Lecco: ad Immagimondo Casalini racconta i danni prodotti dal Fast Fashion
''Buono, sano, pulito, giusto e durevole''. Sono questi i requisiti a cui, secondo Dario Casalini, il consumatore dovrebbe prestare attenzione prima di acquistare un capo d’abbigliamento. ''Se iniziate a farlo, realizzerete già una rivoluzione perché non comprereste più alcun prodotto di cui non conoscete la storia''. È una vera e propria sfida quella che il fondatore di Slow Fiber, la Slow Food del tessile, ha lanciato agli spettatori durante la conferenza svoltasi ieri pomeriggio a Palazzo Falck nel quadro di Immagimondo, il festival di viaggi, luoghi e culture promosso ogni anno da Les Cultures.
Una sfida a ribaltare il sistema del fast fashion. ''Una norma di legge non sovvertirà mai un modello come questo. È necessario il coinvolgimento dei consumatori. Non ce ne rendiamo conto ma abbiamo un potere enorme'' ha aggiunto Casalini, stimolato dalle domande di Duccio Facchini, direttore di Altraeconomia. Nato negli anni 90, il fast fashion si è sviluppato di pari passo con l’e-commerce con un enorme impatto ambientale e sociale. ''Con il termine “buono” si fa riferimento alle conseguenze che la produzione di quel capo d’abbigliamento ha avuto sull’ambiente. Quanto è lunga la filiera? Viene utilizzata energia da fonti rinnovabili? Chiaramente mantenere una filiera di produzione corta, per esempio all’interno dello stesso paese, o utilizzare energia rinnovabile genera dei costi'' ha proseguito l’imprenditore tessile. ''Attenzione, i problemi vanno presi nella loro complessità. Quando sentite dire ''basta cotone perché consuma troppo'' in realtà è una semplificazione. È l’approccio intensivo messo in atto dall’uomo che crea degli squilibri. Proprio perché ne consuma tanta, il cotone va coltivato solo in luoghi dove l’acqua si rigenera velocemente, come per esempio lungo le rive del Nilo''.
Quest’anno, lo ricordiamo, ricorrono i dieci anni dalla tragedia del Rana Plaza in Bangladesh. Nel crollo di quell’edificio morirono 1138 persone, tutti lavori dell’industria tessile. ''Secondo l’ILO un lavoratore su sei al mondo è impiegato nel tessile. Di questi, solo il 2% riceve un salario dignitoso. Capite che il settore sarebbe da stravolgere completamente domani'' ha sottolineato Casalini. ''Tale responsabilità è in capo a noi consumatori perché è la nostra domanda che ha generato questo sistema. Secondo alcuni studi si producono 150miliardi di capi d’abbigliamento all’anno e ne vengono usati meno della metà''.
Tale dinamica è alimentata dall’industria del fast fashion in due modi. ''In primo luogo, attraverso gli investimenti in marketing e pubblicità. Per i brand come il mio o quelli coinvolti in slow fiber è difficile emergere perchè non abbiamo la possibilità di realizzare investimenti pubblicitari altrettanto ingenti. O si investe in quello o nella qualità del prodotto. Questa è una delle ragioni per cui, al di fuori di lusso e fast fashion, non è rimasto quasi più niente nel mercato della moda'' ha proseguito Casalini. ''In parallelo si pone il tema della durevolezza. Alcuni secoli fa i vestiti duravano talmente tanto che si potevano tramandare di generazione in generazione, come i palazzi o i gioielli. Oggi, la media di utilizzo dei prodotti di fast fashion in Gran Bretagna è 1,3 volte. Il tasso di obsolescenza è molto rapido a causa sia del repentino cambiamento dei modelli da seguire sia di un abbassamento effettivo della qualità delle finiture''.
Tutti quei capi di abbigliamento, lo ricordiamo, vengono buttati. ''I vestiti acquistati in Internet hanno una percentuale di reso del 90%. Tutti i prodotti che vengono ridati indietro finiscono in discarica'' ha sottolineato l’imprenditore torinese, autore, tra l’altro, del saggio “Vestire buono, pulito e giusto”, uscito per Slow Food nel 2021. Come può fare il consumatore a capire quali capi di abbigliamento acquistare? “L’unica cosa che ci salverà è la curiosità. Chiedete al negoziante da dove arriva un capo di abbigliamento, qual è la sua storia. Un vestito può anche essere fatto di una fibra naturale ma bisogna vedere dove e come questa è stata lavorata. Andate a vedere le fabbriche se potete. Da noi vengono turisti praticamente una volta la settimana. Ma soprattutto, guardate il prezzo, non c’è un indicatore migliore di quello'' ha concluso Casalini.
Una sfida a ribaltare il sistema del fast fashion. ''Una norma di legge non sovvertirà mai un modello come questo. È necessario il coinvolgimento dei consumatori. Non ce ne rendiamo conto ma abbiamo un potere enorme'' ha aggiunto Casalini, stimolato dalle domande di Duccio Facchini, direttore di Altraeconomia. Nato negli anni 90, il fast fashion si è sviluppato di pari passo con l’e-commerce con un enorme impatto ambientale e sociale. ''Con il termine “buono” si fa riferimento alle conseguenze che la produzione di quel capo d’abbigliamento ha avuto sull’ambiente. Quanto è lunga la filiera? Viene utilizzata energia da fonti rinnovabili? Chiaramente mantenere una filiera di produzione corta, per esempio all’interno dello stesso paese, o utilizzare energia rinnovabile genera dei costi'' ha proseguito l’imprenditore tessile. ''Attenzione, i problemi vanno presi nella loro complessità. Quando sentite dire ''basta cotone perché consuma troppo'' in realtà è una semplificazione. È l’approccio intensivo messo in atto dall’uomo che crea degli squilibri. Proprio perché ne consuma tanta, il cotone va coltivato solo in luoghi dove l’acqua si rigenera velocemente, come per esempio lungo le rive del Nilo''.
Quest’anno, lo ricordiamo, ricorrono i dieci anni dalla tragedia del Rana Plaza in Bangladesh. Nel crollo di quell’edificio morirono 1138 persone, tutti lavori dell’industria tessile. ''Secondo l’ILO un lavoratore su sei al mondo è impiegato nel tessile. Di questi, solo il 2% riceve un salario dignitoso. Capite che il settore sarebbe da stravolgere completamente domani'' ha sottolineato Casalini. ''Tale responsabilità è in capo a noi consumatori perché è la nostra domanda che ha generato questo sistema. Secondo alcuni studi si producono 150miliardi di capi d’abbigliamento all’anno e ne vengono usati meno della metà''.
Tale dinamica è alimentata dall’industria del fast fashion in due modi. ''In primo luogo, attraverso gli investimenti in marketing e pubblicità. Per i brand come il mio o quelli coinvolti in slow fiber è difficile emergere perchè non abbiamo la possibilità di realizzare investimenti pubblicitari altrettanto ingenti. O si investe in quello o nella qualità del prodotto. Questa è una delle ragioni per cui, al di fuori di lusso e fast fashion, non è rimasto quasi più niente nel mercato della moda'' ha proseguito Casalini. ''In parallelo si pone il tema della durevolezza. Alcuni secoli fa i vestiti duravano talmente tanto che si potevano tramandare di generazione in generazione, come i palazzi o i gioielli. Oggi, la media di utilizzo dei prodotti di fast fashion in Gran Bretagna è 1,3 volte. Il tasso di obsolescenza è molto rapido a causa sia del repentino cambiamento dei modelli da seguire sia di un abbassamento effettivo della qualità delle finiture''.
Tutti quei capi di abbigliamento, lo ricordiamo, vengono buttati. ''I vestiti acquistati in Internet hanno una percentuale di reso del 90%. Tutti i prodotti che vengono ridati indietro finiscono in discarica'' ha sottolineato l’imprenditore torinese, autore, tra l’altro, del saggio “Vestire buono, pulito e giusto”, uscito per Slow Food nel 2021. Come può fare il consumatore a capire quali capi di abbigliamento acquistare? “L’unica cosa che ci salverà è la curiosità. Chiedete al negoziante da dove arriva un capo di abbigliamento, qual è la sua storia. Un vestito può anche essere fatto di una fibra naturale ma bisogna vedere dove e come questa è stata lavorata. Andate a vedere le fabbriche se potete. Da noi vengono turisti praticamente una volta la settimana. Ma soprattutto, guardate il prezzo, non c’è un indicatore migliore di quello'' ha concluso Casalini.
A.Bes.