonio Ghislanzoni al quale succedette nella guida della “Gazzetta musicale” quando il nostro lasciò Milano. Ed è proprio per i rapporti con il Ghislanzoni che Farina venne a trascorrere la vacanza estiva di quel 1881 a Maggianico. Per quanto infruttuosa, la breve escursione a Pasturo gli diede comunque lo spunto per un racconto lungo che scrisse in quella stessa estate: “Fra le corde d’un contrabasso”. Ambientato proprio a Pasturo, il racconto ebbe grande fortuna anche internazionale al punto da essere usato negli Stati Uniti come testo per imparare l’Italiano.
Questa curiosa vicenda letteraria è esaurientemente raccontata in un agevole ma raffinato volumetto pubblicato nel 2010 dell’associazione culturale pasturese “Il Grinzone”: curato da Federico Oriani, raccoglie anche saggi di Dino Manca e Gian Luca Baio, oltre a riproporci il racconto e altre pagine lecchesi di Salvatore Farina.
«Nel settembre 1869 Farina risiedeva a Milano – scrive Dino Manca -. Aveva preso alloggio in due camere ammobiliate vicino a piazza del Duomo, nel Coperto dei Figini. Era nato il 10 gennaio del 1846 a Sorso (Sassari), nel regno di Sardegna, da Agostino, procuratore del Re a Tempio e da Chiara Oggiano, ultimo di sei figli scomparsi tutti precocemente». Il mestiere del padre comportava una serie di trasferimenti: da Tempio a Nuoro e poi a Casale Monferrato dove il giovane Salvatore aveva dato inizio alla sia primissima produzione letterariaFarina si era poi trasferito a Pavia per conseguire la licenza liceale e successivamente iscriversi a Giurisprudenza. A Pavia l’incontro con una giovane vedova, madre di due figli, sposata il mese dopo il conseguimento della laurea e una settimana prima del trasferimento dell’intera nuova famiglia a Milano con il proposito di «fare un portento: vivere di letteratura e di letteratura soltanto».
Con esiti incoraggianti: «Negli anni Settanta – ancora Manca - Farina andava ponendo le basi per diventare uno dei massimi esponenti della letteratura di intrattenimento postunitaria. Una letteratura rivolta a un pubblico esigente dal punto di vista estetico e formale, dei linguaggi e delle modalità espressive (…) Una narrativa di matrice sentimentale, moralistica e umoristica, lontana dagli stereotipi e dalle semplificazioni proprie della più pura produzione appendicistica (…) sia dagli eccessi, dalle nevrosi e dagli estremismi avanguardistici della neonata tendenza scapigliata e più vicina semmai allo humour dickensiano, alla tradizione moralistica francese….. (…) Lo scrittore sardo focalizzò l0’attenzione su altri aspetti del racconto; non il romanzo sociale ma quello umano, capace di assolvere alla sua funzione più nobile, ossia l’educazione del cuore». In un’epoca in cui anche letterariamente occorreva “fare gli italiani” «si rivelava necessario rappresentare il più possibile un codice morale e ideologico di riferimento nazionale».
Farina fu amico di Iginio Ugo Tarchetti che morì di tifo, il 25 marzo 1869 «dopo che, sollecitato da Leone Fortis, direttore del “Pungolo”, lo scrittore di Sorso aveva concluso, capace più di ogni altro, di fingere lo stile del compagno, la stesura di “Fosca”». Che di Tarchetti è l’opera principe. Chapeau, dunque.
Nel frattempo, era nata anche l’amicizia con il lecchese Antonio Ghislanzoni. Scrive Federico Oriani: Ghislanzoni «dopo aver viaggiato in Europa, si stabilì a Milano dove dirigeva la “Gazzetta musicale” pubblicata da Ricordi e nel 1865 fondò la “Rivista minima” nella quale ebbe Salvatore Farina tra i più stretti collaboratori. Nel 1869 Ghislanzoni decise di lasciare Milano per ritirarsi prima a Mariaga (Eupilio), poi a Malgrate ed infine a Caprino Bergamasco e cede a Farina la cura delle due riviste. (…) Il rapporto tra Farina e Ghislanzoni, oltre che professionale, era anche personale: il librettista lecchese fu padrino di battesimo di Chiara Maria Antonietta, figlia dello scrittore sardo, e nel 1878 Farina trascorse con la famiglia un lungo periodo ospite di Ghislanzoni a Malgrate» oltre alla villeggiatura del 1881 a Maggianico. Della quale, lo stesso Farina diceva: «La vita che si faceva colà potrebbe tentare la vena allegra d’un poeta. In quel luogo lontano dal mondo, sebbene vicino a Milano, tutto si compendiava nell’alberghetto del Davide. Giungevano a quell’asilo beati molti artisti. Roberto Fontana vi aveva dipinto una figurina di donna poco vestita, che attirava gli occhi mascolini, e non forse perché diceva di essere “l’arte” o una qualunque delle tante muse. Antonio Ghislanzoni, sebben stesse ancora al Porto di Lecco, era il monarca di quel piccolo regno. Per incontrarsi con lui librettista, venivano a Maggianico gli editori e i maestri di musica. Amilcare Ponchielli aveva costruito poco distante, sul Pian dell’Adda, una bella villetta; più solenne, quasi maestosa, sullo stesso piano l’aveva voluta il maestro Gomez, sempre in cerca di libretti. Il buon brasiliano era un po’ orso, al par d’ogni orso nato faceva ogni sua carezza a chi lo andasse a snidare nella bella tana. Io lo tentai parecchie volte, e fu sempre per lui una contentezza ingenua mettersi al pianoforte e farmi sentire l’ultima pagina manoscritta dell’ultima sua ispirazione. Ed egli pure col Ponchielli se ne veniva a Maggianico dopo il desinare, all’ora che era quasi sicuro di trovarci il Ghislanzoni. Ed era interminabile gara di ciance fra noi quattro. Talvolta si univa al capannello un altro, Fontana Ferdinando, buon poeta e buon amico. Anche giungeva spesso il maestro Pasta (altro orso di Calolzio), il quale aveva sempre qualche buon verso da far aggiungere a un libretto del Ghislanzoni già da lui musicato e non rappresentato ancora, forse non rappresentato mai, com’è la sorte maligna di tanti maestri di musica, pur dei migliori».
“Fra le corde d’un contrabasso” apparve per la prima volta sulle pagine della “Rassegna Nazionale” nel gennaio 1882: nello stesso anno l’editore Brigola lo pubblicò in un volume autonomo riedito nel 1884. Già nel 1882 venne tradotto in tedesco. Ne seguirono versioni in molte altre lingue: «In pochi anni – ci informa ancora Oriani - il racconto ebbe diffusione non solo in quasi tutta Europa ma anche in America Latina. Il testo trovò particolare favore negli Stati Uniti d’America dove, per lo stile molto semplice, fu adottato all’uso didattico. Fu pubblicato più volte nelle collane più note rivolte agli studenti dei corsi di lingua italiana»
A questo proposito ricorda Gian Luca Baio: «Quando Paolo Cherchi, professore di letterature romanze dal 1965 al 2003 presso l’Università di Chicago, prese possesso del suo nuovo ufficio accademico, vi trovò inaspettatamente alcuni vecchi libri in italiano, malconci e polverosi, lì dimenticati o forse volontariamente abbandonati dal suo predecessore. Tra questi, uno era il cosiddetto “reader”, cioè un testo letterario commentato a margine che fungeva da manuale di lettura di apprendimento per studenti della lingua italiana, con tanto di “vocabulary” in appendice, “notes on pronunciation” e segnature diacritiche per rendere meno ostica la nostra bella e difficile lingua agli studenti anglofoni: il testo, pubblicato nel 1931, proprio a Chicago si intitolava “Fra le corde di un contrabasso” ed era stato scritto da Salvatore Farina (…) a più riprese definito il Dickens italiano».Il racconto è un’aggrovigliata storia d’amore raccontata in prima persona dal medico condotto di Pasturo, medico che per la famiglia di Giovanni Brighi, produttore di stracchini, non solo esercita la sua professione ma fa anche da confidente e dispensatore di consigli. Figlio maggiore del Brighi è Orazio che «nato e cresciuto tra le montagne, era stato mandato a Lecco e Como per farvi gli studi del ginnasio e del liceo; di là aveva fatto ritorno alla sua vallata, con molti capelli spettinati, con molte cognizioni spettinate e con un contrabasso» che generò molto stupore nella popolazione locale: «gli anziani si ricordavano benissimo che il loro comune aveva posseduto già un sonatore di clarinetto e uno di violino, ma assicuravano che il contrabasso di Orazio era il primo strumento di queste dimensioni che penetrasse in paese, a memoria d’uomo». Un giorno, a soggiornare a casa Brighi arriva la bella Concettina, nipote di Giovanni e cugina di Orazio del quale la giovane s’innamora. Parrebbe vanamente, visto che Orazio sembra più interessato ad andare per monti a raccogliere sonorità. La matassa s’ingarbuglia ancora di più, considerato che lo stesso Giovanni Brighi vorrebbe sposare la nipote della quale s’innamora Toniotto, il fratello minore di Orazio. Come un deus ex machina, a risolvere la situazione arriverà un giovane artigiano che il babbo di Concettina vorrebbe come genero. Sennonché il nuovo arrivato sarà costretto ad andarsene con la coda tra le gambe.
Storia pasturese, ma in realtà avrebbe potuto svolgersi ovunque, E valido per tante altre località montane pure il quadretto fors’anche un po’ eccessivamente idilliaco che fa da incipit: «In quelle vallate non ci si ammala quasi, gli uomini lavorano nelle cascine, le donne nei prati, i fanciulli si arrampicano su per i monti, accompagnando le vacche; fanno tutti una vita tranquilla, sono contenti del loro stato e lo migliorano un po’ alla volta senza affannarsi; bevono il latte caldo delle loro bestie e l’acqua fresca, che si annunzia da lontano col rumore delle cascatelle e dei rigagnoli, poco vino, e punto liquori. Così vengono su forti, campano lungamente, e non danno molto da fare al medico condotto. Perciò io mi trovava bene in Pasturo, e non posso ricordare quel tempo senza che mi si apra agli occhi il quieto orizzonte della Valsassina e mi ripigli la tentazione di andarvi a finire i miei giorni».
Il racconto della mancata escursione si deve a Salvatore Farina, scrittore prolifico e di un certo successo all’epoca sua, amico di Antonio Ghislanzoni al quale succedette nella guida della “Gazzetta musicale” quando il nostro lasciò Milano. Ed è proprio per i rapporti con il Ghislanzoni che Farina venne a trascorrere la vacanza estiva di quel 1881 a Maggianico. Per quanto infruttuosa, la breve escursione a Pasturo gli diede comunque lo spunto per un racconto lungo che scrisse in quella stessa estate: “Fra le corde d’un contrabasso”. Ambientato proprio a Pasturo, il racconto ebbe grande fortuna anche internazionale al punto da essere usato negli Stati Uniti come testo per imparare l’Italiano.
Questa curiosa vicenda letteraria è esaurientemente raccontata in un agevole ma raffinato volumetto pubblicato nel 2010 dell’associazione culturale pasturese “Il Grinzone”: curato da Federico Oriani, raccoglie anche saggi di Dino Manca e Gian Luca Baio, oltre a riproporci il racconto e altre pagine lecchesi di Salvatore Farina.
«Nel settembre 1869 Farina risiedeva a Milano – scrive Dino Manca -. Aveva preso alloggio in due camere ammobiliate vicino a piazza del Duomo, nel Coperto dei Figini. Era nato il 10 gennaio del 1846 a Sorso (Sassari), nel regno di Sardegna, da Agostino, procuratore del Re a Tempio e da Chiara Oggiano, ultimo di sei figli scomparsi tutti precocemente». Il mestiere del padre comportava una serie di trasferimenti: da Tempio a Nuoro e poi a Casale Monferrato dove il giovane Salvatore aveva dato inizio alla sia primissima produzione letterariaFarina si era poi trasferito a Pavia per conseguire la licenza liceale e successivamente iscriversi a Giurisprudenza. A Pavia l’incontro con una giovane vedova, madre di due figli, sposata il mese dopo il conseguimento della laurea e una settimana prima del trasferimento dell’intera nuova famiglia a Milano con il proposito di «fare un portento: vivere di letteratura e di letteratura soltanto».
Con esiti incoraggianti: «Negli anni Settanta – ancora Manca - Farina andava ponendo le basi per diventare uno dei massimi esponenti della letteratura di intrattenimento postunitaria. Una letteratura rivolta a un pubblico esigente dal punto di vista estetico e formale, dei linguaggi e delle modalità espressive (…) Una narrativa di matrice sentimentale, moralistica e umoristica, lontana dagli stereotipi e dalle semplificazioni proprie della più pura produzione appendicistica (…) sia dagli eccessi, dalle nevrosi e dagli estremismi avanguardistici della neonata tendenza scapigliata e più vicina semmai allo humour dickensiano, alla tradizione moralistica francese….. (…) Lo scrittore sardo focalizzò l0’attenzione su altri aspetti del racconto; non il romanzo sociale ma quello umano, capace di assolvere alla sua funzione più nobile, ossia l’educazione del cuore». In un’epoca in cui anche letterariamente occorreva “fare gli italiani” «si rivelava necessario rappresentare il più possibile un codice morale e ideologico di riferimento nazionale».
Farina fu amico di Iginio Ugo Tarchetti che morì di tifo, il 25 marzo 1869 «dopo che, sollecitato da Leone Fortis, direttore del “Pungolo”, lo scrittore di Sorso aveva concluso, capace più di ogni altro, di fingere lo stile del compagno, la stesura di “Fosca”». Che di Tarchetti è l’opera principe. Chapeau, dunque.
Nel frattempo, era nata anche l’amicizia con il lecchese Antonio Ghislanzoni. Scrive Federico Oriani: Ghislanzoni «dopo aver viaggiato in Europa, si stabilì a Milano dove dirigeva la “Gazzetta musicale” pubblicata da Ricordi e nel 1865 fondò la “Rivista minima” nella quale ebbe Salvatore Farina tra i più stretti collaboratori. Nel 1869 Ghislanzoni decise di lasciare Milano per ritirarsi prima a Mariaga (Eupilio), poi a Malgrate ed infine a Caprino Bergamasco e cede a Farina la cura delle due riviste. (…) Il rapporto tra Farina e Ghislanzoni, oltre che professionale, era anche personale: il librettista lecchese fu padrino di battesimo di Chiara Maria Antonietta, figlia dello scrittore sardo, e nel 1878 Farina trascorse con la famiglia un lungo periodo ospite di Ghislanzoni a Malgrate» oltre alla villeggiatura del 1881 a Maggianico. Della quale, lo stesso Farina diceva: «La vita che si faceva colà potrebbe tentare la vena allegra d’un poeta. In quel luogo lontano dal mondo, sebbene vicino a Milano, tutto si compendiava nell’alberghetto del Davide. Giungevano a quell’asilo beati molti artisti. Roberto Fontana vi aveva dipinto una figurina di donna poco vestita, che attirava gli occhi mascolini, e non forse perché diceva di essere “l’arte” o una qualunque delle tante muse. Antonio Ghislanzoni, sebben stesse ancora al Porto di Lecco, era il monarca di quel piccolo regno. Per incontrarsi con lui librettista, venivano a Maggianico gli editori e i maestri di musica. Amilcare Ponchielli aveva costruito poco distante, sul Pian dell’Adda, una bella villetta; più solenne, quasi maestosa, sullo stesso piano l’aveva voluta il maestro Gomez, sempre in cerca di libretti. Il buon brasiliano era un po’ orso, al par d’ogni orso nato faceva ogni sua carezza a chi lo andasse a snidare nella bella tana. Io lo tentai parecchie volte, e fu sempre per lui una contentezza ingenua mettersi al pianoforte e farmi sentire l’ultima pagina manoscritta dell’ultima sua ispirazione. Ed egli pure col Ponchielli se ne veniva a Maggianico dopo il desinare, all’ora che era quasi sicuro di trovarci il Ghislanzoni. Ed era interminabile gara di ciance fra noi quattro. Talvolta si univa al capannello un altro, Fontana Ferdinando, buon poeta e buon amico. Anche giungeva spesso il maestro Pasta (altro orso di Calolzio), il quale aveva sempre qualche buon verso da far aggiungere a un libretto del Ghislanzoni già da lui musicato e non rappresentato ancora, forse non rappresentato mai, com’è la sorte maligna di tanti maestri di musica, pur dei migliori».
“Fra le corde d’un contrabasso” apparve per la prima volta sulle pagine della “Rassegna Nazionale” nel gennaio 1882: nello stesso anno l’editore Brigola lo pubblicò in un volume autonomo riedito nel 1884. Già nel 1882 venne tradotto in tedesco. Ne seguirono versioni in molte altre lingue: «In pochi anni – ci informa ancora Oriani - il racconto ebbe diffusione non solo in quasi tutta Europa ma anche in America Latina. Il testo trovò particolare favore negli Stati Uniti d’America dove, per lo stile molto semplice, fu adottato all’uso didattico. Fu pubblicato più volte nelle collane più note rivolte agli studenti dei corsi di lingua italiana»
A questo proposito ricorda Gian Luca Baio: «Quando Paolo Cherchi, professore di letterature romanze dal 1965 al 2003 presso l’Università di Chicago, prese possesso del suo nuovo ufficio accademico, vi trovò inaspettatamente alcuni vecchi libri in italiano, malconci e polverosi, lì dimenticati o forse volontariamente abbandonati dal suo predecessore. Tra questi, uno era il cosiddetto “reader”, cioè un testo letterario commentato a margine che fungeva da manuale di lettura di apprendimento per studenti della lingua italiana, con tanto di “vocabulary” in appendice, “notes on pronunciation” e segnature diacritiche per rendere meno ostica la nostra bella e difficile lingua agli studenti anglofoni: il testo, pubblicato nel 1931, proprio a Chicago si intitolava “Fra le corde di un contrabasso” ed era stato scritto da Salvatore Farina (…) a più riprese definito il Dickens italiano».Il racconto è un’aggrovigliata storia d’amore raccontata in prima persona dal medico condotto di Pasturo, medico che per la famiglia di Giovanni Brighi, produttore di stracchini, non solo esercita la sua professione ma fa anche da confidente e dispensatore di consigli. Figlio maggiore del Brighi è Orazio che «nato e cresciuto tra le montagne, era stato mandato a Lecco e Como per farvi gli studi del ginnasio e del liceo; di là aveva fatto ritorno alla sua vallata, con molti capelli spettinati, con molte cognizioni spettinate e con un contrabasso» che generò molto stupore nella popolazione locale: «gli anziani si ricordavano benissimo che il loro comune aveva posseduto già un sonatore di clarinetto e uno di violino, ma assicuravano che il contrabasso di Orazio era il primo strumento di queste dimensioni che penetrasse in paese, a memoria d’uomo». Un giorno, a soggiornare a casa Brighi arriva la bella Concettina, nipote di Giovanni e cugina di Orazio del quale la giovane s’innamora. Parrebbe vanamente, visto che Orazio sembra più interessato ad andare per monti a raccogliere sonorità. La matassa s’ingarbuglia ancora di più, considerato che lo stesso Giovanni Brighi vorrebbe sposare la nipote della quale s’innamora Toniotto, il fratello minore di Orazio. Come un deus ex machina, a risolvere la situazione arriverà un giovane artigiano che il babbo di Concettina vorrebbe come genero. Sennonché il nuovo arrivato sarà costretto ad andarsene con la coda tra le gambe.
Storia pasturese, ma in realtà avrebbe potuto svolgersi ovunque, E valido per tante altre località montane pure il quadretto fors’anche un po’ eccessivamente idilliaco che fa da incipit: «In quelle vallate non ci si ammala quasi, gli uomini lavorano nelle cascine, le donne nei prati, i fanciulli si arrampicano su per i monti, accompagnando le vacche; fanno tutti una vita tranquilla, sono contenti del loro stato e lo migliorano un po’ alla volta senza affannarsi; bevono il latte caldo delle loro bestie e l’acqua fresca, che si annunzia da lontano col rumore delle cascatelle e dei rigagnoli, poco vino, e punto liquori. Così vengono su forti, campano lungamente, e non danno molto da fare al medico condotto. Perciò io mi trovava bene in Pasturo, e non posso ricordare quel tempo senza che mi si apra agli occhi il quieto orizzonte della Valsassina e mi ripigli la tentazione di andarvi a finire i miei giorni».
Dario Cercek