Vita da Capanat/9: per Marco Madama al Bietti Buzzi la vita è più reale che a valle, nonostante i clienti

È Marco Madama il protagonista dell’ultima puntata di “Vita da Capanat”. Per il 56enne di Abbadia Lariana, il rifugio Bietti Buzzi ha rappresentato l’inizio di una nuova vita. 
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Marco Madama

“Nel 2014, a 47 anni, ho perso il lavoro. Sono istruttore regionale di alpinismo, mi è sempre piaciuta la montagna. Così, quando ho sentito che il vecchio gestore lasciava, ho fatto domanda” ha esordito. “Fare il rifugista significa fare un po’ tutto: elettricista, falegname, cuoco. Ma quando fai un lavoro che ti piace, le fatiche sono relative. Mi sembra più reale la vita qui che a valle”. 
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Aperto nell’ottobre del 1886, il rifugio Bietti è stato di proprietà del CAI Milano fino al 2006 quando la famiglia Buzzi di Mandello, titolare della CEMB, lo acquisì per poi donarlo al CAI Grigne. “Dispongo di una quarantina di coperti all’interno più i tavoli fuori. I posti letto, invece, sono venticinque. Siamo aperti tutti i giorni dal 1° giugno al 30 settembre salvo imprevisti mentre in primavera o in autunno solo nei weekend. Con me lavorano due dipendenti” ha proseguito il rifugista. 
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Percorrere il sentiero che dal Cainallo porta al rifugio di prima mattina significa passeggiare tra branchi di camosci che pascolano sui pendii erbosi o saltano tra le rocce. “Una volta gli escursionisti che andavano sul Grignone partivano da Mandello e si fermavano qui a dormire. Ora, da quando c’è il parcheggio al Cainallo, accade sempre di meno perché in tre ore si è in vetta. Hanno ricominciato a venire quelli che vanno a scalare a Sasso Cavallo” ha evidenziato Madama. “Per il resto, vengono soprattutto le famiglie e i gruppi di amici a mangiare. Di stranieri ne stanno arrivando tanti nell’ultimo periodo. Peccato che manchi completamente la manutenzione dei sentieri. Una volta c’erano gli anziani o comunque i gruppi del CAI che facevano la manutenzione ma ora non se ne occupa più nessuno”. 
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Ma questo non è l’unico problema. “La gente arriva senza rendersi conto di dove si trova. Pensano che il rifugio sia uguale all’albergo giù in paese. Ti chiedono un cappuccino oppure la camera singola con un bagno. Una volta ti insegnavano che al rifugio si mangia quello che c’è e si portano a casa i rifiuti. Oggi manca completamente la cultura della montagna ma non è colpa solo dei turisti” ha raccontato Madama. “Il termine rifugio è oggetto di una speculazione, sviluppatasi a partire soprattutto dalle Dolomiti. Se ci puoi arrivare in macchina non è un rifugio. Qui i rifornimenti si portano su o a spalla o in elicottero. Dopo il Covid è arrivata gente vestita come per andare all’idroscalo e non in montagna. Ormai si cerca poco di adattarsi a quello che è l’ambiente”. 
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La speranza è che questa serie di interviste abbia spinto anche solo una persona a prestare un po’ più di attenzione la prossima volta che si trova in quota. Solo così si può godere davvero di un’ambiente magico, ora che è ancora possibile. 
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“Per ora l’approvvigionamento idrico non è un problema perché con i temporali riempio le cisterne. Tuttavia, io qui vengo da quando ero bambino. La vegetazione è salita, i nevai sono spariti, l’erosione dei versanti è evidente” ha concluso Madama.
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Eppure, tutti sembrano concentrati a fare le ciclabili in alta quota. O, in alternativa, a chiedere un cappuccino ad un rifugio come se fosse un bar in centro a Milano.
A.Bes.
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