Lecco Film Fest: con Marco Bellocchio un ampio confronto a partire dalla vicenda di Edgardo Mortara

Era uno dei momenti clou della due giorni conclusiva del Lecco Film Fest, l’incontro con il regista Marco Bellocchio e il confronto con il prevosto don Davide Milani sul film “Rapito” che il cineasta ha dedicato alla vicenda di Edgardo Mortara, il bambino ebreo sottratto alla famiglia dalla Chiesa cattolica di Pio IX, nel 1858, perché battezzato segretamente da una domestica, film uscito proprio nelle ultime settimane e proiettato giovedì sera nell’ambito della stessa rassegna lecchese. E in effetti l’appuntamento di ieri ha richiamato numerose persone, molte quelle rimaste in piedi, davanti al palchetto di piazza XX Settembre.
Dopo un’introduzione di Rosario Tronnolone, redattore della Radio Vaticana che ha offerto un ritratto di Bellocchio, la parola è passata a don Milani che ha ricordato come la vicenda Mortara all’epoca abbia infiammato il mondo e sia una ferita ancora aperta per la Chiesa e per gli ebrei, che pesa nei rapporti tra le due religioni.


Marco Bellocchio

Già Steven Spielberg e Julian Schnabel avevano pensato di girare un film su quell’episodio, poi non se ne fece niente. Da parte sua, Bellocchio ha spiegato come nella storia di Edgardo Mortara che, ospitato in Vaticano, diventò poi prete distinguendosi nello zelo con cui si dedicava alle conversioni, «c’era qualcosa di lontanissimo dalla mia vita, ma che in qualche modo si connetteva alla mia esperienza personale. Sicuramente, quel bambino subì una violenza. In Vaticano era trattato gentilmente, ma venne straziato. Fu obbligato a convertirsi. Alcuni cattolici ritengono che la conversione sia un miracolo. Io non lo credo. Nel cattolicesimo che io ho imparato c’era una violenza che consisteva nell’incuterci una certa paura se non il terrore nei confronti del peccato. Guai a morire in peccato mortale. Queste cose oggi non si dicono più. Però allora si dicevano ed è stata proprio questa violenza a mettermi in contatto con l’esperienza di Edgardo Mortara».


Su quell’esperienza e su come è stata raccontata in “Rapito”, don Milani ha offerto la propria lettura: «Un film sul potere, il potere della corruzione, il potere degli affetti, il potere della famiglia. E in una forma che non ci aspettavamo, anche quello della Chiesa che travalica». Ma è anche un film sulla libertà, sui processi che portano ciascuno a essere libero: «Le cose che più mi piacciono – ha spiegato il regista – sono i salti di libertà. Quando mi ribellavo a un certo conformismo e non accettavo le imposizioni. Ho sempre ritenuto intollerabili quelle figure che nella vita si sono poste come autoritarie, compresa quella di un padre autoritario. Non sono ateo, ma non sono credente, però la mia educazione è stata cattolica e una certa gentilezza nasce proprio da quella formazione; è un’impostazione che avrò fino alla morte. E ci sono anche alcuni aspetti positivi. Come la gentilezza, appunto, e certe forme di sincerità. Mia mamma non capiva le mie posizioni, ma certi cattolici sì. E allora quando si parla di dialogo tra ebrei e cristiani bisogna includere anche i non credenti. Ed è più che necessario in questo momento storico in cui possono accadere cose terribili. Apprezzo il Papa che rinuncia a usare certe parole come conversione e missioni, un tempo centrali per la chiesa come la stessa storia di Edgardo Mortara che fu poi un missionario».


Sulla destra don Davide Milani

Il confronto ha toccato anche la scena forse più emblematica del film, quella in cui il piccolo Mortara estrae i chiodi da un crocefisso liberando così Gesù. Una scena che si è prestata a molte e diverse interpretazioni. Secondo don Milani, quel gesto rappresenta «il tentativo di liberare la fede dalla religione, togliere la religione di Stato».
Interessante, ha replicato Bellocchio, ma «nello scriverla scena vedevo un bambino veramente dilaniato: ha ricevuto amore dai propri genitori, ma si sente compromesso con il Papa (il secondo padre) che lo tratta gentilmente. E allora con quel gesto è come se il piccolo volesse la riconciliazione, che i suoi genitori andassero d’accordo con il Papa per poter vivere la propria infanzia. Il mistero che più mi ha colpito e al quale non ho saputo dare delle risposte è quando, dopo la breccia di Porta Pia, un fratello di Edgardo lo va a prendere, ma lui dice “resto col Papa”. E ciò accresce il mistero».
Si è parlato poi di rigore storico («Abbiamo cercato di difendere la vera storia di Edgardo Mortara con qualche libertà perché un film non è un libro di storia»), e del rapporto con il sacro che è tema ricorrente nelle opere di Bellocchio, come ha sottolineato il prevosto.


«C’è uno stupore – ha detto il regista -: se sono amico di qualcuno che stimo e di cui ammiro l’intelligenza e anche il coraggio, poi scopro che è un credente, beh, non è che gli nego la mia amicizia. Però dico: “Ma amico mio, non so che dire. La tua fede non mi penetra”. Questa assurdità della fede la guardo con estrema attenzione, ma la strada comune è la bellezza, una strada illogica e irrazionale che può accomunare credenti e non credenti. Mio fratello in un suo libro scriveva che la Chiesa deve raccontarci i grandi artisti, non qualche teologo. Perché sono i grandi artisti che hanno raccontato la religione al popolo». Citando poi il film “Ordet” del danese Carl Theodor Dreyer (programmato proprio l’anno scorso dal Lecco Film Fest su suggerimento di Carlo Verdone), Bellocchio ha aggiunto che di fronte alla scena finale del miracolo della resurrezione di una donna, «non è che sono diventato credente, però mi sono commesso». Dal rapporto con il sacro a quello con la Chiesa «che – ha detto don Davide – un po’ ti ha temuto, ti ha visto come avversario, come chi lanciava provocazioni e sfide. Poi, passo dopo passo, si è capito che il tuo cinema ha fatto anche del bene alla religione e a un concetto innegabile della storia cristiana, quello secondo cui non possiamo non dirci cristiani. Ci ha aiutato ad avere dei dubbi. Ai cristiani non mancano le risposte: quelle si trovano nei Vangeli, mancano i dubbi». E con il film “L’ora di religione” (2002) si è vista l’apertura...


Beppino Englaro

A chiudere l’incontro, una riflessione sul papato di Francesco: «I suoi temi – parole di Bellocchio – non è che siano più a sinistra della sinistra, ma la sinistra non può non riconoscerli. L’insegnamento dell’amore per il prossimo l’ho sempre considerato un’ipocrisia, ma se venisse applicato... Il Papa dice certe cose e ci crede. Come sulla guerra».
Ad ascoltare, tra il pubblico, c’era anche Beppino Englaro, il padre di Eluana, al cui dramma lo stesso Bellocchio si è ispirato per il film “La bella addormentata” (2012). Salutato anche da don Milani, è stato definito da Bellocchio un eroe. E così, gli applausi finali sono stati anche per lui, protagonista di un’altra vicenda che è essa pure una ferita ancora aperta.
D.C.
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