SCAFFALE LECCHESE/154: Orlando Sora in città con la sua arte (non solo pittorica)

Pittori, tanti. Poi, c'era ''il'' pittore: Orlando Sora. Per decenni a Lecco è stato il ''maestro'' riconosciuto. Lo ricordano gli affreschi in edifici pubblici e privati. E lo ricorda, naturalmente, l'acrilico che copre la volta del Teatro della Società, considerato dai lecchesi una sorta di testamento.

Nato a Fano nel 1903 - e dunque 120 anni fa tondi: anniversario celebrato in questi giorni da una mostra alla varennese Villa Monastero - Sora era venuto ad abitare a Lecco nel 1931, a Lecco era rimasto e vi si era praticamente ritirato accontentandosi di una fama ristretta nei ridotti confini geografici di una provincia se non di una città. Così che «a partire dal [secondo] dopoguerra le sue mostre personali e le sue presenze in rassegne collettive sono andate via via diradandosi fino a diventare rarissime e propiziate soprattutto dal desiderio di non deludere troppo l'insistenza degli amici. Un atteggiamento singolare (soprattutto mentre crescevano per i pittori occasioni e mezzi per diffondere il loro lavoro) che non nasceva sicuramente da arroganza, ma da scelte tutte interiori. Per questo Orlando Sora è un pittore che, fuori dall'ambiente lecchese dove ha vissuto e lavorato per mezzo secolo, è ancora tutto e felicemente da riscoprire»: così annotavano anni fa gli "Amici di Sora", un'aggregazione di estimatori più che un'associazione, la cui sola esistenza testimonia l'affetto e la stima dei lecchesi per il pittore marchigiano trapiantato sul lago ma da sempre considerato «uno di qui. (...) Asciutto e ferrigno com'era, si poteva credere che fosse nato non lontano dalle nostre montagne, dalla nostra città».

Del resto il «suo particolare rapporto con la committenza lecchese - come ebbe a scrivere Umberto Paramatti nel 2018 in occasione di una mostra alla Torre Viscontea ("Orlando Sora. Itinerari. Dipinti a olio e a "fresco") -, soddisfacendolo sia professionalmente che economicamente, ha probabilmente finito per non stimolarlo ad affrontare la piazza milanese e quindi, in ultima analisi, a negarsi la possibilità di confrontarsi con i grandi e venir consacrato a buon diritto tra questi».
Morto nel 1981, cinque anni dopo vi fu la consacrazione con una mostra allestita a Milano, a Lecco e a Fano, accompagnata da un catalogo edito da Mazzotta con testi di Rossana Bossaglia, Massimo Carrà, Eligio Cesana, Alfredo Chiappori. Nello stesso anno, sempre da Mazzotta, uscì il catalogo generale delle opere che riprende gli stessi testi di Bossaglia e Carrà e con le notizie biografiche dell'artista mutuate dagli "Appunti per una biografia" pubblicati sulla rivista storica "Archivi di Lecco" nel 1983 e curati proprio dagli "Amici di Sora".

E nel 2015, usciva "Omaggio a Orlando Sora. Artista del Novecento" edito dalla milanese "La Vita Felice": autrice, Giovanna Rotondo, docente tra Italia, Inghilterra e Stati Uniti, ma soprattutto a lungo modella dell'artista lecchese: esposto in terza persona, «il racconto - dice Gianfranco Scotti nella prefazione -, scritto con singolare levità, ci restituisce la figura di Orlando Sora, la sua carica umana, le sue debolezze, le sue convinzioni e le sue ostinazioni, il tutto filtrato dalla sensibilità di una giovane donna affascinata dalla personalità dell'uomo e dell'artista, grazie al quale è riuscita ad avvicinarsi alla pittura».

«L'uomo che aveva davanti era un tipo interessante - scrive Rotondo -: magro tuttavia possente, con un viso che sembrava scolpito nella pietra, capelli ricci e neri con qualche filo grigio, occhi scuti e penetranti. Si sentiva affascinata dalla sua pittura: lei, ragazzina solitaria e disadattata, aveva scoperto un mondo a cui non era mai stata esposta. (...) Lui la osservava mentre guardava il suo ritratto. Osservava l'espressione di lei che da intensa diventava lieve, distesa, con un accenno di sorriso: un sorriso diffuso, non evidente, come nella composizione. Una fanciulla sognante che si affacciava alla vita con un desiderio intimo riflesso in tutto il suo essere: nei gesti, nella posa. Non parlava, tuttavia lui avvertiva la sua emozione. E gli arrivò la domanda che lo lasciò allibito: "Ami sempre le tue modelle?" Ci pensò a lungo, passò in rassegna tutta la sua vita affettiva (e non fu facile) per concludere che era un tipo fedele: non avrebbe mai amato due donne contemporaneamente. Poteva sentire affetto per una e trasporto per l'altra, ma non avrebbe potuto amarle alla stessa maniera e nello stesso momento. Gli sembrava un po' complicato da spiegare. Aveva avuto tante infatuazioni e passioni eppure, finché durava, non girava la testa. "Sai, non ho la tua età; ho molti più anni sulle spalle" disse, quasi scusandosi, "ho una professione insolita che in genere piace alle donne" e, dopo un'altra pausa, raccogliendo le idee, "Ti dirò, mi è capitato, ma sono sempre fedele"».

L'insolito lavoro, in fondo, appare come un destino segnato e non è un modo di dire scontato. Le biografie ci raccontano di come fin dall'infanzia fanese, Sora manifesti una predisposizione particolare verso il disegno. Citiamo dagli appunti degli "Amici": «Precocemente disegna e colora duelli, battaglie apprese sui libri di scuola. Ragazzo, compie i primi tentativi di dipingere ispirandosi ai fatti della prima guerra mondiale raccontati dai reduci».

Peraltro, il ragazzo in questione non è solo matite e colori, ma ha il fuoco addosso: «Quattordicenne, quasi certamente subito dopo Caporetto, fugge di casa per partecipare alla resistenza italiana contro l'Austria, ma è riportato a casa di autorità». «Si dedica alla boxe (...) ma in realtà è un pugile solo per diletto» e nel 1919 partecipa all'impresa fiumana: «il sedicenne Orlando Sora, infiammato dai discorsi di alcuni volontari reduci dalla guerra (...) partecipa al moto insurrezionale di D'Annunzio e alla difesa della cosiddetta reggenza del Carnaro, fino a Natale del 1920».
Poi, «tornato a Fano, alterna il proprio tempo tra la boxe - che poi abbandonerà definitivamente - qualche schizzo dal vero e l'attività da cui trae modesti guadagni: incolla carta per gli scenografi (...) frequenta nella scuola d'arte della città natale il corso di decorazione pittorico».
Nel 1927, Sora ha 24 anni. Sale a Milano, espone in una galleria di Brera, viene scoperto dalla critica e nel settembre 1928 i suoi quadri saranno esposti anche a Lecco. Incontra Matilde Bertini, si sposa e nel 1930 nasce la primogenita Vanna (avrà altri due figli: Anna e Riccardo).

«La mostra di Milano del 1927 - ci racconta Gianfranco Scotti ("Un appartato magistero" nella rivista "Archivi di Lecco" del giugno 2019) - era stata visitata da un lecchese d'adozione, il toscano Ettore Bartolozzi, editore e mercante d'arte, uomo colto e dalla vista lunga che ravvisa in Sora una promessa dell'arte italiana. Lo invita a Lecco per una mostra nel 1928 e nel 1931 la mostra viene ripetuta. Non solo, Bartolozzi propone a Sora di trasferirsi a Lecco, gli avrebbe trovato un atelier e procurato i clienti. Sora accetta e prende in affitto prima un appartamento nella storica villa Martelli di Maggianico e in seguito un altro nel centro città in via Marco d'Oggiono». Successivamente si trasferirà nello studio di via Appiani che rimarrà poi per tutta la vita il punto di riferimento per allievi e acquirenti. Nasce dunque l'Orlando Sora "lecchese".

Per quanto riguarda, la sua arte, il discorso si fa naturalmente lungo e articolato essendosi Sora confrontato con le diverse sollecitazioni provenienti dalle evoluzioni e rivoluzioni dell'arte del secolo, restando comunque rigorosamente nel solco del figurativo.
Scrive Rossana Bossaglia a proposito del "Sora giovane": «Non c'è dubbio che nella fase formativa, tra le Marche (e una puntata in Emilia?) e il suo approdo a Milano (...) egli respirava aria novecentista - intendendosi con ciò il movimento pittorico "Novecento" sviluppatosi proprio a Milano negli anni Venti, ndr -, vale a dire orientamenti figurativi con deliberata espunzione dell'avanguardia, predilezione per forme ampie, stanti, portate in primo piano ma non al punto che se ne perdesse il rapporto con l'ambiente, gestualità pacata, messa in evidenza di valori sentimentali di tradizione rustico-borghese».
Poi, «intorno alla metà degli anni Quaranta - scrive Carrà parlando del "Secondo tempo di Sora" - una svolta abbastanza netta si produce nel lavoro pittorico di Orlando Sora; svolta in direzione di una più sciolta espressività del colore e nel medesimo tempo di una forma più sintetica e semplice. E' come se l'artista ormai matura nelle esperienze fin qui condotte (...) avvertisse ora l'esigenza di rinnovare il proprio linguaggio in presenza di un contesto culturale in rapida mutazione».
Ed è, questo "secondo tempo", quello probabilmente più conosciuto, lo stile per i lecchesi inconfondibile: «Una stagione creativa - scrive Rotondo - di levità sconcertante, essenziale, dove le figure si incalzano e si rincorrono lievi, serene, a volte ridenti, quasi la sua ispirazione fosse alleggerita di tanti fardelli».

Rigorosamente figurativo, si diceva. Anche se proprio Rotondo ci mostra "Spazio ragionato", un dipinto astratto che illustrava l'opera di Sora nell'Annuario Comanducci, una pubblicazione che era punto di riferimento per galleristi e artisti: «Ogni tanto - spiegava Sora alla sua modella - mi dedico a sperimentazioni pittoriche, aiutano a comprendere meglio chi siamo e che cosa vogliamo, qual è il nostro sogno» E sul fatto che apparisse sul "Comanducci": «Mi avevano chiesto delle opere e ho pensato di dare anche questa. Oggi non lo farei, ma quel giorno un diavoletto mi ha suggerito così».
Accanto al Sora pittore, c'era anche un Sora musicista del quale oggi ci si è quasi ormai dimenticati: «Negli anni - ci racconta ancora Rotondo -, le sue apparizioni e mostre personali e collettive si rarefanno, ma, nel frattempo, coltivava un'altra grande passione, quella per la chitarra classica: ogni pomeriggio, dopo aver lavato i pennelli si mette a suonare o a studiare la chitarra. (...)

Verso gli anni Cinquanta comincia ad apparire in pubblico come concertista, studia anche contrappunto per trascrivere le musiche dei grandi autori e adattarle alla chitarra classica; ha delle bellissime chitarre, dei migliori liutai del mondo, tra cui le Ramirez e una Hauser. Accompagna la Corle di Lecco, guidata dal maestro Camillucci, nei suoi concerti. (...) Suona per la Gioventù musicale. (...) Diventa amico di Segovia, il grande chitarrista spagnolo, e suona spesso con lui. Il suono della sua chitarra è limpido, armonioso: una dei più puliti che abbia mai ascoltato. (... ) Mi diceva sempre che la notte spesso non dormiva, vedeva immagini e sentiva ritmi musicali nella testa».

Dario Cercek
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