Lecco: con Solenghi sul palco, i Promessi Sposi del Trio fanno ancora ridere
Tra Alessandro Manzoni e Paolo Villaggio, un Leopardi declinato nei vari accenti regionali e un florilegio di aneddoti, di perfette imitazioni e di esilaranti caricature. Chiusura frizzante per il festival “Lecco città del Manzoni” con l’attore Tullio Solenghi, intervistato dal direttore dei musei civici Mauro Rossetto, ieri sera davanti alla platea gremita del Cenacolo Francescano.
Solenghi, si ricorderà, è stato con Anna Marchesini e Massimo Lopez uno dei componenti di quel Trio che nel 1990 portò in televisione una parodia di successo dei “Promessi sposi”. E di quell’esperienza si è naturalmente parlato. Della curiosa genesi, una sera a un ricevimento quando una signora suggerì a Marchesini l’idea proprio di parodiare il romanzo manzoniano sull’onda dello sceneggiato televisivo di Salvatore Nocita andato in onda alla fine del 1989. Un vero e proprio kolossal, si ricorderà, che a molti aveva però fatto rimpiangere la versione di vent’anni prima firmata da Sandro Bolchi.
«Il ricordo scolastico del Manzoni – ha spiegato Solenghi – era nefasto. Ma quando abbiamo deciso di farne la parodia, e riletto il romanzo, c’è stata la folgorazione», citando Leonardo Sciascia che dei “Promessi sposi” ha sottolineato l’attualità e Umberto Eco che invitava a non dare ascolto a chi diceva che di quel romanzo si sarebbe anche potuto fare a meno.
«S’era deciso che noi tre avremmo fatto tutti i personaggi – ha continuato l’attore – anche per risparmiare sul budget… che per un genovese come me è un aspetto fondamentale. All’epoca eravamo all’apice del successo e la Rai voleva offrirci la conduzione di “Fantastico”, la trasmissione principe della televisione italiana, quella a cui aspiravano tutti. Il direttore generale della Rai, Biagio Agnes, ci invitò a casa sua per dircelo. Rispondemmo di no e lui non ci credeva. Dicemmo che volevamo fare la parodia dei “Promessi sposi”. Ce lo concesse ma per produrla ci inviò a Torino che era sì la prima sede della televisione ma ormai era una struttura defilata. E infatti, quando arrivammo a Torino, ci accolsero increduli».
La miniserie, cinque puntate trasmesse il sabato sera nei mesi di gennaio e febbraio del 1990, venne girata tra Torino e il Ricetto di Candelo, un borgo medievale nei pressi di Vercelli. Nel cast, a interpretare sè stessi, anche Pippo Baudo, Wanna Marchi che vendeva pomate contro la peste, il giornalista Pietro Badaloni che l’arrivo della peste lo annunciava al telegiornale. «Avremmo anche voluto Mike Bongiorno nei panni dell’Azzeccagarbugli, ma non fu possibile perché aveva un contratto d’esclusiva con Mediaset. “Mi sarebbe venuto bene…” ci diceva».
Fu un successo strepitoso, con una media di 11 milioni di spettatori, confermando che c’era spazio per quel tipo di televisione: una trasmissione comica dall’inizio alla fine. «Fino ad allora, i comici avevano spazio solo in piccoli interventi all’interno di spettacoli generali. Spesso la comicità è vista come qualcosa di serie B. C’è un pregiudizio. Allora ci davano dei qualunquisti perché non facevamo satira. Il fatto è che allora la satira la facevano tutti. Noi volevamo altro».
L’intervista è stata inframmezzata da interpretazioni che hanno trascinato il pubblico: la gita di Fantozzi a Postumia, la “Quercia del Tasso” di Achille Campanile, la “Silvia” di Giacomo Leopardi recitata con le cadenze regionali più saccentuate e alla fine cantata in napoletano sull’aria della celebre “Malafemmina”. E la “Luisona” di Stefano Benni.
Tra gli aneddoti, un Paolo Villaggio vendicativo nei confronti di un Silvan strafottente, un Alberto Sordi caustico nei confronti di Maurizio Micheli e la serata della bomba al Teatro Sistina di Roma. Nel senso che la solita telefonata anonima aveva annunciato la presenza di un ordigno in platea mentre era in scena proprio il Trio. Avrebbero dovuto far sgomberare la sala, ma ogni annuncio prima di Solenghi e poi di Marchesini ma anche degli stessi carabinieri in divisa era accolto dal pubblico con applausi e risate. Per liberare il teatro si dovette fingere che lo spettacolo fosse finito: sipario aperto, scena vuota, luci in sala. E gli spettatori se ne andarono un po’ sorpresi. Naturalmente, la bomba non c’era, però all’uscita dal teatro, Solenghi fu raggiunto da uno spettatore: «Complimenti. E che idea, quella della bomba. Grande!».
Spazio anche all’impegno animalista, alla scelta di essere vegetariano per via dello strano incontro del vecchio labrador Jocker che in un parcheggio dell’autostrada scambiava effusioni con uno dei maiali rinchiusi in un camion avviato al macello. «Non è necessario mangiare carne. Si può vivere di vegetale». Dall’animalismo all’ecologia e alla necessità di impegnarsi per salvare il Pianeta.
Intanto, il futuro personale è quasi un ritorno all’infanzia: «Tecnicamente sono un pensionato ma lavoro ancora. E ho deciso di fare quello che volevo fare da tempo: portare in scena le commedie di Gilberto Govi che per noi genovesi è un mito. Quando avevo sette anni e abitavo a Sant’Ilario, un giorno si diffuse la voce che in un ristorante del paese stava pranzando Govi, noi bambini ci precipitammo per farci fare l’autografo. L’autografo chissà dov’è finito, perso nei vari traslochi, ma di quel giorno mi è rimasto il ricordo di quel vecchietto pacato, pensando che avrei voluto essere come lui. Così, ora, ho deciso di trasformarmi in Govi: non lo interpreto solo, lo clono: un’ora e passa di trucco per assomigliargli».
Solenghi, si ricorderà, è stato con Anna Marchesini e Massimo Lopez uno dei componenti di quel Trio che nel 1990 portò in televisione una parodia di successo dei “Promessi sposi”. E di quell’esperienza si è naturalmente parlato. Della curiosa genesi, una sera a un ricevimento quando una signora suggerì a Marchesini l’idea proprio di parodiare il romanzo manzoniano sull’onda dello sceneggiato televisivo di Salvatore Nocita andato in onda alla fine del 1989. Un vero e proprio kolossal, si ricorderà, che a molti aveva però fatto rimpiangere la versione di vent’anni prima firmata da Sandro Bolchi.
«Il ricordo scolastico del Manzoni – ha spiegato Solenghi – era nefasto. Ma quando abbiamo deciso di farne la parodia, e riletto il romanzo, c’è stata la folgorazione», citando Leonardo Sciascia che dei “Promessi sposi” ha sottolineato l’attualità e Umberto Eco che invitava a non dare ascolto a chi diceva che di quel romanzo si sarebbe anche potuto fare a meno.
«S’era deciso che noi tre avremmo fatto tutti i personaggi – ha continuato l’attore – anche per risparmiare sul budget… che per un genovese come me è un aspetto fondamentale. All’epoca eravamo all’apice del successo e la Rai voleva offrirci la conduzione di “Fantastico”, la trasmissione principe della televisione italiana, quella a cui aspiravano tutti. Il direttore generale della Rai, Biagio Agnes, ci invitò a casa sua per dircelo. Rispondemmo di no e lui non ci credeva. Dicemmo che volevamo fare la parodia dei “Promessi sposi”. Ce lo concesse ma per produrla ci inviò a Torino che era sì la prima sede della televisione ma ormai era una struttura defilata. E infatti, quando arrivammo a Torino, ci accolsero increduli».
La miniserie, cinque puntate trasmesse il sabato sera nei mesi di gennaio e febbraio del 1990, venne girata tra Torino e il Ricetto di Candelo, un borgo medievale nei pressi di Vercelli. Nel cast, a interpretare sè stessi, anche Pippo Baudo, Wanna Marchi che vendeva pomate contro la peste, il giornalista Pietro Badaloni che l’arrivo della peste lo annunciava al telegiornale. «Avremmo anche voluto Mike Bongiorno nei panni dell’Azzeccagarbugli, ma non fu possibile perché aveva un contratto d’esclusiva con Mediaset. “Mi sarebbe venuto bene…” ci diceva».
Fu un successo strepitoso, con una media di 11 milioni di spettatori, confermando che c’era spazio per quel tipo di televisione: una trasmissione comica dall’inizio alla fine. «Fino ad allora, i comici avevano spazio solo in piccoli interventi all’interno di spettacoli generali. Spesso la comicità è vista come qualcosa di serie B. C’è un pregiudizio. Allora ci davano dei qualunquisti perché non facevamo satira. Il fatto è che allora la satira la facevano tutti. Noi volevamo altro».
L’intervista è stata inframmezzata da interpretazioni che hanno trascinato il pubblico: la gita di Fantozzi a Postumia, la “Quercia del Tasso” di Achille Campanile, la “Silvia” di Giacomo Leopardi recitata con le cadenze regionali più saccentuate e alla fine cantata in napoletano sull’aria della celebre “Malafemmina”. E la “Luisona” di Stefano Benni.
Tra gli aneddoti, un Paolo Villaggio vendicativo nei confronti di un Silvan strafottente, un Alberto Sordi caustico nei confronti di Maurizio Micheli e la serata della bomba al Teatro Sistina di Roma. Nel senso che la solita telefonata anonima aveva annunciato la presenza di un ordigno in platea mentre era in scena proprio il Trio. Avrebbero dovuto far sgomberare la sala, ma ogni annuncio prima di Solenghi e poi di Marchesini ma anche degli stessi carabinieri in divisa era accolto dal pubblico con applausi e risate. Per liberare il teatro si dovette fingere che lo spettacolo fosse finito: sipario aperto, scena vuota, luci in sala. E gli spettatori se ne andarono un po’ sorpresi. Naturalmente, la bomba non c’era, però all’uscita dal teatro, Solenghi fu raggiunto da uno spettatore: «Complimenti. E che idea, quella della bomba. Grande!».
Spazio anche all’impegno animalista, alla scelta di essere vegetariano per via dello strano incontro del vecchio labrador Jocker che in un parcheggio dell’autostrada scambiava effusioni con uno dei maiali rinchiusi in un camion avviato al macello. «Non è necessario mangiare carne. Si può vivere di vegetale». Dall’animalismo all’ecologia e alla necessità di impegnarsi per salvare il Pianeta.
Intanto, il futuro personale è quasi un ritorno all’infanzia: «Tecnicamente sono un pensionato ma lavoro ancora. E ho deciso di fare quello che volevo fare da tempo: portare in scena le commedie di Gilberto Govi che per noi genovesi è un mito. Quando avevo sette anni e abitavo a Sant’Ilario, un giorno si diffuse la voce che in un ristorante del paese stava pranzando Govi, noi bambini ci precipitammo per farci fare l’autografo. L’autografo chissà dov’è finito, perso nei vari traslochi, ma di quel giorno mi è rimasto il ricordo di quel vecchietto pacato, pensando che avrei voluto essere come lui. Così, ora, ho deciso di trasformarmi in Govi: non lo interpreto solo, lo clono: un’ora e passa di trucco per assomigliargli».
D.C.