Vita da capanat/4: Anna Bortoletto 'custode' della bellezza del rifugio Grassi

“Perché sono venuta qui al rifugio Grassi? Forse perché è un bel rifugio in un bel posto?”. In effetti, la bellezza del paesaggio di cui si può godere una volta raggiunta la Bocchetta di Camisolo, a 2.000 metri di quota, lascia senza fiato. Un immenso prato rigoglioso e accarezzato dal vento, al confine tra la val Biandino e la val Torta. È qui che sorge il rifugio Alberto Grassi, costruito nel 1921 dalla Società Escursionisti Lecchesi e dedicato ai soci caduti durante la Grande Guerra. Dal 2006, la struttura è gestita da Anna Bortoletto.


Anna Bortoletto

“È emozionante occuparsi di un edificio con una storia centenaria. Il Grassi è un immobile molto bello, costruito con impegno e abilità. Qui c’è il sole sia d’estate sia d’inverno, cosa non scontata. Certo, il lavoro è molto impegnativo. Portiamo su tutto o a spalla o con il mulo o con l’elicottero. Siamo molto isolati” ha spiegato la rifugista di origine padovana.


 Il Pizzo dei Tre Signori


Il sentiero dal Grassi verso i piani di Bobbio

Laureata in agraria e sposata con un idraulico ballabiese, la signora Bortoletto in passato aveva già gestito una struttura sulle Dolomiti bellunesi. “Nei primi anni qui nel lecchese lavoravo part time all’Ersaf. Poi ho deciso di dedicarmi completamente al rifugio. Io e mio marito stiamo sicuramente meglio in montagna che in città” ha aggiunto la titolare del Grassi. 


L'interno del rifugio



La struttura è aperta tutti i giorni da metà giugno a metà settembre e solo nei week-end d’inverno. “Normalmente durante la settimana siamo in tre mentre il sabato e la domenica in cinque. È un lavoro pesante ma è ben retribuito. Troviamo ragazzi giovani e motivati. Vengono da noi per tre o quattro anni, d’estate fanno la stagione intera e poi d’inverno salgono occasionalmente” ha proseguito Anna Bortoletto. “Abbiamo 25/30 posti letto. In cucina usiamo i formaggi e il burro degli alpeggi qui intorno. Usiamo anche tante erbe dei prati come ortiche o spinaci selvatici. L’obiettivo è che il rifugio sia gestito bene”.




Poco lontano, il Pizzo dei Tre Signori svettava maestoso nel cielo azzurro. “Qui passano soprattutto escursionisti italiani che rimangono a dormire e poi vanno al Pizzo il giorno dopo. Sono camminatori esperti e motivati, sanno dove stanno andando e accettano anche qualche scomodità legata alle caratteristiche della struttura” ha evidenziato la rifugista. “Gli stranieri, invece, vengono soprattutto per il sentiero 101 delle Orobie. Quest’anno, però, non ne sono arrivati molti. Dopo il Covid, inoltre, tante persone si sono approcciate alla montagna senza avere l’esperienza e le capacità necessarie. Penso però che con il tempo impareranno anche loro”.


Il sentiero che sale dalla val Biandino



Accanto al rifugio, un pendio sassoso nascondeva gli ingressi della vecchia miniera. Fino agli anni Sessanta, infatti, in quest’area si è scavato alla ricerca di minerali d’argento e piombo. “Oggi quel versante mostra chiaramente i segni del cambiamento climatico. Ormai nevica solo sopra i mille metri: quando accade i fiocchi, bagnati e pesanti, erodono i pendii e le cime. Abbiamo messo delle assi di legno lungo i sentieri altrimenti l’acqua li distrugge portandosi via terreno e sassi. È un lavoro molto importante” ha concluso Bortoletto. “Da vent’anni a questa parte è diventato sempre più faticoso raccogliere l’acqua necessaria a garantire il funzionamento dei bagni e della fontana. Nevicando poco, d’inverno la sorgente gela e pertanto noi siamo obbligati a utilizzare le cisterne per raccogliere la pioggia. Ne abbiamo ovunque, e per i servizi igienici usiamo l’acqua non potabile”.
Parole che racchiudono alla perfezione la fragilità di uno dei nostri patrimoni più preziosi: la montagna.

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A.Bes.
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