Festival Treccani: i 'no' di Nada, in cerca di parole sue

Un successo folgorante fin dagli esordi: aveva quindici anni quando debuttò al festival di San Remo con “Ma che freddo fa”, canzone finita nel novero dei brani intramontabili. Un futuro spalancato. Finché, pochi anni dopo, decise che no, che lei certe canzoni non poteva più cantarle, «quando mi arrivavano le proposte, mi dicevo che io quelle cose non le avrei dette mai»: rifiutava, le davano della pazza, «ma sono toscana, anzi di Livorno, ho la testa dura». Ha scelto di “svoltare”: cantare sì, ma altre «altrimenti mi sembrava di prendere in giro il pubblico».
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Nada
Intervistata dallo scrittore Paolo Di Paolo, Nada ha raccontato il proprio singolare percorso artistico nell’ultima serata musicale del Festival Treccani della lingua italiana. Partendo naturalmente dalla parola “stupore” che guida questa edizione del festival: «Una parola dal doppio significato, ma a me ispira il bello. Mi viene in mente lo stupore della bambina davanti alle cose semplici».
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Per poi proseguire raccontando delle proprie scelte che l’hanno allontanata da una strada forse già spianata e lungo la quale «naturalmente avrei fatto più soldi» per imboccare sentieri più difficili alla ricerca di una propria autenticità, scontando anche incomprensioni, per dare un senso alle parole.
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Dopo anni di ribalta, c’è stato quasi un ritiro, un lungo ritiro. Importante è stato l’incontro con Piero Ciampi, cantautore e poeta, anch’egli livornese, «una vita pazzesca». La collaborazione fu breve, non poteva durare, «lui non poteva seguirmi e io non potevo seguire lui». A quel punto Nada si mise a scriverli lei, i testi delle sue canzoni: «Mi dicevo: se io devo continuare a cantare, a parlare alle persone devo fare altro. Cominciai a lavorare sulle parole. Le canzoni sono cose piccole e semplici, ma sono importanti proprio come le cose piccole e semplici. Bisogna prendersene cura. Sparii dalla circolazione. Per due anni mi chiusi nella mia casa e cominciai a sperimentare: scrivevo, scrivevo e stavo bene anche se non mi volevano più. Ho cominciato a mettere sulle musiche inglesi parole in italiano, anche in latino, un pezzo delle “Confessioni” di Sant’Agostino che magari non capivo ma che mi serviva per sentire il ritmo delle parole, misurare certe tronche. Venivano fuori canzoni da quaranta minuti… Dentro, c’era tutto. Piano piano ho capito che potevo farlo. Ci ho lavorato, lunghezze ridotte, tagli. E agli inizi degli anni Novanta è uscito un disco con le mie canzoni. Era un lavoro intellettualmente onesto».
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Paolo Di Paolo

Un lavoro che spesso non significa successo, «ma cosa significa poi successo?». E Di Paolo a suggerire: «Come dice Erri De Luca, è solo un participio passato». E poi avvengono cose strane: «Come il disco che incisi nel 2004. Come canzone da “singolo” scelsi “Senza un perché”: E gli altri dirmi che no, che non avrebbe funzionato. Insistetti, la spuntai. Non se la filò nessuno e tutti a dirmi che sarebbe stato meglio li avessi ascoltati. Però per un po’ è stata prima in classifica… in Groenlandia! Non è mica roba da tutti! Poi, dodici anni dopo mi chiama il regista Paolo Sorrentino e mi chiede se può usare una mia canzone per la sua serie televisiva (“The young pope”). Ero lusingata, stimo Sorrentino, pensavo volesse “Amore disperato” e invece mi chiede proprio “Senza un perché”. Sono rimasta senza parole».
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E anche oggi «che sono diventata grande» per età, certe scelte sembrano spiazzanti: «Per esempio, mi ha cercata un gruppo sconosciutissimo chiedendomi di cantare una loro canzone. Era una canzone bellissima e ho detto sì. Mi hanno portata in uno studio di registrazione improvvisato, sembrava un pollaio. Io non so se riusciranno mai a produrre quel disco. Non gli ho chiesto niente come compenso, mi hanno pagata in vino: loro producono il vino... In un’altra occasione, invece, un cantautore affermato mi ha chiesto di cantare con lui nel nuovo album: mi ha sottoposto la canzone: non l’ho nemmeno ascoltata tutta, ho spento, mi sono chiesta: “Ma come si fa a scrivere cose così brutte? Ho detto di no e anche lì tutti a dirmi che ero matta…»
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Non se ne ricordava più, ma già da bambina c’era la voglia di scrivere: «In realtà, volevo occuparmi di astronomia. Vivevo in campagna e le notti stellate erano qualcosa di grande. Poi, quando ho pubblicato un primo libro, mia sorella che è più grande di me ed è stata una seconda madre è venuta a portarmi un quaderno delle elementari dove appunto avevo scritto che avrei voluto fare la scrittrice. Non ero una secchiona, ma a scuola ero bravissima. Certi temi… L’insegnante non li leggeva nemmeno più… Il fatto è che per scrivere occorre avere un certo amore per la parola, il raccontare è una cosa intima, è un raccontare a sé stessi».
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E in effetti mettersi a scrivere un libro, il primo fu “Le mie madri” uscito da Fazi nel 2003, non fu impresa facile. A convincermi fu Simone Caltabellotta, il mio editore attuale che allora editore ancora non era: ascoltando le mie canzoni mi diceva che dietro quelle parole c’era molto di più, che dovevo approfondire, devo scrivere… ero incerta, non volevo. Mi convinse dicendo. “Scrivilo e poi decidi cosa farne”». Oggi i libri sono all’attivo sono quattro «e devo ringraziare Simone. Perché credo che scrivendo sono diventata una persona migliore. Per gli altri: li amo di più, li capisco di più»». Al primo sono seguiti “Il mio cuore umano” nel 2008, “Leonida” nel 2008 e “Come la neve di un giorno. Una visione” uscito proprio in questi giorni.
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E anche di quest’ultimo libro si è parlato durante la serata con Di Paolo: una storia “fantastica”, una storia sul sentimento del tempo, «il tempo che viviamo e un altro tempo che oltre, che è dopo ma che dentro sentiamo. Io non sono credente o cattolica, ma credo che ciascuno ha i propri punti di riferimento ed è giusto così. Però io credo che fuori da questo tempo c’è un altro tempo».
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E poi il rapporto con la natura «che è la mia religione, anche i temporali dei quali oggi si deve aver paura, ma hanno una forza e ti fanno sentire parte di qualcosa di grande, oltre la nostra vita quotidiana. E il tramonto è una preghiera».
Una parola del cuore? «Sacrificio».
D.C.
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