Festival Treccani: lo 'stupore' del successo e il valore della 'condivisione' nelle parole di Diodato

«Una lunga gavetta, come quelle che si facevano un tempo» dice l’intervistatrice: una nascita casuale ad Aosta, una giovinezza a Taranto e poi vent’anni in una Roma un po’ indolente ma bellissima «dove ho ancora tanti amici»; successivamente il trasferimento a Milano dove vive oggi e dove «sono diventato più produttivo». Tanti lavori precari alle spalle, dal cameriere alla distribuzione di volantini, il conto corrente in rosso «che quando era a zero mi sentivo ricco e uscivo a cena». E tanto studio, tanta fatica. Fino all’anno magico che è stato il 2020 quando a febbraio ha vinto il festival di Sanremo con la canzone “Fai rumore” poco prima che l’Italia chiudesse per il covid. Poi, a maggio il David di Donatello per la canzone “Una vita meravigliosa” nella colonna sonora del film “La dea bendata” di Ferzan Ozpetek.
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Antonio Diodato

Il cantautore Antonio Diodato è stato protagonista ieri sul palco del Festival Treccani della lingua italiana, nella prima delle tre serate musicali in calendario.
Intervistato dalla giornalista Valentina Farinaccio, non si poteva che partire dalla parola “stupore”, il filo conduttore di quest’anno del festival. «Una parola importante che mi ha cambiato la vita»: lo stupore di fronte a ogni espressione d’arte, agli amici e ad altri artisti che andavo ad ascoltare cantare e sembravano inarrivabili, lo stupore che «pertanto è stato un motore», ma anche lo stupore provocato agli altri «a cominciare dai miei genitori come quando mio papà è venuto per la prima volta ad sentirmi».
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Poi, appunto, quel festival particolare, «e lo ricordiamo tutti» la chiosa di Farinaccio, perché appunto avvenuto alla vigilia della clausura per la pandemia. E allora con quella canzone «sei diventato un patrimonio dell’umanità».
«Il festival – ha ricordato Diodato – è un grande momento di condivisione del nostro Paese. Lo guardano tutti anche quelli che dicono di non guardarlo. E tu entri nel dna del Paese. E’ una sensazione stranissima. E’ stato un momento molto forte, doloroso ma nello stesso tempo bellissimo: è stata la canzone di quel momento lì e vederla entrare in profondità a molte persone fa un certo effetto. Era un momento in cui ci si è tornati ad ascoltare perché la vita furibonda si era fermata». Blindatissima anche la proclamazione del Davidi Donatello in piena emergenza sanitaria: niente pubblico dal vivo e il cast ridotto all’essenziale, la cerimonia da seguire in tv. 

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«Ero a casa – il racconto – seguivo Carlo Conti in televisione. Davvero, al David di Donatello non si sa davvero fino all’ultimo momento chi è il vincitore. E quando Conti ha comunicato che il vincitore ero io ho esultato, ma mi sono contenuto. Ero a casa da solo. Mi sono alzato dal divino e ho stretto i pugni. Poi mi sono subito ripreso, e un po’ vergognato. Ma il mio vicino di casa, un professore di religione, si è messo a battere i pugni nella parete per congratularsi».
Alla cerimonia del David ci è andato in un’edizione successiva: «Sapevo di non vincere, ma volevo respirare quell’atmosfera che non avevo potuto. Ci sono andato con mia madre: fermava tutti gli attori, glieli presentavo e le facevano i complimenti dicendole che avrebbe dovuto fare l’attrice. Mia madre è una donna bellissima, gongolava».
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Una storia cominciata al liceo, quando «scrivevo canzoni senza farle ascoltare a nessuno. E quando ho scritto la prima, mi sono accorto che la lingua italiana è complicatissima. Allora ho cominciato a scrivere in inglese: almeno io credevo fosse inglese, ma quando ho fatto ascoltare un brano a una madrelingua, lei mi ha detto: “Bella canzone, ma che lingua è?”. A quel punto mi sono misurato con la canzone italiana, ascoltavo De André e mi dicevo che forse sarebbe stato meglio facessi altro. Poi Tenco, Modugno, Lauzi. E Mina che era mia zia, nel senso che mia zia cantava le canzoni di Mina, ne aveva anche registrate una decina e le ascoltavo in auto con mia madre. E quindi, per me, Mina era mia zia, aveva anche una voce simile. E’ stato a Roma che ho cominciato a scrivere canzoni per “mestiere”. In realtà non sapevo bene cosa fare: per un po’ ho studiato anche cinema che è una mia altra passione. Ho studiato tanto e ho capito che l’arte non è un capriccio ma qualcosa che serve alla società. E allora ho cominciato seriamente». Anche se «le canzoni, le scrivo soprattutto per me stesso, per conoscermi. E’ faticoso scrivere: una parola cambia completamente da come la dici, cambiano il senso e le reazioni del pubblico».
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Di parola in parola. Dopo stupore, la parola più importante è condivisione: «Mi ha salvato la vita, la condivisione mi arricchisce. Da soli non si va da nessuna parte».
Tra una “confessione” e l’altra, Diodato ha eseguito le sue canzoni: naturalmente “Una vita meravigliosa e “Fai rumore”. E poi, “Babilonia”, “Adesso” e due brani del suo ultimo album “Così speciale”.
Infine, l’autografo sul poster “Stupore” del festival e in regalo la nuova edizione del Vocabolario della lingua italiana Treccani. Sul palco anche la curatrice, Valeria Della Valle.
D.C.
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