Lecco: 'non siate gregge', la vedova Calabresi racconta la sua storia di perdono e fede
“Ciò che sembrava impossibile, era diventato possibile”. È una storia di perdono e di fede quella che Gemma Capra, vedova del commissario Luigi Calabresi, ha raccontato ieri sera di fronte ad una sala Don Ticozzi gremita. Quella stessa storia si trova nel libro “La crepa e la luce. Sulla strada del perdono. La mia storia”, uscito l’anno scorso per Mondadori.
“Oltre ad essere un libro di dolore, questo è anche un libro di speranza. Ho scritto queste pagine perché volevo restituire la speranza che ho ricevuto negli anni da parte di persone sconosciute. Persone che mi hanno scritto, mi hanno fermato per strada per esprimere il loro sostegno. Grazie a questi semplici gesti, non mi sono mai sentita sola” ha esordito l’autrice. “Ho scritto un libro su come si può tornare ad amare la vita dopo un dolore lacerante, credere negli altri dopo la calunnia e il tradimento, cambiare idea su chi fino ad un momento prima vedevi come il male assoluto. Dopo tanti anni, ho pensato di condividere con i lettori il mio cammino verso il perdono. Esso ha rappresentato la scelta più importante della mia vita”.
Giuseppe Elia
Organizzata dalle Acli Provinciali di Lecco, la serata si era aperta con i saluti di Giuseppe Elia, presidente delle Acli, Carlo Malugani, consigliere della Provincia di Lecco, e del sindaco Mauro Gattinoni.
Dopodiché, sul palco, assieme a Gemma Capra, è rimasto il giornalista lecchese Gerolamo Fazzini. “Il perdono per te è stato il punto di arrivo di una strada molto lunga” ha evidenziato proprio quest’ultimo. Una strada iniziata il 17 maggio 1972, il giorno in cui fu ucciso il commissario Calabresi. In quel momento, Gemma Capra aveva venticinque anni, due figli piccoli e un altro in arrivo. “Sembrava una mattina come tutte le altre. Avevamo bevuto il caffè insieme poi Gigi era uscito e io stavo dando la colazione ai bambini. Ad un certo punto l’ho visto passare di nuovo in anticamera. Ha sostituito la cravatta rosa di seta con una bianca di lana candida. Mi ha chiesto come stava e io gli ho detto che stava bene come anche con la cravatta precedente. Lui mi ha risposto: si, ma questa è il simbolo della mia purezza” ha raccontato la vedova Calabresi. “Quelle parole sono state fondamentali per noi. Sono state il suo testamento. Io non ho sentito gli spari. Ad un certo punto, uno dopo l’altro, sono arrivati i colleghi e gli amici di mio marito. Tutti tergiversavano. Poi è arrivato don Sandro, il mio parroco. Gli ho chiesto di dirmi la verità e lui, senza emettere un suono, mi ha detto che Gigi era morto”.
Gemma Capra
L’incredibile potenza di un racconto profondamente umano ha conquistato l’attenzione e i cuori di tutti i presenti, compresi i tanti studenti delle scuole superiori Leopardi e Maria Ausiliatrice giunta in sala Don Ticozzi con i loro professori per assistere all’incontro. “Mentre ero lì sul divano con don Sandro che mi teneva la mano ho percepito una sensazione di pace e di forza. Ho sentito che ce l’avrei fatta. Poco dopo, ho chiesto al parroco di recitare un Ave Maria per la famiglia dell’assassino, la quale avrebbe avuto un dolore peggiore del mio” ha proseguito la signora Capra. “Quelle parole non potevano essere farina del mio sacco. Qualcuno stava testimoniando attraverso di me e mi stava indicando la strada. Quella mattina io ho ricevuto da Dio il dono della fede, qualcosa di diverso dalla religione. La fede è la vita stessa, ti accompagna sempre”.
È questo il punto di inizio di un percorso che ha portato l’impossibile a divenire possibile. Un percorso costellato tanto di momenti drammatici quanto di istantanee dense di significato. “Nei primi mesi dopo l’omicidio di mio marito, ero a casa dei miei genitori e per dormire mi davano un sonnifero. In quel breve lasso di tempo prima di addormentarmi, io facevo fantasie di vendetta contro i terroristi e quelle fantasie mi davano soddisfazione. Nel tempo, ho capito invece che l’odio e il rancore ti divorano e ti impediscono di vedere le cose belle che ancora di riserva la vita. Come cristiana, ho quindi scelto di perdonare” ha raccontato ancora Gemma Capra. “Ho scoperto i segni. Essi fanno parte della nostra vita. Dobbiamo saperli vedere, leggere e accettare. Tra i tanti segni ne ricordo uno, avvenuto durante il processo. Ho visto uno degli imputati recarsi in fondo alla sala per salutare il figlio. Lo ha abbracciato e baciato con grande tenerezza. Ho pensato che non quell’uomo non fosse solo un assassino ma anche un buon padre”.
Frammenti di vita come questi diventano la cornice di una potente domanda. “Che diritto ho io di relegare un individuo all’atto peggiore che ha commesso? Piano piano ho ridato ai terroristi la loro dignità di persona, la loro umanità, la loro vita con tutte quelle sfaccettature. Esattamente il contrario di quello che loro facevano quando sceglievano un obiettivo: lo disumanizzavano” ha aggiunto la vedova Calabresi rivolta ai ragazzi nelle prime file. “Giovani, non siate gregge. Non andate dietro a chi grida più forte. Prima di esprimere un giudizio cercate di capire, pensate. In quel periodo storico tanti gridavano e pochi pensavano”.
Non a caso, il culmine di questa storia è un incontro reso possibile da una persona che, come ha ricordato il figlio Giulio Napolitano durante le esequie di ieri a Roma, “non sopportava demagogia e urla”. “Era il maggio 2009 e il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano voleva dare al paese un forte segno di pacificazione rispetto agli anni di piombo. Quando sono entrata al Quirinale, la vedova dell’anarchico Giuseppe Pinelli era già lì quindi sono andata subito da lei” ha ricordato Gemma Capra. “Ci siamo guardate negli occhi e ci siamo abbracciate. Io ho detto: “finalmente”. Lei ha risposto: “peccato non averlo fatto prima”. Era una certa stampa, una certa politica e una certa ideologia che ci vedevano nemiche contrapposte. Porto nel cuore quell’incontro con tanta gioia”. Ecco, l’impossibile è diventato possibile.